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La vittoria dei perdenti. Che cosa è il populismo?
11/03/2019|L'ANALISI

La vittoria dei perdenti. Che cosa è il populismo?

illustrazione di Michel Chabaneau
parole di Sergio Benvenuto

Secondo Ernesto Laclau il populismo non esiste. Ci sarebbe piuttosto una fase populista nella formazione di ogni nuovo movimento politico che si contrappone al paradigma in corso. Stando a Cas Mudde sarebbe invece l’espressione del popolo contro l’elite corrotta. Ma se invece il populismo fosse null’altro che la rivolta degli elettori contro i propri eletti?

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi sul populismo e sulla crisi del sistema politico democratico in Occidente. Una valanga di libri e saggi. Ne approfitto per ammannire al lettore una lunga e noiosa lista degli autori rilevanti, che potrà essere utile a chi voglia approfondire il tema: J.-W. Müller, C. Ionescu, E. Gellner, I. Krastev, B. Arditi, M. Kazin, J.B. Judis, E. Laclau, S. Zizek, P. Rosanvallon, E. Grande, B. Manin, C. Crouch, J. Heath, R. Keyes, R. Sennett, C. Mudde, P. Avril…. Tanti e diversi sguardi sull’”enigma” del populismo, la cui specificità resta però diluita nella grande varietà di “populismi”, per cui sono populisti Trump e Iglesias (leader di Podemos in Spagna), Nicolás Maduro in Venezuela e Matteo Salvini, Farage in UK e Berlusconi, Rodrigo Duterte (leader delle Filippine) e Luigi Di Maio…

A mio parere, il contributo finora più importante scritto sul populismo (tra quelli che mi sono noti) è il libro La ragione populista (Laterza) di Ernesto Laclau (che chi scrive ha recensito). Per dirla in modo drastico, in quel saggio Laclau afferma che il populismo, se inteso come un sistema di idee e di atteggiamenti specifici, non esiste: c’è una fase populista nella formazione di ogni movimento politico nuovo, quando questo movimento combina una serie di richieste e rivendicazioni secondo un paradigma del tutto diverso da quello prevalente, quando insomma un movimento o partito si mette a “cantare fuori dal Coro”.

Nei primi 60 anni del Dopoguerra, le democrazie occidentali sono state dominate dal “coro” della contrapposizione sinistra versus destra, ovvero ‘partiti socialdemocratici’ versus ‘partiti conservatori’. Questo paradigma è stato declinato in Italia, dal 1994 al 2013, come ‘Ulivo poi PD’ versus ‘Berlusconi’ (anche se Berlusconi è apparso sempre una destra anomala e spuria, da qui appunto la sua aura di “populismo”). E viene chiamato “populista” tutto ciò che in qualche modo si sottrae a quella contrapposizione, anche quando si tratta semplicemente di leader o movimenti che non esito a chiamare neo-fascisti, come il Front National in Francia, Salvini in Italia, Viktor Orbán in Ungheria, l’AfD (Alternative für Deutschland) in Germania, Trump in America, ecc. Molti politologi considerano populisti questi partiti nazionalisti, sovranisti e xenofobi nella misura in cui cantano fuori dal coro dell’opposizione ‘benpensante’ ‘sinistra contro ‘liberalismo conservatore’.

Se etichettiamo come populista chiunque si ponga fuori dall’opposizione ‘corretta’, allora possiamo mettere assieme come populisti movimenti considerati di sinistra e di destra o inclassificabili. Quel che li unisce, in effetti, è l’essere percepiti – o l’essere stati percepiti prima che andassero al governo – come opposizione radicale al “coro”. Ma al di là di tutte le varianti, secondo me c’è un hard core populista, un populismo diciamo puro, di grado zero, che, come un elemento chimico, si inserisce in composti vari, che possono andare dall’estrema sinistra all’estrema destra. Insomma, bisogna scovare una definizione, diciamo minimalista, del populismo.
Dissento da molte definizioni del populismo. Per esempio da quella di Cas Mudde:

Il populismo è un’ideologia che considera la società fondamentalmente separata in due gruppi omogenei e antagonistici, il ‘popolo puro’ versus ‘l’élite corrotta’, e che sostiene che la politica dovrebbe essere espressione della volonté générale del popolo.

L’evocazione della volonté générale è un riferimento a Rousseau, di cui riparleremo, al di là della piattaforma Casaleggio. La definizione di Mudde però non è perspicua perché il populismo non attacca come corrotta qualsiasi élite: non se la prende con i grandi imprenditori né con i più ricchi (come invece fa la sinistra), né con le élite prestigiose di artisti, cantanti, sportivi, scienziati, giornalisti, ecc. L’”élite corrotta” con cui se la prendono i populisti è sostanzialmente “la casta politica”; ovvero “i magna-magna”, espressione plebea che riassume il modo in cui sempre più le masse occidentali qualificano i politici.

Chi scrive ha elaborato una definizione del populismo puro, e confessa di essere particolarmente fiero della sua stringatezza:

Il populismo è essenzialmente la rivolta degli elettori contro i propri eletti 

Soprattutto quando questi eletti governano o hanno governato poco prima. È facile vedere, attraverso questa formula, la paradossalità del populismo che chiamo di grado zero, e delle vertiginose antinomie che essa innesca nella democrazia. Ogni democrazia regge, in effetti, nella misura in cui c’è un minimo di fiducia degli elettori nei confronti di chi li rappresenta: se questi rappresentanti vengono percepiti tutti come dei “magna-magna”, se si impone la défiance (come la chiama Pierre Rosanvallon), sospettosa sfiducia, tra elettori ed eletti, si rompe quel meccanismo di delega che fa funzionare le democrazie. Da qui la rispolveratura, da parte del grillismo, della democrazia diretta vagheggiata da Rousseau, ovvero in prospettiva l’abolizione della delega a politici. Rousseau in effetti aveva come modello la sua piccola Ginevra, città parca e virtuosa, austera e solidale (un modello che ispira certamente la concezione anti-industrialista, frugalista, dei grillini e certe loro scelte politiche anti-moderne da “decrescita felice”). Ma di fatto la democrazia diretta non è mai esistita né mai esisterà, perché anche la democrazia più partecipata crea comunque oligarchie. Ogni società, anche molto primitiva, produce delle élites. E in effetti il populismo che chiamo di grado zero – “eliminare gli eletti” – finisce col rivelarsi un boomerang per chi lo cavalca, come già stiamo cominciando a vedere con il M5S: una volta che gli anti-politici non solo vengono eletti ma addirittura governano, ineluttabilmente verranno assimilati ai magna-magna, e quindi prima o poi verranno abbandonati come “traditori”. Credo che sia il destino del grillismo: essere divorato dalla propria anti-politica.

         Il populismo di grado zero non è cominciato ieri, direi anzi che esso è l’ombra, come tale incancellabile, della democrazia. Ad esempio, esso è perfettamente articolato, quasi come un manifesto filosofico, dal cinema di Frank Capra – si vedano in particolare Mr. Smith va a Washington (1939) e Arriva John Doe (1941). E prende già forma politica nel primo Dopoguerra con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e con Pierre Poujade (il “poujadismo”) in Francia. Quel che è interessante è la tendenza di gran parte di questi populismi o “qualunquismi” di scivolare poi verso posizioni di estrema destra, come in fondo sta accadendo anche oggi in Italia con il M5S, che non a caso con-governa con la Lega xenofoba. Molti sostengono in effetti che il populismo sia storicamente un modo di traghettare masse una volta di sinistra verso l’estrema destra. Se questo è vero, bisognerebbe chiedersi come questo avvenga. Ma non affronteremo qui questo problema.

         In effetti, come rilevano le analisi dei movimenti elettorali, i partiti populisti ‘puri’ e i partiti neo-fascisti attraggono sempre più uno stesso tipo di elettorato: il voto per questi partiti attira soprattutto i meno istruiti, i meno benestanti, chi vive in piccoli centri urbani o nelle campagne, in molti casi i più anziani. Mentre la sinistra classica, quella del “coro”, oggi prevale nelle grandi metropoli cosmopolite e multi-etniche, nelle zone più ricche e soprattutto direi più swinging. Il che significa che questo voto, anche quando non è esplicitamente xenofobo e anti-immigrati, incarna una reazione epocale contro la globalizzazione. L’opposizione paradigmatica cessa di essere ormai quella ‘sinistra versus destra’, quanto ‘globalizzazione versus identitarismo localista’. Perché, per quanto una certa sinistra radicale abbia organizzato una serie di violenti festival anti-globalizzazione (vi ricordate Genova 2001?), la sinistra – radicale e moderata, la distinzione non conta più – è in realtà globalista non meno del neo-liberalismo. Un cosmopolitismo di fondo mette sinistra e destra classica nello stesso “coro” o paniere che dir si voglia. La sola differenza è che il neo-liberalismo (quello del Washington Consensus) persegue la globalizzazione del pianeta attraverso il libero mercato non più frenato dagli stati nazionali, mentre la sinistra la persegue attraverso una fraternizzazione solidarista di tutta l’umanità. In modi diversi sia il populismo di grado zero che la destra sovranista (neo-fascista) danno corpo a una istanza anti-globalista, anti-cosmopolitica, da parte di persone che, a torto o a ragione, pensano di essere penalizzate dal mondo che si globalizza, dominato dalle tecnologie di punta, o comunque di essere tagliate fuori da questo flusso. Un tempo si diceva poveri versus ricchi, oggi si dice vincenti versus perdenti. Il successo politico di partiti e movimenti populisti e sovranisti è in un certo senso la vittoria dei perdenti.

         Si dirà che una parte del malcontento premia, talvolta, anche leader di sinistra: come il socialista Bernie Sanders in US, Jean-Luc Mélenchon in Francia, Podemos di Pablo Iglesias in Spagna, persino Jeremy Corbyn in Gran Bretagna… Oggi molti di sinistra esaltano questi leader che sembrano avere un po’ di vento in poppa, ma credo che siano vittime di un fraintendimento di fondo. Questi leader di sinistra hanno largo séguito non tanto perché dicono cose di sinistra – seguendo il precetto di Nanni Moretti – ma perché appaiono appunto “populisti”, ovvero opposizione radicale al sistema dei partiti al governo, non perché di destra, ma perché “partiti”..

Prova ne sia che anche Tsipras in Grecia, che governa dal 2015, oggi crolla nei sondaggi, in vista delle elezioni politiche di questo anno, a favore di Nea Demokratia, ovvero del partito di destra maggiormente responsabile dello sfascio economico della Grecia. I popoli hanno la memoria corta. Tsipras perderà clamorosamente le prossime elezioni perché ha governato male? Non è questo il punto. Così come il PD non ha perso nel 2018 perché avrebbe governato male, secondo me. Semplicemente per il fatto che, quando un leader o partito governa, ben presto è catalogato nella “élite corrotta”. Molti dicono ingenuamente “i partiti di governo perdono le elezioni perché hanno governato male”. No, le perdono perché hanno governato, tanto basta.

         È qui che la mia analisi diverge da quelle che attribuiscono alla Grande Crisi dal 2008 le ragioni del successo del populismo (nel quale fanno rientrare i partiti neo-fascisti). Certamente la crisi economica ha svolto un ruolo importante, specialmente in Italia, uno dei paesi non ancora uscito da quella crisi. In realtà, se analizziamo ad esempio il voto leghista in Italia, l’estrema destra e il populismo attraggono anche imprenditori, studenti, personale del pubblico impiego, che non sarebbero particolarmente danneggiati dalla crisi. In sostanza, l’argomento tipico delle sinistre oggi si riassume così: “La gente meno abbiente si volge al populismo e alla destra radicale a causa dell’aumento delle ineguaglianze sociali”. L’aumento delle ineguaglianze economiche negli ultimi decenni è un fatto, ma è questo veramente a spingere la gente a votare populisti e sovranisti? Di fatto, né i populisti né i sovranisti hanno un programma di redistribuzione delle ricchezze, tutt’altro. (Il reddito di cittadinanza voluto dai grillini può essere visto come una misura di sinistra radicale, ma rientra piuttosto in una narrazione che chiamerei di assistenzialismo nazionalista). Se la causa vera, ultima, del malessere, fossero le diseguaglianze crescenti, allora tutto questo elettorato dovrebbe confluire verso la sinistra radicale. Ma vediamo che – a parte i casi summenzionati, Sanders, Podemos, ecc. – non è questo il caso. Perché?
Credo che bisognerebbe ricorrere a una chiave psicopolitica, relativizzando le spiegazioni economiciste che piacciono tanto sia alla sinistra che alla destra del “coro”. Credo cioè che piuttosto agiscano ciò che in psicoanalisi lacaniana si chiamano ‘significanti’. Ovvero, le opposizioni puramente simboliche sono non meno decisive delle sperequazioni economiche. Come si può spiegare la contrapposizione, in molti casi estremamente cruenta, tra mussulmani sunniti e sciiti se non come un conflitto simbolico?

         Certamente le masse che un tempo votavano socialista e comunista, e che oggi votano Di Maio, Salvini, o Brexit…, non votano più la sinistra, foss’anche radicale, perché in questi 70 anni dopo la guerra la sinistra ha governato spesso, grazie alla tanto celebrata “alternanza”; così tutti hanno potuto constatare che i governi delle sinistre non hanno cambiato di molto l’assetto strutturale, economico e sociale dei nostri paesi. Malgrado il governo delle sinistre in tanti paesi, le ineguaglianze sono aumentate dappertutto, nell’America di Clinton e di Obama, come nella Francia di Hollande, nella Gran Bretagna di Blair, o nell’Italia di Prodi e poi di Renzi. Ma questo non perché i dirigenti di sinistra si siano venduti al neo-liberalismo, come ripetono superficialmente molti: la verità è che la politica non ha la capacità di cambiare le strutture profonde delle società capitaliste, anche mettendoci tutta la migliore volontà (a meno di non tagliare la testa al toro della democrazia, come fa Maduro in Venezuela). La sinistra (leggi: la politica) non è in grado di cambiare processi planetari che chiamiamo globalizzazione. Anzi, ha finito – magari inconsapevolmente – con l’assecondarli.

         Ma c’è una ragione anche più sostanziale per cui le masse “perdenti” non tornano alla sinistra: perché la sinistra, come abbiamo detto, è profondamente legata ai significanti globalisti, internazionalisti, cosmopoliti, non meno della destra liberale. Da qui la sua simpatia per l’immigrazione, che è una faccia della globalizzazione (masse cospicue si spostano dai paesi più poveri a quelli più ricchi). Come ho scritto altrove, l’identità– nazionale, regionale, linguistica, religiosa, gastronomica, ecc. – è il tesoro dei poveri, ovvero dei “perdenti”. Chiunque senta di essere stato lasciato indietro dalla turbina della globalizzazione non si volge alla sinistra, che da sempre invoca il superamento delle frontiere, ma verso la destra che chiamerei provincialista. Assistiamo quindi oggi da una parte alla rivolta degli elettori contro gli eletti (populismo), dall’altra alla rivolta dei “provinciali” contro i “globalizzati” (destra neo-fascista). Perché i “provinciali” non sono necessariamente i più poveri, come i “globalisti” non sono necessariamente i più ricchi. Conosco in molte metropoli occidentali intellettuali sostanzialmente poveri, ma che sono globalizzati (e votano a sinistra): conoscono l’inglese e magari pure qualche altra lingua, vanno spesso all’estero (e non sulle crociere Costa!), seguono la produzione artistica, letteraria, scientifica e saggistica di qualità, accettano senza borbottii ogni orientamento sessuale, magari sono anche vegetariani… tutti caratteri che marcano la figura dell’uomo e della donna che chiamo globalizzati. Èquesta la figura che i “provincialisti” particolarmente detestano, non figure come Jeff Bezos né Bernard Arnault. Un macellaio ricco di un paesino del Veneto vota Salvini, un professore di scuola media dal reddito modesto che insegna a Milano vota PD o LeU. Non meno dell’economia, contano i fattori detti culturali, ovvero, per dirla come Laclau, attorno a quale “significante vuoto” ci si schieri. Certamente oggi il mondo vincente è quello che va verso la globalizzazione, perché è verso di essa che ci porta il fiume della storia; eppure è questo mondo a perdere, oggi, le elezioni.

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Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista italiano. Già Primo Ricercatore presso il CNR a Roma, dirige lo ”European Journal of Psychoanalysis”.  Tra i suoi volumi più recenti, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud(Napoli: Orthotes, 2015); What Are Perversions? (London: Karnac, 2016); Leggere Freud (Napoli: Orthotes, 2018) e Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi (Milano: Mimesis, 2018).

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