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Populismo contemporaneo, ovvero la distruzione del Comico
01/04/2017|L'ANALISI

Populismo contemporaneo, ovvero la distruzione del Comico

Populismo contemporaneo, ovvero la distruzione del Comico
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis

 

Parte prima: un gioco.

“Un politico deve essere uno psicologo. Se gli manca questa capacità, gli manca l’elemento fondamentale”. Facciamo un giochino. Un giochino pop. Chi ha scritto queste parole? Troppo poco? Sì, effettivamente, è poco. Ci vuole un piccolo aiuto. Proseguiamo: “Bisogna conoscere la psicologia degli uomini e seguirne le variazioni, in relazione al tempo e allo spazio. Ma per conoscere gli uomini e soprattutto la loro psicologia di masse, bisogna avere vissuto tra di loro. Colui che crede di governare stando sulla troppo letteraria ‘torre d’avorio’, corre il rischio dell’insuccesso”.
Teoria della comunicazione? Opinionismo? Buon senso? Sono le dispense di un Master? Un frammento di una lectio magistralis? Un intervento pubblico, magari televisivo, di una televisione che ha deciso di ripescare la propria vocazione pedagogica?
Andiamo un poco più avanti. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, l’uomo di governo non deve mai smarrire il contatto con le masse (certo, questa parola, “masse”, ma si può ancora usarla nell’età della rete….?). Passiamo allora al punto successivo, un tema più vicino e sentito, il vero grande problema della nostra cultura, della nostra civiltà, la parola fatidica, sì proprio lei, la crisi: “Qualcosa scricchiola, molti vincoli si sono allentati: taluni postulati tradizionali e basilari – come il rispetto per la vita, della casa, della proprietà altrui – franano. La sfiducia nel domani conduce a teorizzare il carpe diem e la disperazione sbocca da una parte nell’avarizia, e dall’altra nella dissipazione”. Vero, tremendamente vero. E allora?
“Se a questi aggiungete altri sintomi che ricordano, con un’analogia più che singolare, quanto accadde nelle epoche di decadenza di altre civiltà, sintomi che vanno, ad esempio, dalla efferatezza e dalla frequenza di certi delitti alla stupidità di certe gare, voi intuirete che non solo un determinato aspetto della nostra civiltà è in gioco, ma che tutta la civiltà può disintegrarsi, indebolirsi, oscurarsi nel disordine senza scopo, nella miseria senza domani”.
La “miseria senza domani”! Giustissimo.  Una definizione davvero perfetta non solo nei confronti dell’epoca, ma della vita quotidiana di ciascuno: qualcosa con cui siamo obbligati a confrontarci dall’istante in cui usciamo di casa, al momento in cui vi facciamo ritorno. L’incuria nei luoghi pubblici, la maleducazione nelle occasioni di confronto, l’indifferenza nei travagli e le sofferenze, il rifiuto per l’amore che non è il nostro, e il disprezzo per quella vita che non ci tocca.
Ancora. La “efferatezza e la frequenza di certi delitti”. C’è bisogno di evocarli? Omicidi insensati, suicidi assurdamente riparatori. Il ladrocinio e le ruberie. La corruzione e il malaffare. L’inganno e la manipolazione. Ma che cosa sta succedendo? Ascoltiamo ancora il nostro mentore misterioso: “Siamo entrati in pieno in un periodo che può chiamarsi di trapasso da un tipo di civiltà a un altro. Le ideologie del XIX secolo stanno crollando e non trovano più difensori”.
E’ vero. Le “grandi, grandissime narrazioni” prodotte dal XVIII e dal XIX secolo, il pensiero liberale, il pensiero socialista, il concetto stesso di democrazia sono ormai vuote parole, termini men che libreschi, flatus vocis. È la crisi. La crisi di una civiltà. L’interrogativo angosciante: sarà la fine di tutto, o un tormentato, ma fecondo e rigenerante infine, attimo di trapasso? La transizione verso un nuovo mondo, una nuova epoca, un uomo nuovo magari su un nuovo pianeta?
Allora, avete provato adesso a indovinare chi è l’estensore di queste righe? Siete riusciti nel gioco? Righe? Molto di più. Pensieri, riflessioni, idee. Chiare e limpide considerazioni sullo stato delle cose. Un’ultima citazione? Sì, forse manca ancora un argomento, un grande argomento, tra l’altro di stretta attualità, ovvero il tema dell’Europa: “In tutti i paesi europei regnano l’incertezza, l’inquietudine, il disagio morale che si aggiunge a quello materiale: popoli anche di antica civiltà sembrano senza guida e sono incerti sul loro destino. L’Europa non è più il continente che dirige la civiltà umana. Questa è la constatazione drammatica che gli uomini che hanno il dovere di pensare debbono fare a se stessi e agli altri”.
Volete provare, allora? Avete sette possibilità di risposta:

1 – Umberto Eco? No…
2 – Norberto Bobbio? No…
3 – Eugenio Scalfari? No…
4 – Paolo Mieli? No…
5 – Renzo Piano? No….
6 – Alessandro Baricco? No…
7 – Fabio Fazio? No…

Stop. Le sette possibilità sono state consumate. Era difficile? Un poco. Ecco infine la risposta esatta: Benito Mussolini.

Parte seconda: la morale del gioco.

Un piccolo trucco c’era. Si tratta infatti di appunti rimasti inediti, citati nel quarto volume della colossale biografia dedicata al “duce del fascismo”, a cura di Renzo De Felice. Rivelato l’autore, proviamo a tracciare il senso del giochino pop, la sua morale. Innanzitutto, quando diciamo “giochino pop”, è bene precisare che qui intendiamo dire “populista”.
Vediamo. Il populismo tradizionale, diciamo così, risiede innanzitutto nel rapporto tra la sorgente e il contenuto del messaggio che si comunica. La sorgente cancella il contenuto. Rivelato che l’autore delle righe è Benito Mussolini, il contenuto di quelle stesse righe assumerà tutto un altro aspetto, tutto un altro valore. Ci sarà chi, appassionato del duce, ne magnificherà l’acume. E ci sarà chi, disgustato dal duce, ne avvilirà il pensiero. Può capitare che coloro i quali sono disposti a una maggiore tolleranza risultano più numerosi di coloro che condannano le parole, pur in parte condivisibili, di un dittatore. Il populismo tradizionale sostiene la norma per cui il passato è sempre meglio del presente. All’epoca di Mussolini si rimpiangeva Giolitti. All’epoca di Berlusconi, si rimpiangeva Andreotti. All’epoca di Renzi, si rimpiangeva Berlusconi.
Oggi, però, accade qualcosa di nuovo: per il populismo contemporaneo, passato e presente si toccano. E si annullano. Non vale più la regola del “si stava meglio quando si stava peggio”, perché questo implicherebbe comunque un confronto tra il passato e il presente. Oggi, la narrazione del passato/futuro è annichilita. Né nostalgia, né utopia. Ciò che conta è il puro effetto-presenza. Il presente è tale per il rapporto tra un passato, che va assodato ma non desiderato, e un futuro, che va auspicato ma non realizzato.
Questa è l’epoca dei social.

A – Il passato si conferma come assolutamente passato. E’ talmente passato, che è inenarrabile. E un passato privo di narrazione, altro non è che un’illusione.
B – Il futuro si conferma come assolutamente futuro. Ed è tale e tanto futuro, che è irrealizzabile. E un futuro valutato come radicalmente irrealizzabile, è un’illusione.

Questo è l’impero del presente. Uno vale uno. Questa è l’epoca del presente imperativo, la Grundnorm del populismo contemporaneo, dove non sono in vigore le modalità del “peggio” e del “meglio”. Valgono solo gli atti linguistici performativi del “si” e del “no”. Mi piace, non piace. Si fa, non si fa.
La comunicazione populista, così, oggi può liberarsi da ogni obbligo di conformità a un qualsiasi contesto. Si può essere, simultaneamente, contro l’Europa, e favorevoli all’eutanasia. La comunicazione risulta subito produttiva: perché, in effetti, l’Europa è un passato illusorio, l’eutanasia un futuro impossibile. Il passato non si rinnova, il futuro non si realizza. Cadono tutte le tradizioni. Per quanto riguarda l’Italia, ed è davvero questione epocale, cade soprattutto la grande tradizione del comico. Cosa è il comico, per la storia e la cultura italiane?
Il comico è il genere narrativo della miseria che adotta l’arte di arrangiarsi: Arlecchino servitore di due padroni. Il comico è il genere narrativo che fa dell’inganno un capolavoro: l’erba mandragola rende tutti contenti, il marito vecchio e beffato, l’amante giovane e beffatore, la donna che da oggetto si rovescia in soggetto del desiderio. Il comico è infine la morte senza tristezza alcuna: gli amici miei di Monicelli ridono di gusto al funerale di uno di loro, si divertono perché anche la morte è in fondo tutto uno scherzo, tutta una finzione.
Gli italiani sono un popolo che per sopravvivere ha sempre dovuto fingere. Sono personaggi, ma innanzitutto personaggi che recitano, ossia attori. Il comico è il sistema narrativo entro il quale gli italiani hanno vissuto la Storia.
Il populismo contemporaneo abbatte, taglia, rifiuta la tradizione del comico. E in tal modo, recide il legame con la cultura popolare, per far trionfare, in mancanza di avversari, una cultura radicalmente piccolo-borghese.
Lo dice sempre Mussolini, che di dittatura piccolo-borghese se ne intendeva: “La gioia del borghese è quella di vedere che Napoleone, ad un certo momento della Maria Waleska, è in una specie di vestaglia, non ben definita, e si rade. Allora il borghese dice: ‘Vedete, è uguale a me!’ “. Per il borghese, il piccolo-borghese, infatti, la Storia non esiste. E’ solo una rassegna di vestaglie “non ben definite”, in cui Napoleone e se stesso sono la stessa cosa. E’ importante che la vestaglia rimanga “non ben definita”, perché deve essere l’uniforme di nessuna rappresentanza. Se non c’è “rappresentazione”, ovvero coscienza della finzione e della messa in scena, non c’è il comico. Se non c’è il comico, non vi è alcuna catarsi. Napoleone non “rappresenta” il borghese, e se non lo rappresenta, nessuna catarsi può allora purificarlo dai limiti e dai vizi. Il borghese ritiene che nel segno della vestaglia e del radersi, lui e Napoleone siano semplicemente uguali. Uno vale uno.
Il populismo contemporaneo, allora, è inscritto all’interno di una paradigma della comunicazione, uno vale uno, per cui si è tutti uguali, e non può esserci messa in scena alcuna della differenza. La cultura italiana, recisa dalle radici popolari del comico, è così affidata alla modalità integralmente piccolo-borghese della satira. La satira ha il compito di realizzare la distruzione di ogni “messa in scena” della differenza. La satira, subito, abolisce ogni possibile “messa in scena”, ovvero un regime della rappresentazione, a specchio, in cui si riflettono le contraddizioni del personaggio. Al suo posto, la satira edifica la simulazione della differenza, in cui non ci sono specchi rivelatori della vera identità del personaggio, ma copie delle realtà già stabilite e risolte della persona.

A – L’oggetto del comico, in un regime della rappresentazione, può evolvere: gli “amici miei” di Monicelli, anno 1974, annunciano già il berlusconismo.
B – L’oggetto della satira, nel regime della simulazione, è pietrificato: i “personaggi” di Crozza, sono soltanto “Crozza”, una persona sola, ossia il piccolo-borghese e Napoleone, sigillati nella magnifica e “non ben definita” vestaglia.
La distruzione del comico nella cultura italiana è un fatto epocale, di cui poco ci si occupa, e di cui non è possibile prevedere tutte le conseguenze.
Ed è stupefacente, che sia stato proprio un comico, in Italia, colui che ha stizzosamente provveduto all’avvio della distruzione del comico.


Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick. È in uscita Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese

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