parole di Luciano De Fiore
Inizio dal fondo che fondo non è. Perché i tre racconti che montano Confidenza, di Domenico Starnone, sono tra le migliori letture italiane dell’anno che se ne va. E che è bene se ne vada, se mai avesse senso esprimersi così, questo che è stato l’anno del Papeete, della politica spiaggiata. Mentre, dopo Lacci e Scherzetto, lo scrittore napoletano continua a riflettere e a scrivere – bene, molto bene – sul rebus dell’identificazione personale, sulla soggettivazione sempre più barcollante del borghese medio italiano. Il “matrimonio etico” tra Pietro e Teresa, suo primo grande amore, è il non detto in grado di svellere ogni relazione successiva, di segnare di ambivalenza tutti gli affetti altri, così come gli impegni e i relativi, normali successi lavorativi e familiari.
L’attitudine del protagonista di Starnone, Pietro, così quotidiana, è molto distante da quella di Attilio, l’eroe ritratto di Le cose che bruciano, il romanzo primaverile di Michele Serra. Perché Attilio invece è un Cincinnato che vive ormai per sottrazione: ex parlamentare ritiratosi sull’Appennino, si nega alla politica e non solo, per dedicarsi a lavori manuali come il togliere sassi dal campo, ricercando quella humilitas che gli restituisca barlumi di senso. Un po’ facile. Un destino un po’ troppo scontato, di questi tempi magri.
Forse è stato un po’ affrettato anche il ritorno al rione di Elena Ferrante, con La vita bugiarda degli adulti. Specie se poi il messaggio fosse che questi ultimi predicano bene (non dir mai bugìe!) e razzolano male, vivendo di menzogne. Non è questione di épater le bourgeois con trovate eclatanti: è evidente che si scrive pur sempre di opposizioni, più o meno le stesse, più o meno radicali: tra cultura e natura; tra mondo borghese e mondo popolare (qui i genitori colti, quelli di Giovanna, la protagonista, sorella minore – in tutti i sensi – di Lenù, vivono al Vomero, e i parenti poveri infatti vivono giù al Pascone, nella zona industriale); tra doti preclare, ma intorbidite al dunque da ipocrisia, ricatti, melancolia, e forme vitali che affondano in un’ignoranza però piena di vita, di sesso e di energia. È che di storie di formazione la Ferrante (con l’articolo, come la Pepsi o la Smart: è un brand, è già stato notato) tende a scriverne un po’ molte, specie di personaggi sudisti adolescenti, e spiacerebbe a tutti coloro che ne apprezzano la scrittura se questa diventasse di maniera.
Come ormai è diventata quella di Gianrico Carofiglio, tanto attento e acuto nell’analisi dell’attualità politica, quanto scontato nella scrittura, nel riproporre personaggi come Pietro Fenoglio, anziano carabiniere, e il suo Fedro, un giovane e dotatissimo Giulio, al quale il maresciallo in pensione regala la propria lezione di vita (La versione di Fenoglio), simile peraltro a quella appena “scoperta” dalla Giovanna della Ferrante: che cioè tutti mentono, a sé stessi e agli altri. E che se molti non sanno di mentire, alcuni invece lo sanno benissimo, e mentono sapendo di mentire.
Mentirà Carlo a sua moglie, a proposito della studentessa Margherita, in Fedeltà? Marco Missiroli si diverte ad alimentare il dubbio, senza però risolvere i nostri, cresciuti leggendo dialoghi come questo: «- Cosa mi vuoi raccontare, avanti. – Che sono diventato un idiota. – Tutti gli uomini lo diventano a un certo punto».
Chi non mente a sé stesso è Marco Carrera, l’oculista al centro della storia potente di Sandro Veronesi, Il colibrì. Proprio lui, Marco, è il colibrì, capace di starsene a mezz’aria, sospeso come l’uccellino al quale deve il soprannome, e insieme incapace di suggere fino in fondo quel po’ di dolce al fondo delle esperienze del vivere, prima che queste ci trascinino via, inesorabilmente. Anche in queste pagine si va sul classico, attraverso il conflitto tra libertà e verità. Quel che scorre è il tempo, e questo scorre verso la fine: degli affetti, e quindi dei rapporti, delle attese, della salute e della vita. Ma Marco fa spazio, nel tempo, alla speranza, proprio mentre la vita lo sottopone a prove sempre più dure, in grado di azzerargli una vita già azzerata altre volte: “solo che lo zero nella vita non esiste”. E infatti impara che per raggiungere una meta che non conosce, dovrà passare per dove non sa. Che avrà anche una morte da morire. E che potrà non essere casuale, innecessaria, distratta. Sarà infatti capace di mantenere, e insistere, su una rotta difficile, scelta nonostante i tanti lutti attraversati. Fino all’ultimo, di sé stesso, decidendo di accomiatarsi, ormai troppo malato, dal mondo dei suoi affetti, affidandosi alla mano compassionevole di un infermiere capace di pietà, replicando su sé stesso il gesto di autentica carità di cui già si era reso capace in prima persona col vecchio padre ormai alla fine, anni prima.
Una lunga passeggiata dalle tante svolte, questa dello scrittore fiorentino, e tra due fini: la prima, quella dell’amore tra Marco, il colibrì, e la moglie. L’altra, la morte stessa di Marco, stanco e assai malato, ma non al punto da rinunciare a scegliere come finire. Libertà e verità, insieme.
Machines Like Me, di Ian McEWan, ha segnato la primavera della Brexit conclamata (qui la recensione su Globus). Anche se non di uscite qui si parla, ma di entrate, nel nostro mondo, di creature umanoidi così perfette da rendere il romanzo un salutare elogio dell’incoerenza che ci distingue da macchine così ingenuamente autonome da essere solo coscienti, incapaci di fare a meno della certezza di sé. Al dunque, scopriamo però quanto sia scomodo stare accanto a persone artificiali più gentili di noi, e perfino più coerenti di noi dal punto di vista morale. Insomma, Sunt lacrimae rerum. Nella natura delle cose c’è del pianto, chiosa McEwan con Virgilio.
Invece, la scrittura dell’acclamata e fascinosa Rachel Cusk in Transiti pare guardare fissa davanti a sé, come la moglie seduta sul letto del quadro famoso di Hopper. Solo de-scritte, le salite come le discese dal salubre allo squallido. Scritture algide, e quindi apprezzate da un mondo che della freddezza si compiace, che nella perdita scorge la soglia della libertà, per quanto ingrata e scomoda. Scarne concessioni al romantico, come quando la stabilità viene scoperta prodotto del rischio e il declino frutto del tentativo, ingenuo, di mantenere immutate le cose. Come ha scritto una sua critica, la scrittrice d’origine canadese sembra l’artista giusta per un’era dissociata, una dissociata lei stessa che ci chiede dal sedile posteriore: “È questa la vita reale?”
Di una cosa, ma fondamentale, Cusk pare consapevole: della natura intimamente traumatica della vita stessa, e della difficoltà di scriver d’altro. Al dunque, la protagonista, scrittrice anch’ella, riflette sul male rendendosi conto infine «che non era frutto della volontà, ma del suo opposto, la resa. Rappresentava il disimpegno, la capitolazione dell’autodisciplina di fronte al desiderio».
Le stesse luci ristrette, i coni di luce in grado d’illuminare soltanto angoli della scena si ritrovano nelle prime pagine di narrativa del drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig. In un chiaro, gelido mattino d’inverno all’inizio del ventunesimo secolo l’illuminazione è ben scarsa: nel fascio baluginante che la scrittura lancia a tratti sulla livida campagna brandemburghese, e di lì fino alla periferia di una Berlino fantasmatica e sommersa di neve, entrano, ma solo per istanti, un vecchio lupo in apparenza smarrito, una coppia di adolescenti scappati di casa, un padre alcolizzato e ciononostante sulle loro tracce. Tracce che, come quelle del lupo, si perdono all’alzarsi del pallido sole invernale.
In primavera è stato pubblicato in italiano anche il secondo libro de L’assassinio del commendatore, sequel del primo di Murakami Aruki uscito nel 2018. Altre quattrocento e passa pagine per dire del congedo, consueto ormai per l’autore giapponese, da ogni ragione immediatamente evidente, a vantaggio di un reale frutto della correlazione, dove tutto si fa metafora di qualcos’altro, dove tutto è relativo, dove ogni cosa e chiunque è doppio, in cui tutto sembra abitato da una bilogica, simmetrica e spaesante.
Dell’ultimo romanzo di Amitav Gosh, L’isola dei fucili, non riesco a dir bene. Eppure ammiro il saggista de La grande cecità e lo scrittore del Palazzo delle maree e del Paese degli specchi. Stavolta, però, quasi tutti i suoi temi più cari – il cambiamento climatico dovuto al global warming, le migrazioni, il conflitto tra religioni, il destino degli animali, il confronto tra le tradizioni orientali e l’occidentale – sono convocati tutti insieme e fatti deflagrare con l’attualità italiana più serrata: le malefatte estive di Salvini, l’acqua alta a Venezia, i cervelli italiani in fuga. Quand’è troppo, anche le pagine di un grande narratore si fanno pesanti e insieme superficiali, né bastano le citazioni di dialoghi in italiano o i riferimenti scientifici a innervare una storia che ti aspetteresti dalla penna di un Dan Brown, più che da un raffinato intellettuale di Calcutta.
Il romanzo migliore dell’anno viene comunque da est. Lo dobbiamo ad uno dei migliori scrittori contemporanei, e non solo in Israele. E non mi riferisco al pur notevolissimo Il tunnel, ennesimo colpo messo a segno dal grandissimo Abraham B. Yehoshua, pubblicato a stretto rigore sul finire del 2018 e di cui ho già scritto a inizio anno qui su Globus, ma a L’ultima intervista, di Eshkol Nevo, altro eccellente esponente della narrativa israeliana contemporanea e fonte del consueto godimento con questa sua opera, come le precedenti Tre piani (dal quale Nanni Moretti sta curando un film, in uscita a breve) e La simmetria dei desideri, per ricordarne un paio. Leggete direttamente cosa ne ha scritto Annalena Benini su “Il Foglio” e ve ne farete un’idea esatta. Capirete quanta bravura sia necessaria per far sì che ogni domanda divenga lo spunto per un racconto, un incubo, un’amicizia, un rimpianto. Come nel dialogo tra un atono intervistatore e un traboccante scrittore emergano l’individuante sguardo degli altri, l’amore coniugale attraversato da una faglia di crisi, il tracollo della felicità. Fino alla disperazione strisciante, alla sensazione che tutto sia perduto nel rapporto coniugale, mentre un tuo caro amico se ne è andato, sparendo di colpo dalla tua vita ed un altro, il tuo migliore amico, sia talmente malato da chiederti di essere aiutato a morire. Un gran libro col quale aprire al meglio l’anno che viene.
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.