Seguici

Nomi di cose, nomi di persone. A proposito di «Il Tunnel», di Abraham Yehoshua
28/02/2019|L'EVENTO

Nomi di cose, nomi di persone. A proposito di «Il Tunnel», di Abraham Yehoshua

 

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore

Uno dei nomi biblici di Israele è nahalat zevi: l’eredità del cervo. Non è quindi infrequente in ebraico il nome Zvi, cervo. Si chiama così anche l’ingegnere in pensione Luria, protagonista del più recente romanzo di Abraham Yehoshua, Il tunnel (Einaudi, 2018). Settantaduenne, vive con l’amata moglie Dina di qualche anno più giovane, primaria di pediatria in un ospedale pubblico di Tel Aviv, mentre i due figli – un maschio e una femmina – vivono da tempo con le rispettive famiglie.
Zvi ha avuto di recente conferma di essere insidiato da una leggera forma di demenza senile. Gli esami hanno evidenziato una lieve degenerazione neuronale dovuta al progressivo atrofizzarsi del lobo frontale, causa di improvvise amnesie e di errori che ne minano il quotidiano: un giorno, all’uscita dell’asilo, invece del nipote prende per mano un altro bambino, un altro giorno eccede nell’acquisto di pomodori al supermercato, un altro ancora dimentica il nome della strada in cui abita. Per conservare gli elementi che stringono insieme la sua identità, arriva a farsi tatuare sull’avanbraccio – lui, ebreo – il codice dell’antifurto dell’auto. Al termine del romanzo, vivrà l’angoscia del dimenticare il proprio nome, fin che una giovane, bellissima palestinese, dal nome arabo di fiore e di spada, Hanadi, glielo rammenterà, spalancando di nuovo la porta della sua identità.

Yehoshua ha scritto un altro dei suoi romanzi tanto complessi nella sostanza, quanto leggeri nella forma, grazie ad una scrittura sorvegliata e resa limpida dal mestiere. Il racconto è centrato su consustanzialità e insieme simbolicità di nomi e cose, e insieme sulla questione identitaria che da sempre gli è cara e sull’intrico dei processi di identificazione. Come in altri autori ai quali può venir accostato pur nelle differenze, come John Maxwell Coetzee e Philip Roth, questi si intrecciano indissolubilmente con la contraddizione. Per esempio, Luria ha sempre separato vita e lavoro, a costo di una certa solitudine e di una marcata asetticità nei rapporti. Compensata dalla rettitudine della sua figura pubblica di professionista inattaccabile, onesto e capace, progettista di strade e cavalcavia in mezzo Israele. Per tutta la vita non ha fatto che mettere in comunicazione luoghi diversi, identità differenti. Colui che ha separato e distinto, a costo di rinunce e sublimazioni, è stato anche il medesimo che ha unito e messo in relazione.
A tal fine ha anche progettato un paio di gallerie. E proprio mentre prendono corpo le preoccupazioni di Dina e dei figli per il conclamarsi della malattia e delle sue conseguenze pratiche, Assael Maimoni, il giovane figlio di un ex collega, lo coinvolge nella progettazione di un nuovo tunnel, lungo una strada militare segreta, nel deserto del Negev. Il tunnel dovrebbe preservare una collinetta sulla quale sorgono delle rovine nabatee. In realtà, non sarebbe necessario scavarlo: ciò che spinge Assael a proporlo a Zvi, è che sulla collinetta si nascondono i resti della famiglia palestinese di Hanadi, una giovane, bellissima palestinese che lui ama. La famigliola vi si è rifugiata per sfuggire a un’accusa di illegalità, rinunciando alla propria identità, senza documenti. Lì, nel mezzo del deserto dov’è sepolto il primo Presidente israeliano, Ben Gurion, che pensava che i palestinesi altro non fossero che ebrei che avevano dimenticato di esserlo, la famiglia nabatea vive fra le rovine del tempo, fossile vivente di una stratificazione di popoli, civiltà e lingue.

Aiutando il giovane Assael a progettare un tunnel altrimenti inutile, Luria si lascia coinvolgere nel cuore del conflitto tra israeliani e palestinesi, rendendosi una volta di più strumento di mediazione tra culture, sensibilità, nomi e simboli diversi. Un tunnel sotto la discordia, per preservare l’integrità del luogo e delle persone, promuovendo la comprensione reciproca. Anche in pensione, Zvi è fedele al compito che si è assunto per tutta la vita. Non solo: è come se la malattia lo dissociasse di quel tanto dalla signorìa della propria soggettività, rendendolo più permeabile ancora all’altro, all’incontro con il diverso. Come quando in ospedale, dove si è recato per accudire la moglie malata, trascorre una notte al capezzale di un’altra donna sconosciuta.

Il finale è potente. Uno Zvi ormai stanco e provato dalla continua manutenzione del proprio sé insidiato dalla malattia, si spinge da solo, di notte, nel cuore del cratere del Negev, lì dove dovrà passare la strada e costruito il tunnel che la sua forza morale ha fatto approvare dalla commissione incaricata di decidere sulla sua opportunità. Da qualche ora ha dimenticato il proprio nome: Luria, certo, ma il ragazzo beduino che ha pagato per fargli da autista fin lì vorrebbe chiamarlo per nome. All’albeggiare, viene riconosciuto tra le rovine dall’anziano palestinese Yassur Rachman, padre della giovane Hanadi: – Zvi, – lo chiama l’insegnante palestinese. – Lei si chiama Zvi, vero? Significa cervo…

Il palestinese gli rammenta, paradossalmente, una parola ebraica, biblica. Chiamandolo per nome, gli restituisce per un attimo identità e status. Ma ecco che il palestinese gli indica un altro maestoso cervo in carne e ossa, affacciatosi tra le rovine. Zvi, il cervo umano, non fa in tempo a sorprendersi della gloria del palco di corna incorniciato dal sole dell’animale, della cui bellezza e agilità già il libro della Genesi cantava le lodi. Proprio in quel momento, infatti, la vera bellezza che solo possiamo rinvenire nel diverso, in quello straniero in grado di sorprenderci per la sua novità, così da diventare il vero amico, mostra la sua faccia scura: il philos torna ad essere xenos, quando Yassur, raccolto un vecchio fucile, pianta una palla in fronte allo splendido animale.
Erez tzevi: Israele, terra del cervo. È il titolo dell’ultimo capitolo. Troppe armi, troppi conflitti e troppa poca tolleranza ne sovvertono l’identità. Più che i Salmi, vengono in mente le Lamentazioni (1, 6): «Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore. I suoi capi sono diventati come cervi che non trovano pascolo; camminano senza forze davanti agli inseguitori».
Il vecchio Zvi cerca ancora ostinatamente di legare, malgrado la mente malferma, le fila di discorsi comuni, di terre in comune, di un destino comune. Di modo che quando verrà il buio, definitivamente, non si abbia più da lasciare solo la tristezza.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

Nessun commento
Condividi