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VERSO LE MERAVIGLIE. GLI STAG E IL CORAGGIO DI UNA MAPPA

illustrazione di Matteo Guazzone
parole di Matteo Sarlo

 

Lo incalzo, lo pungolo, cerco di azionare l’unico interruttore che nella vita di un uomo non puoi davvero attivare da fuori. Davanti a me Stefano Costantini, il trombettista degli Stag, una tra le band più interessanti nel panorama musicale italiano. Parliamo già da un’oretta e mezza. Ha gli occhi incavati nel cranio e le ciglia allungate da giocatore di biliardo. Continuo, cerco di spingere, di forzare, di battere, di setacciare il luogo dove ciascuno deposita, dentro una scatola, la definizione della cosa che più ama. Il che è notoriamente impossibile, lo so. Ma magari anche solo una sbirciatina, un angolo, una strettoia dalla quale guardare.

E come Ulisse non voleva ascoltare il canto delle Sirene, per il timore che raccontassero la sua storia, che imprigionassero il suo viaggio in un racconto, così questo trombettista timido non vuole raccontare il suo amore per quello strumento che da bambino sostituiva le bacchette magiche degli amici e con il quale ha dialogato, come minimo, ogni giorno durante gli anni del conservatorio. Poi esce quella frase che è come il tintinnio del coltello sul bordo del bicchiere. Il guerriero alza la celata: «la musica è quell’unica cosa su cui perdere tempo». Bellissima. Niente frasi ad effetto, niente slogan. Una briciola di verità. E quando ascolti Verso le meraviglie questa cosa qui la senti. Non solo negli assolo di Costantini ma nella voce struggente di Marco Guazzone, cantante, scrittore, e frontman del gruppo. Perché tutto il loro album è in realtà una mappa. Chiariamo, non soltanto su un piano metaforico. Lo vedi già dal packaging. Che, detto tra parentesi, è un lavoro grafico pazzesco firmato da Matteo Guazzone. Un misto di bravura da illustratore e da esperto di lettering: Tutti i testi dei pezzi compongono delle immagini. Ci sono delle ombre, ci sono visi e c’è un timone.

Già, il timone, per The Helm, un pezzo di base funky portato in un mondo elettronico. Per farmi capire meglio, il trombettista che esce dal conservatorio mi nomina i Koan Sound, due dj di Bristol che fanno musica dumpstep: «tempi pari sul quale si sommano tempi dispari, hai presente no?». Si, i Koan Sound li avevo presenti ma devo ammettere che non l’avrei detta così. The Helm è la numero dieci dell’album ed è la svolta sulla mappa, l’istante in cui finalmente cambi strada e sprofondi nell’abisso per non avere più paura (into the deep of my abyss, I’m not scared anymore). Perché tutto comincia con una richiesta d’aiuto. Una richiesta ben precisa: Take me far from where I don’t belong, and take me closer to the wonders. Si tratta del pezzo icona dell’abum, appunto To the Wonders. Quando chiedo se il titolo è una citazione dal film di Terrence Malick, il trombettista mi risponde che lo è ma non direttamente. Erano consapevoli della citazione ma non è che volessero tirare in ballo proprio lui. Una sorta di citazione dell’inconscio. O una convergenza tra artisti. Ad ogni modo To the Wonders ha a che fare con il cinema, perché è la colonna sonora di Un Bacio, il bel film di Ivan Cotroneo.

Lo capisci subito, To the Wonders è uno di quei pezzi che interrompe la conversazione in macchina. Il pianoforte, la batteria, la voce pulita di Guazzone. Ed ecco tutta quella cartografia che ti si disegna in testa: a sinistra quell’episodio perduto della tua infanzia, sulla destra la volta che hai mancato l’attimo (Kairos è il titolo del pezzo numero quattro), in lontananza un paesaggio visto molto tempo fa, da qualche parte. È un pezzo che sta sulla soglia del Lp non a caso. È una dichiarazione di intenti: la mappa condurrà proprio lì, verso le meraviglie. Ma, con le parole di Costantini, «le meraviglie non sono un obiettivo da raggiungere, sono una volontà. Il testo dice che c’è un viaggiatore che si sente straniero nella propria anima e chiede di essere portato to the Wonders.» Il luogo allora è un luogo-tensione. Un’idea regolatrice. Un idillio a cui inizi ad avvicinarti dopo il secondo ritornello, di norma il punto di massima apertura nel pezzo. Qui invece gli Stag ci hanno messo uno special, un ponte verso l’apertura orchestrale. E nella leggerezza e solarità del quintetto di ottoni ci sei, sei in un attimo in un luogo diverso.

Ma ancora è troppo presto per essere arrivati e allora si ripiomba giù. Down, la numero tre, è uno di quei pezzi dove capisci che gli Stag non compongono infetti da una sorta di cieca ispirazione, ma ci sono decisioni e scelte precise. C’è talento e lavoro. La struttura del pezzo è classica: strofa, bridge, ritornello, ripetizione del tema. Poi c’è l’assolo di tromba che fa da special. Ma quel che colpisce è l’uso dei fiati così inciso e valorizzato. Intendiamoci, non che i fiati non siano importanti altrove. È che di norma fanno da background. E poi c’è questa cosa che lo special si somma al ritornello in un turbinio sinestetico di suoni e colori. Down è il momento dei dubbi profondi. Il momento in cui il viaggiatore è a terra e si pone una di quelle domande ricorsive nella storia del pensiero occidentale. Una di quelle domande archetipo: Arriverà come un cambiamento nel tempo? Stravolgerà completamente la mia vita? Non è una domanda da poco. Per dire, se l’era fatta anche Paolo di Tarso ed era convinto che sì, il cambiamento, la svolta, implicherà una rottura nel tempo cronologico. Un tempo del tutto particolare, il tempo dell’avvento.

Un tempo che, con la track numero quattro, è quello cairologico. Ma come tradurre tutto questo in musica? Ci riesci se sai quello che fai e se sudi per riuscirci. E certo, se poi hai anche il talento bestiale per farti venire in mente l’intuizione giusta. E allora sostituisci il basso con il synth, il violoncello fa lo special e accompagna il raddoppio del tempo. Più uno slittamento grammaticale. Sul primo ritornello c’è un passato prossimo: Ho dormito notti inutili, ho rinchiuso i sogni in alibi, ma questo sonno non mi annebbierà più. Dopo l’assolo di violoncello e il raddoppiamento del tempo la strofa è ripetuta ma al presente: ma questo sonno non mi annebbia più. Come a dire, la conquista del kairos conduce al vero tempo, quello presente. Non più allora la nostalgia e i paesaggi del possibile contro il reale di To the Wonders ma quel che è davvero tuo, in una sorta di diventare ciò che sei nicciano (altro punto di riferimento culturale del gruppo). Solo in quel momento puoi raggiungere allora le Mirabilia, quelle Wunderkammer del ‘500, vere e proprie stanze dove venivano rinchiusi gli oggetti più particolari e preziosi al mondo. Solo allora il viaggiatore potrà avere il coraggio di materializzare l’illusione. Solo allora, passando per Slay Tilling – primo pezzo in assoluto scritto da Marco Guazzone e colonna sonora delle prime puntate della serie Rai Tutto può succedere – passando per il duetto con Matilda de Angelis – che ha firmato la colonna sonora di Veloce come il vento – e attraversando l’ossessione di Da te («più ti controllerò, più mi distruggera». E non pensate subito di aver trovato la falla retorica: l’ossessione non è una donna ma la musica) il viaggiatore arriva a The Helm. Arriva a governare il timone delle proprie decisioni e a dare una sterzata alla propria vita. Per poi tirarsi su con uno strillato Oh Issa!

Oh Issa! «è la canzone simbolo – mi dice Costantini mentre la cameriera lancia occhiatacce al fondo delle piccole tazzine da caffè. Nelle major in molti ci avevano chiesto di separarci ma questo è il manifesto della nostra volontà di restare uniti. Su un piano narrativo invece vengono citate vene e stelle. Il viaggiatore ora sta trovando la rotta dentro di sé.» Le vele si spiegano, e il vento di scirocco può condurre il viaggiatore verso nord dove scivolerà «come una lacrima negli occhi». Fino ad urlare, nel pieno della propria vita riconquistata, I am Free (un pezzo scritto da Paolo Bonvino e andato in Fratelli Unici).

Oh Issa! è la canzone simbolo, è vero, ma non soltanto per la doppia ragione biografico-narrativa. C’è anche una questione di forma. Un pezzo complesso vestito da hit banale e orecchiabile. Si, è una di quelle canzoni che ti ritrovi a cantare in cucina. Ma poi l’ascolti una seconda vola e ti accorgi che nel ritornello ci sono tre suoni di basso differenti e che uno dei tre è un synth. Ti accorgi dell’arpeggiatore che entra nello special, non proprio una roba da hit. Ti accorgi del testo: Sole, rincorreremo il sole, lo inseguiremo fino al tuffo dentro l’orizzonte.

Paghiamo e stiamo per lasciarci quando il trombettista si lascia andare a quella che ha tutta l’aria di essere una confessione: «molti ci dicono che siamo troppo pop per essere indie e troppo indie per essere pop». Gli rispondo che chi lo ritiene un problema, o è eccessivamente materialista o eccessivamente utopico. Però è vero, ci vuole del fegato per tentare questa posizione. Ci vuole del fegato per abitare un mondo che tenti di riscrivere, nel capovolgimento esatto della battuta di Woody Allen: «non vorrei mai far parte di un club che includa nei membri del suo club un membro come me». Ci vuole del fegato per includersi fuori. Oppure ci vuole una mappa, e una rotta da seguire.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia

 

Matteo: