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Controvento: La Letteratura alle Curve del Tempo

illustrazione di Andrea De Santis
parole di Matteo Sarlo

 

C’è poi un certo scrivere europeo, meditabondo e meno impacchettato di quello americano. È fatto di ellissi e labirinti, di sovrapposizioni e aggettivi. È come se i periodi avessero il tempo di costruirsi una loro geologia. Che poi è la differenza nel guardare una partita di Premier e una di Liga. Devi stare a seguire il gioco e concentrarti ma, va da sé, dà più gusto una volta che prendi il via. Controvento. Storie e viaggi che cambiano la vita è forse il romanzo più complesso di Federico Pace, e segna anche il suo ritorno in via Biancamano, dopo il suo esordio con Senza Volo (Einaudi), poi con La libertà viaggia in treno (Laterza).
Questa cosa la capisci sin da subito anche solo guardandone la postura, il gomito destro sulla scrivania – non vedo l’altro, forse poggiato nel buio del ginocchio dietro il legno. L’occhio sinistro appena più socchiuso del destro gli potrebbe conferire un’aria da istrione, mitigata tuttavia da una certa franchezza dello sguardo. Eccola, in pieno volto, quella scrittura così spontanea e riflessiva. E allora capisci un giro di frase come

Un viaggio, un percorso notturno, alcune parole scambiate in quella porzione di tempo in cui ogni cosa prende una forma inattesa, quando il giorno, a cospetto della notte, ha preferito dileguarsi come se si fosse sentito inadeguato di fronte a ciò che stava per accadere. Una complicità, un gesto condiviso, un’infrazione alla regola o a un patto stretto precedentemente con qualcuno. A innescare l’amicizia, alle volte, è proprio una fuga in macchina quando la notte si è già fatta avanti.
Luis Borges e Adolfo Bioy Casares lasciarono la villa di Victoria Ocampo nella notte.

E capisci anche quella franchezza. Non ci sono finzioni o mascheramenti, non c’è nessun ammiccamento o trucco. Soltanto un uomo che ti vuole raccontare una storia. E allora sei già lì, nella macchina vicino a Bioy Casares e Borges mentre scivolano nelle stradine di San Isidro, «nella notte argentina, lungo le immense avenidas di Buenos Aires». In quella notte inizia l’amicizia tra i due. E da quella notte, «da quel breve viaggio, da quel primo filo tessuto di parole, sarebbero tornati più volte a giare in macchina per la città».
Ma c’è anche Albert Einstein che il 7 ottobre del 1933 si imbarca sulla Westernland della Red Star Line per fuggire a New York, dopo la vittoria di Hitler alle elezioni. Pochi giorni prima aveva tenuto una conferenza alla Royel Albert Hall sull’Europa. Era preoccupato dal suo destino. Una preoccupazione condivisa anche da Edmund Husserl, che nel 1935 tiene due conferenze sul tema della “crisi” a Vienna e a Praga.  «Come possiamo salvare l’umanità – si chiede Einstein – e le sue conquiste spirituali, delle quali siamo gli eredi? Come si può salvare l’Europa da un nuovo disastro?». Senza che nemmeno se ne potesse rendere conto, quel viaggio lo stava separando per l’ultima volta dal suo continente.
E poi ti capita di leggere un periodo che viene via soltanto quando la precisione della storia si fonde con la trascendenza della letteratura. Un po’ quello che accade nel cortocircuito di  certi passaggi di Cees Nooteboom:

La sera prima di arrivare a Halifax, la notte tra il 13 e il 14 ottobre, lasciò la cena a metà e si ritirò nella sua cabina. Walther Mayer ed Elsa rimasero nel salone della cena. Le tempeste e l’insignificanza dell’indivduo. Quella specie di felicità. Sentiva ancora gli applausi della Royal Albert Hall? Riecheggiava ancora nelle sue orecchie quel rumore, quel frastuono che nascondeva nervosamente la paura di non avere alcuna risposta? Come possiamo salvare l’umanità e le sue conquiste spirituali, delle quali siamo gli eredi? Come si può salvare l’Europa da un nuovo disastro? Gli applausi nella sala. Il foglietto degli appunti. Tutta quella gente. L’Europa. La follia.

È invece il 1976 quando inizia il viaggio di Joni Mitchell dal Maine a Los Angeles. Migliaia di chilometri per tornare a casa e trovare il modo di reagire alla fine di un amore. «Poteva bastare un viaggio? Era sufficiente attraversare l’intero corpo degli Stati Uniti per uscire dal sogno con dignità? Dilatare il tempo le sarebbe servito[…]?»
A un certo punto Joni si accorge che la sua patente di guida è scaduta. Viaggia allora di diporto, senza accelerare più del dovuto, protetta dalla rettangolare maestosità dei camion.

Superò Portland, Boston e Providence, New Haven e New York senza mai prendere velocità. A cosa le sarebbe servito arrivare quanto prima? Quei camion esercitavano una specie di protezione. Il viaggio, piu che una fuga, prese la forma di una specie di rifugio. Con sé Joni aveva una chitarra e probabilmente un registratore. All’inizio non immaginava neppure l’uso che poi finì per farne. Qualcosa cominciò a succedere. La distanza, il tempo, il moto del viaggio che separa ogni cosa. Qualche parola, qualche nota cominciarono a uscire da quel che le si agitava dentro. Canzoni diverse da tutte quelle che aveva scritto prima. Canzoni che non avevano quasi mai un ritornello. Personali e intime. Canzoni che poteva scriver solo lei.

Poi arriva a Los Angeles e incide Hejira in studio. Come se quel viaggio le fosse servito da acceleratore temporale: l’ha spinta contro la parete della sua coscienza e l’ha costretta a cambiare. E così Hejira è il primo passo di una sua metamorfosi musicale che la avvicinerà a sonorità Jazz.
Pace si alza e mi offre un bicchiere d’acqua. Un gesto che va al di là della cortesia e che assomiglia un po’ a quel che accade a Madame Bovary sulla soglia del ballo tanto atteso, quando Flaubert comincia a raccontare di ogni dettaglio di cui è composta la sala. In qualche modo per farle un favore. E tengo anche io in mano quel bicchiere cercando, come lei, di raccoglierlo, quel favore. E prendere tempo. E allora metto sul piatto quella che John Updike considerava la prima delle sei regole d’oro quando scrivi di qualcosa scritta da qualcun altro: le intenzioni.

Quello che volevo raccontare era esattamente la vertigine di quel che accade quando la vita comincia a cambiare. Richard Ford racconta in Canada di un ragazzino a cui cambia la vita quando i genitori fanno una rapina. Quella è l’uscita dall’adolescenza. È come se ognuno, ad un certo punto della sua vita, sorpassasse una curva del tempo. E allora ho utilizzato storie di personaggi che a me hanno detto qualcosa nel corso del mio tempo. Da un architetto a un compositore anomalo. I loro mutamenti, la nascita di un amicizia, la fine di un amore, metterli tutti insieme come un grande museo dove ci sono le curve della vita.

Le curve del tempo. Stando alle acquisizioni scientifiche della fisica post-einsteiniana, potrà persino non esistere, il tempo. E poi, pare, anche se esistesse, di certo non sarebbe una freccia. Eppure, qui si gioca la differenza tra l’ermeneutica e la filologia. Nello scarto tra la lettera e lo spirito, qualsiasi cosa sia e qualsiasi forma abbia per noi, oggi il tempo rimane come una serie di biglie infilate una di seguito all’altra.
E così, leggendo Controvento. Storie e viaggi che cambiano la vita, nei bagliori di una scrittura che ha la forza e il merito di essere una voce senza modelli individuabili alla quarta riga, all’interno di un panorama letterario italiano tutto votato all’americanismo, impari una certa serenità. La impari stando alla sua velocità e alla sua lentezza. La impari ascoltando delle storie che sono come tante biglie. Si tratta soltanto di questo; una parola dopo un’altra parola.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia

Matteo: