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VERSO IL NUOVO DIVISMO DIGITALE

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Emanuele Conti

Ad oltre sessant’anni dalla morte, James Dean tornerà al cinema ricostruito interamente in CGI per un film ambientato durante la guerra in Vietnam. E così uno degli ultimi tabù del cinema Hollywoodiano verrà abbattuto.

Quante volte è capitato che un attore, con un ruolo predominante nel cast, morisse prima della fine delle riprese? Tra i casi più recenti, uno che ebbe un grande impatto sul pubblico fu a metà anni Novanta con la morte accidentale di Brandon Lee, su cui si azzardarono anche teorie cospirative. Un altro caso, che ebbe di certo meno risonanza ma non meno importante, fu circa dieci anni dopo e riguardò la cantante/attrice Aaliyah morta in un incidente aereo avvenuto nelle Bahamas proprio negli ultimi giorni in cui Michael Reymer finiva di girare “La regina dei dannati”, di cui la ragazza era co-protagonista. In ultimo, come dimenticare l’australiano Heath Ledger, morto all’inizio del 2008 subito dopo l’incredibile successo riportato con l’interpretazione del Joker ne “Il cavaliere oscuro” di Christofer Nolan, e mentre erano ancora in corso le riprese di “Parnassus” di Terry Gilliam?

Purtroppo queste morti premature, inaspettate, che stroncano la vita di giovani attori destinati a diventare delle vere e proprie star, il cinema americano ormai suo malgrado ha imparato a metterle in conto. E nel momento in cui ciò avviene si corre ai ripari come si può. In alcuni casi, all’incirca fino a una ventina di anni fa, davanti una simile catastrofe, una produzione avrebbe anche rischiato di naufragare rovinosamente e mandare in fumo milioni di dollari.

Oggi però qualcosa è cambiato. Con la tecnologia che corre a velocità esponenziali verso nuovi orizzonti, superandoli da lì a pochi anni, oltrepassare limiti e confini della CGI è sempre più veloce. Siamo nel 1961 quando John Whitney, chiamato alla IBM per sperimentare le potenzialità artistiche dei computer, crea “Catalog”, il primo vero cortometraggio opera della computer graphic. Trentaquattro anni dopo esce nei cinema “Toy Story”, il primo lungometraggio creato interamente in digitale e solo successivamente riversato su pellicola per ovvi motivi di distribuzione. Nel 1995 ci sono ancora limiti tecnici insormontabili per “Toy Story”, ma ormai il confine è superato: nasce il cinema digitale, quello creato nei computer e dai tecnici più che dagli artisti. Neanche dieci anni dopo, con “Final Fantasy: The Spirits Within” il giocattolo lascia il posto all’essere umano. Anche qui ci sono dei limiti tecnici, ma è solo questione di tempo perché, di nuovo, un altro confine è stato superato.

Queste incredibili tecnologie, miracolo dell’era digitale, vengono in soccorso della settima arte, e così “Il corvo” viene completato come possibile diventando un fenomeno cult; “La regina dei dannati” viene distribuito nonostante si avvertano delle mancanze e ci si trovi alla presenza di una sceneggiatura poco solida; in “Parnassus” Heath Ledger viene sostituito in alcune sequenze da tre suoi amici, Johnny Depp, Will Farrell e Jude Law, perché è lo stesso Gilliam (amante delle soluzioni analogiche) a voler scartare la possibilità di rimpiazzare Ledger con una sua copia creata con poligoni e texture.

Addirittura la predominanza dell’attore digitale sulla sua presenza scenica in carne ed ossa è parodiata da una serie che spacca in quattro il capello al mondo di Hollywood, “BoJack Horseman”. Chi ha visto la serie ricorderà bene infatti che l’attore/cavallo, mentre è coinvolto nelle riprese del film “Secretariat”, viene colpo da una crisi e fugge via. Al suo ritorno, dopo mesi, trova il coraggio di andare a scusarsi col produttore, il quale gli risponde che non deve preoccuparsi perché il film è stato completato ricreando BoJack al computer.

E per la sua “interpretazione” l’attore riceverà addirittura la candidatura al premio Oscar. E qui sta il punto di non ritorno.

Certo “BoJack Horseman” è una serie animata, e come nelle migliori serie animate tutto può accadere, anche le cose più assurde, che rientrano, in quell’ordine di essere, nella totale normalità. Eppure, forse qualcuno lo ricorderà, quando uscì il terzo e ultimo capitolo de “Il signore degli anelli” più di qualcuno si interrogò se potesse essere giusta, e plausibile, una candidatura come Miglior Attore Non Protagonista a Andy Serkis, che dava movenze ed espressioni a Gollum grazie alla tecnologia del motion capture. Poi quella candidatura non arrivò, e la discussione si chiuse lì.

Ma fa riflettere ancora di più la recente notizia del ritorno sulle scene di James Dean, morto il 30 settembre del 1955 a soli ventiquattr’anni. Secondo quanto sembra che abbiano dichiarato i produttori del film “Finding Jack”, pellicola di guerra ambientata durante il conflitto in Vietnam, dopo aver vagliato numerosi attori “scritturare” James Dean è risultata la scelta migliore per il ruolo del protagonista.

Tralasciando qui l’aspetto, forse più pratico, di questa operazione osteggiata da personaggi come Chris Evans ed Elijah Woods ma pienamente supportata dalla famiglia di Dean, che evidentemente ne detiene i diritti di immagine, sarebbe più interessante concentrarsi su un altro aspetto, una sorta di baratro che si sta per aprire e potrebbe segnare un di punto di non ritorno, non solo per il cinema ma per la cultura occidentale.

Partiamo da un principio fondamentale che distinguerà “Finding Jack” da quanto visto finora nella storia del cinema, diverso da “Il signore degli anelli”, diverso perfino da “Chi ha incastrato Roger Rabbit” dove il protagonista che dà il titolo al film è un personaggio animato di una storia che mischia verità (il live action e la scenografia) alla finzione del cartoon: riesumare James Dean per affidargli il ruolo principale non è solo un’azzardata invenzione commerciale, ma un accelerare una sovrapposizione tra realtà e finzione a cui potremmo ancora non essere pronti.

Le implicazioni in questo senso sono molteplici. Se il film sarà un insuccesso, sarà solo uno dei tanti blockbuster andati diversamente da quanto ci si aspettava; ma se sarà un successo aprirà la strada verso un fenomeno completamente sconosciuto al mondo occidentale, lo star system digitale già molto popolare in estremo Oriente, soprattutto in Giappone. James Dean, ad oltre sessant’anni dalla morte, rischia così di diventare il primo divo “ineffabile” della nostra cultura, qualcosa per la quale ancora non abbiamo un codice etico con cui riuscire a decodificare il fenomeno, né tantomeno forse gli strumenti critici per giudicarlo nel mondo più adeguato.

Nel panorama del cinema americano potrebbe diventare un fenomeno che se sfruttato in un momento di scarsa, o totalmente assente, regolamentazione specifica potrebbe portare alle estreme conseguenze ad una sorta di “eternità” digitale. Attori e attrici ancora in auge che decidano di prestarsi a tale operazione potrebbero così trovare una sorta di immortalità, trasformati in niente di così diverso da Buzz e Woody. Il loro modello 3D ricostruito nei minimi dettagli, animato con il motion capture dei loro movimenti, dotato della loro voce, potrebbe sostituirsi in tutto e per tutto al proprio referente, massimizzando così la propria iconografia.

Rispetto a quanto accadeva nella Hollywood classica, quella degli attori vincolati alle case di produzione, dei produttori/padroni, culla del divismo idolatrico, l’attore non solo andrebbe ad eternarsi nell’immaginario grazie alla propria immagine unica e soprattutto inimitabile, ma animandosi digitalmente andrebbe anche a riempire quegli spazi dell’immaginario lasciati, invece, del tutto liberi dalle foto statiche di quei divi come Clark Gable o Greta Garbo. Dalla rappresentazione di certi valori che essi rappresentavano si passerebbe alla loro incarnazione. E grazie a tecniche digitali sempre più avanzate continueremo ad avere i nostri attori preferiti, eternati in un momento esatto della loro esistenza, protagonisti di storie sempre nuove.

E d’altronde a cosa serviva il divismo della Hollywood classica, se non a rendere immortali gli attori e ciò che la loro immagine rappresentava, congelati così per sempre in un attimo di perfezione, colto alla velocità del pensiero, e fissato nella fotografia?

Probabilmente oggi è questa la diretta evoluzione di quel passaggio che ci ha portato dalla società dell’immagine alla società digitale. Noi stessi, nel nostro piccolo, grazie al non detto che risiede fuori il quadro di una foto, attraverso i social, possiamo creare la nostra personale narrazione inventandoci una vita completamente alternativa rispetto alla sua reale controparte.

E forse dopotutto dovremmo semplicemente accettare questa situazione, e forse ha ragione Caparezza dove in un brano dal titolo “L’infinito” canta: ed è meglio finto, è più bello finto, è più vero finto.

E forse un giorno, BoJack Horseman vincerà il suo premio Oscar.

Matteo:
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