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«Tracce del sintomo. I Seminari di Lacan», a cura di Chiara Massari
08/06/2021|L'EVENTO

«Tracce del sintomo. I Seminari di Lacan», a cura di Chiara Massari

«Tracce del sintomo. I Seminari di Lacan», a cura di Chiara Massari

parole di Francesca Di Costanzo

Il testo “Tracce del sintomo. I Seminari di Lacan”, (Galaad Edizioni, 2021), che inaugura la collana di psicoanalisi Leggere Lacan diretta da Alex Pagliardini, prova a passare in rassegna le varie declinazioni del sintomo, seguendo l’evoluzione della concettualizzazione lacaniana, permettendo un’immersione sofisticata tra le pieghe dei testi di Lacan attraverso un lavoro scritto a più mani. Questo getta pertanto una luce particolare su ogni singolo capitolo.

Il primo punto con cui esordire è che, come emerge chiaramente sin dalle prime pagine, non tutto si sottomette al simbolico, c’è una parte che non viene catturata dal simbolico, senza così rendersi riconoscibile e per questo torna a spingere, a insistere in modo tanto irrinunciabile quanto insostenibile e che un’analisi fa incontrare.

Ebbene, questo è il sintomo che torna in una forma abitabile in attesa di decifrazione, forma assunta a partire dal modo particolare con cui il soggetto ha incontrato l’Altro che gli ha parlato.

Il sintomo dice di ciò per cui il soggetto ha scelto di farsi rappresentare da un significante piuttosto che da un altro, un significante che ha libidinizzato quella vita. Farsi rappresentare sta in quel trattino tra S1 e S2, indice di un rapporto dialettico che si intrattiene con l’Altro e di una differenza che articola la soggettiva catena esistenziale e discorsiva.

Quel significante, intriso di godimento, fa eco al soggetto in modo tanto sorprendente quanto sfuggente, un po’ come arriva la pace della sera citata nel terzo capitolo del testo.

L’inconscio presenta una struttura che è di per sé significante poiché in esso agiscono e si animano pulsioni già composte di una dimensione ideativa, ossia di rappresentazioni, senza le quali la pulsione, che mette in moto la catena, non sarebbe pensabile e senza le quali non ci sarebbero tracce.

È solo quando la rappresentazione arriva a toccare il vuoto lasciato dall’azione del significante ai danni della Cosa materna, che si giunge a toccare quella mancanza che resiste al linguaggio e a cui è possibile agganciare il concetto di fantasma, sempre a metà tra il dicibile e l’indicibile.

Il sintomo parla al soggetto, dice del soggetto di cui si fa metafora e chiama in gioco il rapporto tra il sapere e la verità, una verità che circola tra le pieghe del discorso e che si rivelerà sempre e comunque ambigua perché ambigua è la parola che porta con sé qualcosa di sotteso, di fuori senso con cui il soggetto cerca a tutti i costi di fare i conti.

Se, come succitato, non tutto si sottomette al simbolico, dal sintomo fobico a quello feticista, siamo di fronte a oggetti non reali, ma a immagini piegate alle leggi del significante, cosa che conferisce all’immaginario un nuovo statuto la cui consistenza non rappresenta più esclusivamente un ingombro che ostacola il simbolico o addirittura l’analisi stessa, nella misura in cui il sintomo non è solo qualcosa di residuale, la rovina che inchioda il soggetto a un unico destino possibile ma può farsi un’occasione, una scommessa per dare un’altra piega, nella forma di un sinthomo, a ciò che irrimediabilmente ci ha attanagliati.

Ciò chiama in causa l’etica della psicoanalisi.

A tal proposito, all’infuori delle citazioni letterarie che si incontrano scorrendo il testo, torna alla mia memoria il racconto di Edgar Allan Poe, intitolato Una discesa nel Maelström, in cui una piccola barca di pescatori viene travolta da un’impetuosa tempesta e inizia a essere trascinata da un potente vortice d’acqua impossibile da scampare; uno dei pescatori sceglierà di aggrapparsi all’albero maestro della barca (inteso metaforicamente come il significante padrone) che lo tira giù, cadendo a picco nel tumultuoso cono d’acqua e facendosi trascinare da un destino la cui risalita si fa altrettanto impossibile, l’altro pescatore sceglierà invece di aggrapparsi a una botte vuota galleggiante (il sinthomo) e riuscirà a salvarsi raggiungendo la terraferma sospinto dalla corrente del mare.

Come l’attraversamento del sesto capitolo mostra, il soggetto per l’appunto incontra vita e morte nel linguaggio, che accadono di continuo generando effetti di soggettivazione.

Queste citate sono solo alcune delle tracce del sintomo reperite nel testo, lasciando al lettore la bellezza della loro scoperta, che ci aiutano a leggere Lacan, affare tutt’altro che semplice; ogni lettura dei Seminari di Lacan infatti non si esaurisce lì ma ne chiama un’altra e un’altra ancora per cogliere ciò che sembra ogni volta sottrarsi alla comprensione.

Non a caso nel capitolo 7, che tratta per l’appunto il Seminario VII, l’autore fa notare che lì Lacan non parla propriamente del sintomo, eppure leggendo tra le righe se ne parla comunque, per differenza, si parla infatti della Cosa, das Ding, e della sublimazione che sono tutt’altro che una sostituzione significante.

Nel disvelamento di queste tracce mi fermo, per onorare la preziosità di questo piccolo volume che risiede nella capacità di distendere una complessità che attraversa l’intera opera di Lacan, di rendere accessibile un sapere a tratti enigmatico, di dare voce in modo concentrato ai primi dieci Seminari fondamentali.

Il primo volume di questa collana non poteva non parlare del sintomo; ogni vita nel suo condursi porta con sé qualcosa di sintomatico fino a che congiuntura vuole che quel qualcosa esplode e si smette di tollerarlo, inizia a dividere in modo non più trascurabile. Il soggetto, scollato da una continuità non più ripristinabile, necessita allora di appellarsi a un Altro diverso dagli altri incontrati fino a quel momento, un Altro che sia un analista a cui domandare una cura. È la domanda di cura, infatti, che inizia a mobilitare il soggetto rispetto al suo singolare rapporto con il reale, a smuovere qualcosa della propria mancanza a essere e questa domanda, come necessità richiede, arriverà a essere formulata nella lingua del proprio Altro, arriverà nel tentativo di mantenere in piedi la pesante impalcatura di cui ci si lamenta e da cui ci si vuole al contempo liberare.

È qui che il sintomo, tra conflitto e compromesso, ha l’occasione di tradursi in metafora del soggetto, indice di una verità rimossa che sarà l’inconscio a presentare nelle sue manifestazioni come un conto lasciato in sospeso.

Non siamo qui certo per saldarlo, né per trarre conclusioni, bensì per aprire un tempo per comprendere, per incontrare la tecnica della psicoanalisi così come ci è stata lasciata in eredità da Lacan, per interrogare attraverso il sintomo le possibili condizioni dell’essere

Francesca Di Costanzo è psicologa, psicoterapeuta, socio membro di Jonas (Centro di Clinica Psicoanalitica per i nuovi sintomi) presso le sedi di Roma e Milano. Collabora con Centri terapeutico-riabilitativi per i disturbi del neurosviluppo.

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