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Sul “Canone minore”, di Rocco Ronchi. Minore?

illustrazione di Simona Bramucci
parole di Luciano De Fiore
Sul Canone Minore, la più imponente e recente fatica teoretica di Rocco Ronchi. Un saggio attraverso il quale scoprire il perimetro della nostra più intima natura, tutta fondata sull’energia.

Carlo Rovelli ci ha ricordato di recente (“La lettura” del “Corriere”) la lezione di Nagarjuna, grande classico della cultura buddhista. Il quale sosteneva che nulla esiste in sé. Che tutto esiste solo in relazione a qualcos’altro. Che le cose sono vuote, nel senso che non hanno realtà autonoma: esistono rispetto ad altro. La realtà ultima, l’essenza, sarebbe quindi assenza, vacuità. E la realtà, relazione.
Se ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto possa dipendere, ebbene secondo Nagarjuna questa essenza non si dà. Naturalmente, ciò non comporta la negazione dell’esistenza quotidiana che invece può essere analizzata ed esplorata, senza però che si possa mai rinvenirne il sostrato ultimo. Di qui, l’illusorietà di fondo del mondo.
Una versione estrema, all’orientale, del vanitas vanitatum di Qōhelet. Che però manteneva sullo sfondo Adonai, il divino; anche se – come ha detto Severino – Dio muore nel momento stesso in cui dalla contingenza si genera la domanda metafisica: perché l’essere, invece del nulla?
La vacuità è quindi la realtà ultima? No, neppure, perché la stessa vacuità è vuota di essenza, è convenzionale. Anche la vacuità è vuota.
Ricapitolando. Il soggetto non è una realtà sostanziale, è niente. L’ente in generale, per la metafisica (a Oriente, come a Occidente) è niente. Tutto e tutti sarebbero (sull’orlo di) un immenso vuoto.
In questo potente e angosciante nichilismo, il soggetto della modernità sembra trovarsi paradossalmente a proprio agio. Comprendere che nulla esiste, che noi stessi non esistiamo in quanto centri di soggettività avrebbe almeno il vantaggio di liberarci da attaccamento e sofferenza, spingendoci a pensare il tutto come una costellazione di oggetti intrinsecamente vacui la cui realtà è sempre determinata da qualcos’altro. Davvero?

Gli argomenti-guida de Il canone minore, la più recente e impegnativa fatica teoretica di Rocco Ronchi, per molti aspetti sembrano il calco, l’opposto esatto di quelli di Nagarjuna. Se ad oriente si pensa l’esperienza come il nulla, nella prospettiva proposta da Ronchi è il tutto assoluto: nulla cade fuori di essa. Se per il priore indiano di 1800 anni fa l’esperienza è mancanza, per Ronchi non manca di nulla. Se nell’universo del Cammino di mezzo tutto è vano, secondo le filosofie iscrivibili nel canone minore tutto è sempre presente in ogni cosa, perfetta attualità assoluta e immanente che ci è dato cogliere nella sua processualità.
Volendo, proprio lungo questo crinale è possibile scorgere un punto di contatto tra due teorie che più lontane non potrebbero essere: entrambe infatti escludono l’intenzionalità del soggetto, riconducendo il movimento del tutto (che per i filosofi richiamati da Ronchi si dà tutto sempre e per Nagarjuna invece non esiste) all’energia, al processo, escludendo ogni divenire. Per cui entrambe sembrano poter essere accolte da una visione quantistica della realtà, relazionale, in fondo probabilistica.

In controtendenza rispetto all’attualità, il canone minore si lascia scorgere come un treno in corsa, dal quale balenano diversi ritratti filosofici, pur distinti e distinguibili, accomunati dal fluire, dalla processualità della corsa. A grandezza intera, rispondono a nomi centrali della riflessione moderna, come James, Bergson, Whitehead e Deleuze. A mezzo busto, vale a dire per un particolare aspetto o sapore della loro filosofia, si riconoscono tra gli altri Gentile, Simondon, Ruyer, il Sartre de La trascendenza dell’ego, i nostri Emanuele Severino e Carlo Sini, maestro di Ronchi. Figure che si distaccano le une dalle altre per una sorta di “differenza modale”, in termini spinoziani: come le onde rispetto al mare, modalità della realtà, nell’Etica. Come le onde, così i vagoni del nostro treno.
Che corre su una linea “minore”, ma non certo a scartamento ridotto. Anzi: è su questa linea che la filosofia giocherebbe la sua vera partita. Una linea radicalmente monista, alimentata da un Uno “magico”. Magico, perché è un Uno immediatamente molteplice e un molteplice che è immediatamente Uno: nel latino degli Scolastici, unitas multiplex. Un Uno che, senza rapporto con l’Altro, genera i molti nei quali non diviene altro, permanendo “magicamente” in sé stesso.
Molto del “canone minore” si gioca proprio su questa immediatezza della (non) conversione tra Uno e molti. Una sfida, della quale Ronchi è ovviamente più che consapevole. Una sfida ambiziosa e difficile che si gioca dai tempi di Parmenide e che ha come posta la possibilità stessa del filosofico. Sfida raccolta – anche questo Ronchi lo sa bene – non soltanto da chi sta sottoponendo la filosofia ad una sorta di sfinente autocritica, per cui pare ormai diventata un “gioco linguistico” tra gli altri. La sfida parmenidea ha ingaggiato anche seri e autorevoli critici del monismo e dell’immediatezza spinoziana, a partire da Hegel.
La prima parola-chiave decisiva del Canone minore sembra dunque immediatezza. E il libro un – del tutto inattuale – elogio dell’immediatezza.


Rispetto all’associazione col treno, è però forse più centrata quella con le onde del mare. Perché il canone minore ha molto a che fare con la natura. Intende anzi essere una filosofia dell’immanenza assoluta che, grazie alla magìa dell’Uno, non nega il pluralismo, ma lo fonda. Quindi, una filosofia dell’immanenza assoluta ed una filosofia della natura. E la natura è energheia, o – con Whitehead – organismo. Il vero è il fatto, in un processo metabolico, processuale. Il tutto è aperto, scrive Ronchi, sempre in fieri, pur sfuggendo al dispositivo metafisico occidentale per eccellenza, quello – aristotelico – della conversione della potenza in atto.
Questa affascinante e insieme respingente filosofia dell’Uno è articolabile su diverse proposizioni. Le prime cinque tesi, sulle undici su cui il libro è articolato, sembrano le fondamentali. Undici, come le Tesi marxiane su Feuerbach: quasi a far intendere che si sta proponendo un nuovo programma per l’agenda filosofica dell’ipermodernità.
Le due in testa, riccamente argomentate – anche se sinteticamente – nella prima parte del libro, sono che l’Uno è, e l’essere dell’Uno è processo (non divenire). La cosa è immediatamente il processo. Per processo, si può pensare alla nozione di campo in quantistica. Un processo che appartiene all’ordine del probabile.
La seconda proposizione è: l’uno è causa.
Ed ecco la terza e la quarta e la loro problematica relazione.
La terza afferma che l’Uno non è trascendente, risolvendosi nell’esperienza come atto puro. E che la coscienza, in quanto intenzionalità, è un sottoinsieme dell’esperienza. Quindi niente soggetto e oggetto, niente conoscenza di, o verità basata sulla dicotomia. L’esperienza è assoluta, non a due termini. Addio quindi al paradigma antropologico e relativista del canone maggiore che ha fin qui visto nella finitezza umana non un limite, ma la condizione stessa di possibilità della conoscenza. Mentre se ne legge la dimostrazione nelle dense pagine del volume, viene in mente l’atto analitico secondo Lacan, in cui se c’è un soggetto, diciamo così: una titolarità dell’atto, questa appartiene al transfert, al fatto dell’analisi. Quindi – e siamo alla quarta proposizione – l’esperienza è l’assoluto, o la natura. L’esperienza non presuppone niente e nessuno: Ronchi parla di una “neutralità dell’esperienza pura”. Occorre capire bene di cosa si tratta. Difficile, direi, appassionarsi ad un’esperienza assoluta intesa come l’esperienza di una realtà nella quale non fossimo in qualche modo implicati, partecipi. Non vedo che interesse possa avere un reale del mondo che non ci riguardi in qualche modo. Qui trovo molto interessante piuttosto l’accento su quel presupposto tolto: che non sia presupposto niente e nessuno, per cui l’esperienza si dà nel suo farsi, e noi – in quanto coscienze intenzionali – ne saremmo dei sub-insiemi, cioè ci soggettivizzeremmo nel suo farsi, al quale però contribuiamo.
Se è così, la terza proposizione (che recita: l’esperienza è assoluta e non comporta un soggetto e un oggetto) avrebbe potuto essere accolta anche da Hegel. Dallo Hegel critico di ogni posizione gnoseologica, di ogni filosofia dualistica, Kant compreso. Anche per Hegel infatti «la coscienza è decadenza dell’esperienza»: tutta la Fenomenologia è una rassegna delle posizioni filosofiche che s’illudono di guadagnare un punto di verità su, una conoscenza di. Hegel le chiama “filosofie della riflessione”. E ne constata il limite.
Anche il Sapere assoluto della Fenomenologia (che è lo stesso “attore” della Scienza della logica) ha alle spalle il processo che Lui è in grado di identificare con la Storia (a differenza della filosofia del canone minore, per la quale la Storia non credo si scriva con la maiuscola, non avendo senso né direzione, dispiegandosi la sua processualità senza alcuna logica). Anche se, ovviamente, il Sapere per Hegel è risultato, cioè diviene.
Più problematica per Hegel risulterebbe forse l’affermazione per cui «la rappresentazione cosciente è un meno rispetto alla percezione in atto, che è rigorosamente inconscia ed è inconscia perché infinita e perfetta, cioè non mancante di nulla», come sostiene Ronchi. Infatti, la percezione per Hegel rientra nelle filosofie della riflessione, e quindi rappresenta una posizione filosofica non pienamente autonoma, ancora coscienziale, condizionata dalla natura dell’oggetto, al fondo dualistica. Anche se l’esperienza assoluta fosse quella di un mondo che semplicemente fosse (scusate la trivialità: senza l’uomo), comunque ci riguarderebbe. Ci implicherebbe in ogni caso. Non capisco allora perché il canone minore valorizzi la percezione, pur rigorosamente inconscia, dal momento che ha rinunciato – correttamente – al “confronto” con la cosa; dal momento che non c’è “niente” da percepire singolarmente e non c’è soggetto percipiente, bensì l’assolutezza del processo, dell’esperienza.

Federico Leoni ha di recente convocato proprio Hegel in un contesto altro, discutendo della direzione della cura psicoanalitica (in: AA.VV., La direzione della cura. Psicoanalisi e filosofia, a cura di A. Pagliardini e I. Pelgreffi, Galaad Edizioni, 2017). Apparentando fenomenologia dello spirito e psicoanalisi lacaniana. Immaginando quel particolare soggetto che è il Sapere assoluto nelle vesti di analizzante, e la filosofia o sapienza (il Per-Noi in termini hegeliani) come l’analista che – alle sue spalle – lo ascolta snocciolare le inadeguatezze delle proprie, singole figure storico-coscienziali. Ronchi nota a ragione che la contingenza non appare, non è un dato immediato, ma frutto di giudizio. Infatti, anche per Leoni ogni figura risulta infelice, contingente, al giudizio del Sapere assoluto. Fin quando – passando in rassegna il calvario delle proprie stazioni – quel Soggetto de-soggettivizzato e sui generis che è il Sapere assoluto smette di considerare le singole figure per sé prese – giudicate e quindi comunque contingenti – e viene a considerare l’intero proprio processo che ha vissuto in quanto esperienza assoluta, insediandosi finalmente in sé stesso, e bruciando così ogni resto, istallandosi «nel puro e immobile movimento che sostiene ogni alienazione e ogni disalienazione».

Possibile immaginare una movenza simile nella filosofia dell’immanenza assoluta? Un Sapere che è “assoluto” proprio perché è esperienziale-processuale, non è sapere-di, e non è mancante di nulla, sia pure in un singolo atomo dello spaziotempo, prima di esser trascinato via?
La domanda è stimolata dal fatto che – tornando all’esempio precedente – in un altro contesto Ronchi ritiene che la procedura in quanto tale della psicoanalisi, il suo processo, mette capo ad una qualche soggettivizzazione – sia pure a vantaggio del transfert nel suo complesso, cioè dell’analista e dell’analizzante. Mi chiedo in altri termini: può immaginarsi alcunché di analogo, per la filosofia, a quel che sembra possibile in psicoanalisi?

Nello stesso torno di pensieri, si ripropone la domanda di Ronchi in esito alla riflessione sulla contingenza: «Che accadrebbe se l’idea di contingenza fosse veramente liquidata? Se la negazione fosse tolta dal cuore dell’essere, se non fosse più la via d’accesso esclusiva alla comprensione del senso dell’ente?». Vi accoppierei quest’altra domanda che vorrebbe incorporare la soluzione che mi sembra Ronchi prospetti: ma il trauma, sia pure inteso con Santayana come “puro sentimento dell’esperienza”, non verrebbe a fare le veci della freudiana pulsione di morte, e dunque del negativo, mutatis mutandis?

Termino con un interrogativo che (si) pone l’autore stesso: «Come è possibile un progresso che non abbia nel tempo il suo orizzonte di comprensione e nell’uomo il suo riferimento essenziale?» Secondo il Ronchi del Canone minore, è possibile un progresso che non abbia nel tempo il suo orizzonte di comprensione e nell’uomo il suo riferimento essenziale. E questo progresso sarebbe proprio il processo, la durata concepita alla Bergson che infatti non è un composto, non è fatta di partes extra partes, ma è un atto semplice e indivisibile fuori dallo spazio e dal tempo, pur facendosi nello spaziotempo. È possibile, se il processo è autoctisi, pura produzione di sé, affermazione del processo stesso e non di un subjectum soggiacente al processo; se «non c’è mancanza, non c’è intenzionalità, non c’è tensione verso una trascendenza, non c’è “desiderio”, ma c’è piuttosto hedoné», cioè “godimento” in senso aristotelico, puntuale e senza tempo, in un processo che non conosce divenire.
Non c’è dunque spazio neppure per l’aristotelico (e agambeniano) potere-di-non, che Ronchi considera in fondo un modo per reintrodurre il dispositivo potenza-atto attraverso la categoria del possibile, nominando la differenza di natura che – secondo il canone maggiore – sussiste tra la libertà trascendentale dell’uomo e il resto dell’ente, inchiodato alla necessità. Qui, ora, siamo invece all’eliminazione dell’eccezione umana e alla piena integrazione dell’uomo nella natura.
Ma allora, se ogni dantesco (e pasoliniano) trasumanar è impossibile, non ci resta allora che l’organizzar? È questo dunque l’orizzonte attuale e prossimo per filosofia, politica e psicoanalisi, ognuna nel suo?


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

 

Matteo:
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