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Su «L’assassinio del Commendadore» di Murakami Haruki
21/03/2019|L'EVENTO

Su «L’assassinio del Commendadore» di Murakami Haruki

Farsi amico il tempo,

o blessing in disguise

Per saper ritrarre il vuoto, ci vuole tempo.
Come fa un bravo mestierante della pittura, specializzato nella ritrattistica, a mettere sulla tela un uomo senza volto?
Prende tempo.
Per imparare a vedere l’invisibile, servono anni.
E 842 pagine di un romanzo in due tomi.

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore

Per saper ritrarre il vuoto, ci vuole tempo. Come fa un bravo mestierante della pittura, specializzato nella ritrattistica, a mettere sulla tela un uomo senza volto? Prende tempo. Per imparare a vedere l’invisibile, servono anni. E 842 pagine di un romanzo in due tomi. Tante sono quelle necessarie a Murakami Haruki per il suo recente L’assassinio del Commendatore, affinché prima le idee si compongano (tomo I, Idee che affiorano) e poi le metafore prendano corpo (tomo II, Metafore che si trasformano). Dismessa da tempo ogni pretesa di distinguere la realtà dall’irrealtà, l’autore di Kafka sulla spiaggia sembra aver affidato a questo romanzo una nuova illustrazione del pensiero che già Schopenhauer aveva sintetizzato in una metafora fortunata: la vita e il sogno sono pagine di uno stesso libro. Come dire anche che vuoto e pieno partecipano della stessa realtà.

Ulteriore titolo di quella personale biblioteca del realismo magico che Murakami sta costruendo grazie a opere come La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Dance dance dance e 1Q84, fra gli altri. Tutto è frutto di correlazione, nulla esiste di assoluto, di irrelato, mondi diversi coesistono e comunicano in modi misteriosi. Non è certo compito di questa riflessione svelarli e svelarne un presunto senso. Se tutto si tiene, ed ogni cosa, esperienza e sentimento si svelano impastati, allora la struttura del reale non è che una gigantesca, ondeggiante trama metaforica, ombra sotto la quale lampeggiano le luci del possibile. Le idee hanno una propria autonomia, per quanto anch’essa correlata al resto. Possono assumere i panni di personaggi o di oggetti, d’interagire col mondo, di comparire, svanire e di farsi persino uccidere, se necessario alla trama del reale. Hegel li avrebbe chiamati concetti.

«L’assassinio del commendatore» Libro Primo
«L’assassinio del commendatore» Libro Secondo

Da tempo è nota peraltro l’attenzione di Murakami per lo sciamanesimo che fa oscillare come un pendolo la sua scrittura da una parte verso la vita e dall’altra verso la finzione. Nei suoi racconti l’intreccio di cui lo spaziotempo è costituito ammette sullo stesso piano quel che la logica corrente distingue e la fisica quantistica invece è più vicina ad ammettere. Un esempio?

«Fuori dalla finestra l’oceano luccicava abbagliante sotto i raggi del sole. Alcuni pescherecci erano ancora al largo. Un aereo argenteo attraversava il cielo diretto a sud, la fusoliera levigata splendente nella luce […]. Quanto a me, nella camera di un lussuoso ricovero per anziani illuminato dal sole, avevo appena accoltellato il Commendatore, acciuffato Faccialunga che faceva capolino da una botola, e stavo cercando un’incantevole tredicenne scomparsa nel nulla. Il mondo è bello perché è vario» (tomo II, p. 263). La verità stessa è esposta al fluire del tempo e alla correlazione. Ciò che è davvero giusto, può esserlo anche solo in un determinato momento: «Nel mondo in cui viviamo, la pioggia è prevista al trenta per cento, a volte al settanta. E forse funziona così anche per la verità. C’è una verità al trenta per cento, c’è una verità al settanta» (tomo II, pp. 341-342).

La bellezza del mondo è nella sua complessità. Se la si apprezza, pare divenir meno angosciante anche la sua intellegibilità intermittente, sfocata, innervata anche da assenze: «al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto», aveva scritto in un precedente romanzo (Murakami, 2013).
Nel romanzo, l’articolazione è affidata all’intreccio di almeno tre vicende tra personaggi reali, assai ben descritti nella loro ordinarietà: giapponesi che vivono come dovunque si vive nel mondo industrializzato, magari amanti degli stessi status symbol del lusso (la Jaguar, i capi ricercati in cashmere, le calze lavorate, le belle ville) oppure che ne prescindono (il protagonista ha una Corolla di seconda mano e veste in jeans), ascoltando la stessa musica (da Thelonius Monk ai Beatles, da Richard Strauss a Bach), magari bevendosi un whisky, e non un buon Suntory, ma un corrivo Ballantyne. 

La prima vicenda riguarda il rapporto matrimoniale – in crisi e poi in ripresa – tra il giovane pittore, protagonista incolore e senza nome, ordinary man tipico dell’universo letterario dello scrittore nipponico, e la moglie Yuki. La seconda ha al centro lo stesso giovane pittore, una volta trasferitosi sui monti della prefettura di Kanagawa, e la tredicenne Akikawa Marie, alla quale deve fare un ritratto, commissionatogli da Menshiki, un misterioso uomo d’affari suo nuovo vicino di casa e probabile padre naturale di Akikawa Marie. La quale è anche lo snodo della terza vicenda: la ragazzina vive insieme alla elegante e attraente zia Shōko, sfuggendo alle attenzioni di Menshiki e confidandosi soltanto col giovane pittore incaricato di ritrarla. Akikawa Marie sembra vivere una sorta di stadio dello specchio postposto; sola, quasi afasica nel suo linguaggio essenziale e diradato. Sente ancora il proprio corpo in frammenti: le gambe snelle, lo sguardo sfuggente, l’ossessione per la propria prepuberale mancanza di seno. Intuisce però ed è attratta dalla possibilità di riconoscersi finalmente nel ritratto che pian piano sta componendosi sul cavalletto, nel quale si vedrà ricostituita in un’immagine unica: per la prima volta avrà di sé la parvenza della donna che è destinata a divenire.

Akikawa Marie sembra vivere una sorta di stadio dello specchio postposto; sola, quasi afasica nel suo linguaggio essenziale e diradato

A dire il vero, il romanzo è vivido di corpi sessuati e sottoposti al tempo. C’è parecchio sesso (ad Hong Kong il romanzo è stato vietato agli under 18), ma pochi rapporti. Il giovane pittore all’inizio viene lasciato dalla moglie che scopa con un altro. Lui stesso ha prima incontri sessuali occasionali e poi con due amanti, una giovane e l’altra più matura. E anche l’affascinate e misterioso signor Menshiki, dai vestiti inappuntabili e dai capelli candidi, non si nega il sesso con la bella Shōko.

Oltre alle tre vicende, variamente intrecciate in nodi che a volte sembrano allentarsi, e altre stringersi in viluppi ancora più stretti, il giovane pittore e Akikawa Marie hanno relazioni con figure fantasmatiche. Murakami ce le presenta come idee. Sembrano legate ad un quadro che il giovane pittore, approdato in una baita di montagna messagli a disposizione da un amico, figlio del famoso pittore Amada Tomohiko, scopre accantonato e impacchettato nel sottotetto di casa. Un quadro ad olio nella tecnica nihonga, dal titolo enigmatico, il medesimo del romanzo: L’assassinio del Commendatore.

Il dipinto rappresenta una scena brutale: un duello, nel corso del quale un giovane impassibile affonda una spada nel petto di un vecchio, da sgorga il sangue abbondante. Ma perché Commendatore, carica inesistente in Giappone? Il riferimento è al Don Giovannidi Mozart, la cui prima scena è intitolata proprio così. Com’è stato notato, la decisione di Amada di rappresentare una scena tratta da un pilastro del canone occidentale in uno stile classico giapponese non sembra estranea agli impegni di Murakami lettore e traduttore di Carver, Fitzgerald e di altri scrittori americani.

Ma nel quadro l’impostazione dell’opera lirica era stata adattata: Amada Tomohiko vi aveva inserito una bellissima giovane, come se sulla scena dell’opera fosse presente da subito anche Donna Anna, oltre ad un misterioso personaggio rappresentato in un angolo. Chi erano costoro e cosa rappresentavano? Il romanzo si dipana senza che nessuno si dedichi ad una esplicita ricerca sull’identità dei personaggi del dipinto. Restano indefinite, così come le identità dei protagonisti a partire dal giovane pittore, innominato. La figura fantasmatica principale è proprio quella del Commendatore: un omino di sessanta centimetri che appare e scompare come può farlo un’idea, pensata dal protagonista o da Akikawa Marie, i soli che – avendo visto il quadro – possono appunto pensarla. E il racconto dice anche delle relazioni che i due intrecciano con questi concetti la cui realtà è talmente vivida da farli apparire, ai loro occhi soltanto, in carne e ossa.
Comunque, ogni personaggio del racconto costruisce il proprio personale processo d’identificazione relazionandosi agli altri. O meglio, all’Altro, dato che è al mondo nella sua pluripotente interezza che si riferiscono, senza distinzioni tra figure reali e idee. Come sulla tela bianca del pittore: prima che i colori vi si stratifichino, c’è un istante «in cui ciò che esiste e ciò che non esiste si confondono» (tomo 1, p. 269). La tela si svela una specie di portale magico in grado di aprire e chiudere itinerari nello spaziotempo, trasportati da concetti.

Ogni personaggio del racconto costruisce il proprio personale processo d’identificazione relazionandosi agli altri. O meglio, all’Altro, dato che è al mondo nella sua pluripotente interezza che si riferiscono, senza distinzioni tra figure reali e idee.

al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto

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S
enza dubbio il dipinto è la forza motrice del viaggio che il ritrattista compie alla ricerca di sé stesso, del senso della propria arte («È perché sono un pittore che potrei raffigurare fedelmente tutti i piatti che sono stati serviti. Ma non saprei descriverne il gusto, tomo I, p. 362») e soprattutto di un futuro della propria vita libero dal passato. Soprattutto dal ricordo angosciante di una sorellina amatissima, morta bambina.
Il tema del viaggio – componente essenziale dell’esperienza sciamanica, oltre che del canone occidentale – è molto presente anche in questo romanzo. Viaggio che può essere mentale o fisico, attraverso lo spaziotempo. Il viaggio vale per l’esperienza del viaggiare, non per il traguardo da raggiungere. Così, il giovane pittore compie inizialmente un lungo percorso in auto nel nord del Giappone. È stato appena lasciato dalla moglie, e lo spaesamento e il trauma contrassegnano il suo andare senza mèta. Nella seconda parte della storia, dopo una fase statico-gestazionale di quasi nove mesi trascorsi nella baita di montagna a dipingere, pare rimettersi in moto per raggiungere con l’amico l’anziano padre pittore morente, padrone della casa in cui è ospite grazie al figlio; per poi tornare al punto di partenza, ritrovandosi dopo tre giorni sul fondo di una buca davvero misteriosa e chiusa quasi ermeticamente, prossima alla baita. Una buca dalla quale il suo corpo potrebbe non essersi mai mosso. Da quella buca, da quel vuoto, grazie ad uno scampanellio udito di notte, tempo prima il giovane pittore aveva tratto fuori il Commendatore, idea in carne ed ossa, dall’aspetto identico a quello del Commendatore raffigurato nel quadro. Lui, invece, sarà fatto uscire da Menschiki, qui nel ruolo di pseudo-ostetrico.

Da questi viaggi senza meta il pittore – nel mezzo del cammin della sua vita, trentaseienne come Tazaki Tsukuru, il protagonista del precedente romanzo di Murakami – emerge grazie a idee e metafore che assumono consistenza reale e tangibile. Comprendendo, col tempo, che in quel capolavoro Tomohiko aveva dipinto la propria ossessione, e un atto mancato: non aver portato a termine un attentato grazie al quale – nel ’38 a Vienna, subito dopo l’Anschluß– lui, giapponese, avrebbe potuto inceppare gli ingranaggi della storia che vedeva i Nazisti vincere in Austria e in mezza Europa. L’assassinio politico non portato a buon fine, combinato alla perdita di una persona cara e insostituibile, avevano causato al Maestro una piaga insanabile, destinata a restare come un’ombra nella sua vita fino agli ultimi giorni, in un lussuoso ricovero per anziani sulla costa.

Nella stanza affacciata sull’oceano, mentre il vecchio pittore giace supino e all’apparenza incosciente, il giovane pittore trova le tracce seguendo le quali darà forma a qualcosa che già conosceva, riportando al contempo Akikawa Marie «da questa parte del mondo», dalla parte dei corpi e degli oggetti. Inverando senza saperlo quell’insegnamento della psicoanalisi che ci dice che nulla è meno naturale di un corpo.
Il primo passo da compiere è l’uccisione del Commendatore, l’idea portante del racconto, conformandosi alla scena dipinta nel quadro di Tomohiko rinvenuto nel sottotetto. Quel ritrovamento si rivela davvero una benedizione al di là delle apparenze, una vera e propria blessing in disguise, evocando quell’azione che avrebbe dovuto aver luogo un tempo, ma che era fallita, restando però pulsante di vita e di rimpianti. Ora si dà l’occasione per una sorta di ripetizione del trauma, sul piano narrativo-letterario: il Commendatore stesso fa presente al protagonista la necessità di far rivivere la scena riprodotta nel quadro. E così il vecchio pittore inerme, ma per un attimo conscio della scena ricreata dinnanzi al suo letto di morte, ascoltando il racconto del giovane pittore che gli rammemora la sua stessa drammatica vicenda viennese, “rivede” il personaggio che aveva inventato e dipinto su una tela prima materializzarsi di fronte ai suoi occhi e poi cadere trafitto da un coltello nel cuore. Visto finalmente dopo così tanti anni, quello che doveva vedere, «Amada Tomohiko era tornato nel mondo tranquillo del coma, privo di travaglio e di coscienza».

Il cerchio è chiuso, l’atto storico impedito dall’intervento della Gestapo a Vienna viene portato a termine idealmente in una stanza d’ospizio spalancata sul Pacifico, grazie all’intuizione e al racconto mimetico del giovane pittore.
Una ripetizione del trauma per interposta persona. Come se i personaggi del romanzo fossero tutti riassorbibili in un macro-soggetto pluri-individuale, e ciò nondimeno scomponibile individualmente e come tale responsabile. Anche il giovane pittore, maturato dall’ultimo viaggio apparentemente assurdo, “si dà alla luce” dopo nove mesi solitari sulla montagna, durante i quali l’ex compagna Yuki per suo conto ha concepito un figlio: un bambino che sarà il figlio di entrambi.

Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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