illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis
1 – chi può dirsi “autore cinematografico”?
– autore è colui che possiede uno stile, stile riconoscibile immediatamente
2 – Chi è colui che può essere riconosciuto depositario di uno stile?
– è depositario di uno stile, colui che possiede uno sguardo –
3 – Che cosa è uno sguardo?
– sguardo è la capacità di selezionare la realtà, e con gli stessi dati selezionati costruire un fatto, dotato di coerenza figurativa e coesione narrativa –
Oggi, non è facile soddisfare queste tre condizioni.
Pertanto, non è facile trovarsi in presenza di un “autore cinematografico”.
4 – Perché oggi non è semplice essere autore, autore come alla fine degli anni ’50?
– Perché il sistema mediatico, la macchina della comunicazione, ha già radicalmente selezionato la realtà –
La realtà è già una “news”. Non è più lo stile, che è immediato: è la realtà. Ogni aspetto della realtà che un regista di cinema affronta, è già esaurito in quanto a dati statistici e iconografici, cifre interpretative, e impatto narrativo.
Il sistema mediatico persino anticipa la narrazione della realtà, nell’aspetto irruente delle “Breaking News”.
La realtà prodotta dai media è il modello della realtà. Si può agire con un gesto di natura residuale, ossia ampliare: ma ampliare senza approfondire, perché l’opinione sui dati è già rigorosamente condizionata in partenza. Il dato, poiché immediatamente e puntualmente selezionato, infatti, è già considerato molto vicino ad una interpretazione.
5 – È quindi impossibile, oggi, trovarsi al cospetto di un “autore cinematografico”?
– No. Si può ancora fare –
Un esempio?
Paolo Sorrentino. Il film sulla figura di Giulio Andreotti, Il Divo.
La struttura narrativa de Il Divo è il format televisivo.
Le marche linguistiche in tale direzione sono evidenti: dialoghi in macchina (come se si trattasse di un’intervista), soprascritte (come nei reportage), immagini rubate da lontano (come si trattasse della videocamera nascosta di un giornalista).
Il pubblico assiste quindi a una sorta di “Chi l’ha visto”, o “Report”, sul personaggio di Giulio Andreotti.
La realtà riguardante Giulio Andreotti è quindi già selezionata. E lo è per davvero: il 98% delle battute pronunciate da Toni Servillo/Andreotti, infatti, risultano vere frasi prelevate dal repertorio tele e giornalistico del personaggio.
Siamo quindi all’interno del genere dominante i codici della comunicazione televisiva, ossia l’infotainment, il mix di informazione e intrattenimento.
6 – È possibile quindi sostenere che Sorrentino posa il proprio sguardo su un materiale già immaginato e narrato?
– Sì, è possibile –
Operando, come è tradizione, sul rapporto tra struttura e forma.
Alla struttura “infotainment”, che soddisfa il sistema di attese, l’apparato percettivo di un pubblico ormai connaturato ai media,occorre riferire una forma cinematografica determinata.
7 – Come individuare questa forma?
– Per individuarla, è necessario un “discorso critico”, che vada oltre l’informazione del dizionario, e l’intrattenimento della recensione –
La forma da individuare è la forma/sguardo specifica di Sorrentino sulla figura di Andreotti, figura che è tuttavia già catalogata dai media.
La forma/sguardo di Sorrentino si appoggia su un’icona esistente ma non puntuale ed immediata, una figura a latere, ossia l’immagine di Aldo Moro nel carcere delle Brigate rosse.
Ecco il fotogramma corrispondente, con Moro interpretato da Paolo Graziosi:
Tutta la forma cinematografica del film è filtrata attraverso questa prospettiva: la figura di un ambiente stretto e allungato, del corridoio senz’aria, del tunnel senza uscita. Una cella/prigione.
Come infatti risulta dai due fotogrammi che seguono, con Andreotti interpretato da Toni Servillo:
La forma/sguardo è questa: un ambiente stretto e allungato, la prigione di Aldo Moro, all’interno della quale è incapsulato Andreotti.
Ogni ambiente del film, tutti, da quelli pubblici a quelli domestici, è configurato da Sorrentino, e da uno straordinario Luca Bigazzi alla macchina da presa, come un corridoio/carcere.
Questa, la forma/sguardo, del cinema, innestata sulla struttura dell’infotainment, i media.
Anche in esterni, in via del Corso, a Roma, come si vede nel successivo fotogramma, Andreotti è sempre configurato in un ambiente stretto, allungato, asfittico, che gli preme addosso.
Anche in Parlamento, fotogramma a seguire, il Divo è sempre co-stretto in un ambiente che gli preclude ogni passaggio od uscita.
8 – È questo, allora, lo sguardo?
– Sì –
Lo sguardo, ripetiamo, ovvero la capacità di selezionare la realtà, e con gli stessi dati selezionati costruire un fatto, dotato di coerenza figurativa e coesione narrativa.
A – La realtà è selezionata, e il dato è tratto: Andreotti è un carceriere/incarcerato.
B – Con questi dati, si costruisce un fatto: l’uomo di potere è prigioniero del proprio Potere.
C – Il fatto è dotato di coerenza figurativa: la figura, dentro la quale l’uomo di potere sconta il proprio Potere, è la forma/carcere di Aldo Moro, un ambiente stretto e angusto in cui il Divo è racchiuso, ovunque egli sia.
D – la coesione narrativa è così disposta: il film racconta i percorsi labirintici dell’uomo di potere Giulio Andreotti all’interno della cella/gabbia del Potere.
9 – Che differenza c’è, allora, tra l’autore cinematografico anni ’50, e quello di inizio XXI secolo?
– La differenza c’è, chiara e netta. –
L’autore del cinema “moderno”, quello anni ’50/’60, attraverso lo sguardo, doveva centrare il proprio obiettivo figurativo e narrativo. Selezionando i dati della realtà, e costruendo un fatto, veniva alla luce il cuore della questione narrativa. E di questo cuore, l’autore doveva concepire una metafora.
Un esempio?
Sempre in tema di angustia e asfissia. Luis Buñuel, ne L’angelo sterminatore, 1962, punta il suo sguardo sulla medio/alta borghesia: spinge forte ed affonda il colpo. Ne seleziona i dati salienti, e costruisce il fatto: tutti i personaggi sono accentrati, rinchiusi in una villa, tanto che, misteriosamente, non riescono più ad uscire.
L’autore “moderno”, anni ’50/’60, elabora la metafora del Potere: la villa/carcere. Il Palazzo non è assediato dall’esterno (come nello schema rivoluzionario), ma dall’interno. Non dai “nemici”, il “popolo”, ma dai suoi stessi occupanti, che si auto-assediano (Ferreri, ne La grande abbuffata, 1973, farà di tutto questo, una scelta non coatta, ma consapevole e lucida).
Paolo Sorrentino, ne Il Divo, 2008, non elabora alcuna metafora. Punta il suo sguardo su Giulio Andreotti, e lascia che lo sguardo sfili via sulla superficie dell’icona, sull’immagine già ampiamente caratterizzata dai media. Tutte le prospettive su Andreotti sono state già sanzionate dall’opinionismo mediatico. Se ne sceglie una rimasta a latere, il corridoio/prigione di Aldo Moro: Aldo Moro, infatti, giudice a latere, è l’angelo sterminatore di Giulio Andreotti.
Ma non è come in Buñuel. Andreotti non si auto-assedia, né viene assediato. Viene intercettato da un’immagine proveniente da una dimensione a latere, come è la Stanza Rossa in Twin Peaks di Lynch, una sin-tonia del Potere con se stesso, che conduce all’interfaccia permanente tra carceriere e carcerato
L’autore cinematografico postmoderno, così, si de-centra: lascia che il linguaggio dell’infoitanment rassicuri il sistema di attese dello spettatore e poi, con una panoramica schiaffo, mostra il punto di vista, laterale e radicale, sull’intera questione.
Che appare nello specchio, in bagno, dinanzi agli occhi esterrefatti del Divo (vedi fotogramma a seguire):
In un set, che sarebbe piaciuto infatti a David Lynch, Moro appare seduto sul water della stanza da bagno di Andreotti, ed è lo specchio che ne rivela la presenza.
Nel luogo più intimo (e de-centrato), ovvero quello più riservato, quello in cui ci si libera e ci si purifica, si viene invece intercettati dallo sguardo a latere del prigioniero che corto-circuita la trasmissione del Potere.
Mentre l’autore “moderno”, anni ’50/’60, attraverso lo sguardo, accentra nella metafora il bersaglio da colpire, l’autore “postmoderno”, inizio XXI secolo, attraverso un doppio sguardo, deve de-centrare il proprio obiettivo figurativo e narrativo.
10 – Ma non sono in fondo lo stesso ambiente, la stessa cosa, la villa dove Buñuel rinchiude i suoi personaggi, e la cella/bagno dove Sorrentino rinserra il Divo?
– No, non lo sono –
La villa in cui il Maestro spagnolo costringe i suoi ricchi borghesi è un set selezionato e costruito per mettere in scena la metafora del Potere (vedi fotogramma a seguire).
Secondo i canoni freudiani (il surrealismo di Buñuel), la villa è spazio eminentemente onirico, ossia luogo dell’incubo della borghesia come classe dominante: condensazione (metafora), e spostamento (metonimia) del discorso di classe, che si mette in scena come rimosso.
Per Il Divo è diverso.
Il set dove Sorrentino immerge il suo protagonista è un set innanzitutto de-selezionato: ossia sottratto all’opinionismo dei media, che tutto cataloga a priori.
Il set, l’ambiente cella/prigione, viene quindi privato della funzione di contenitore metaforico. La privazione è obbligata perché oggi la figura del contenitore rimanda al modulo del format.
Tuttavia il format, ossia l’infotainment, resta presente e funziona come modulo narrativo (Report, Chi l’ha visto…). Il set de-selezionato, la cella/prigione di Moro, assume certo il format come modulo narrativo, ma non ne viene “concentrato”, “metaforizzato”, in una parola, rappresentato.
Il format è attivo, ma non rappresenta più ciò che sostiene: lo intercetta, questo sì. Struttura narrativa e forma cinematografica né si riflettono, né si comprendono: se mai, si intercettano.
I borghesi di Buñuel cercano di fuggire dalla metafora della villa ricca ed elegante e, senza riuscirci, a questa restano con-centrati, e così rappresentati.
Il Divo tenta di de-centrarsi rispetto alla forma prigione di Moro e questa, ripetutamente , lo intercetta.
La villa buñueliana, così, “rappresenta” e “racconta” l’alta borghesia dominante.
La prigione sorrentiniana, e bigazziana, non rappresenta, ma intercetta il Divo: è sin-tonizzata sulla frequenza d’onda dell’uomo di Potere (nel film, l’effetto sonoro della voce di Moro, è sempre come di un suono gracchiante proveniente da un apparecchio radio). L’uomo di Potere cerca di de-sintonizzarsi dalla prigione, ma questa automaticamente, ossessivamente, mantiene fissa la frequenza.
Nessuna delle due rappresenta l’altro. La prigione non rappresenta il Divo, il Divo non rappresenta la prigione. Non sono segni, come i borghesi buñueliani: sono, piuttosto, entrambi, segnali, di una trasmissione, il Potere, il Super-format, che non distingue più chi rappresenta e chi viene rappresentato. Che cerca solo la sin-tonia integrale, e totalitaria (come sarà infatti per il “Divo” della stagione politica successiva, l’ “Unto del Signore”, Silvio Berlusconi).
I borghesi di Buñuel restano concentrati, metaforicamente, sulla coazione a ripetere dell’auto-assedio.
Il Divo di Sorrentino viene ripetutamente intercettato dalla frequenza ossessiva della cella/prigione.
Domanda di riserva: ma non sono, in fin dei conti, al di là di tutto, entrambe, la villa e la cella, metafore del Potere?
– Bé, detto tra noi, l’arte, in fondo, le sue esigenze ce l’ha.
Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.