illustrazione di Chabacolors
parole di Marta Gambetta
Nel 2013 l’Oxford English Dictionary nomina il termine selfie parola dell’anno. Nel 2014 la stessa voce viene inserita nel vocabolario Zingarelli. Si delinea così un fenomeno di tendenza apparentemente infaticabile, resistente, capace di invadere le vite di ognuno di noi. Crescono esponenzialmente i sostenitori di questa pratica rincorsi da altrettanti critici eppure quanti non hanno mai scattato o per lo meno pensato di scattare un selfie?
Entrando nel merito puramente terminologico, due sono i caratteri fondamentali di questa moderna configurazione dell’autoscatto: di essere compiuto per mezzo di uno smartphone, di un tablet o di una webcam rivolti verso se stessi e di essere concepito in vista di un’istantanea condivisione su un qualsiasi social network. La rivoluzione e l’innovazione introdotte da una simile moda sono tuttavia sopite, e celate, dal comune accostamento della categoria selfie a quella di autoscatto o fotografia e dalla contestuale interpretazione della nuova consuetudine come effetto di una degenerazione narcisistica globale senza precedenti.
Nel 1980 Barthes ne La camera chiara definisce la fotografia come risultato di tre intenzioni: «fare, subire, guardare». Si tratta nello specifico dell’operatore che scatta la fotografia, del subire lo scatto da parte dell’oggetto ritratto e del guardare di colui che osserva il risultato compiuto. Nel selfie la triade collassa. Eliminando momentaneamente la pratica del “guardare” (che pure assume nell’epoca “social” una valenza peculiare e rilevante), il “fare” come il “subire” diventano un unico movimento ad opera di un unico soggetto. Questa riduzione depreda l’atto del fotografare di una dimensione assolutamente caratterizzante coincidente con l’atto del cogliere. Il selfie infatti sviluppa le sue più ampie possibilità di realizzazione in virtù delle potenzialità tecnologiche introdotte dagli strumenti che lo realizzano. Il riferimento è alla capacità che il soggetto ha di osservare e controllare direttamente il risultato della sua azione tramite fotocamera frontale. L’oggetto dell’obiettivo non è dunque sorpreso nel suo essere – come avviene, anche se a un livello minimo, persino nell’autoscatto – ma s’attende piuttosto all’essere catturato in un atteggiamento interamente coercibile. Non solo, il fatto che il selfie venga alla luce in quanto predestinato alla condivisione tramite social determina un secondo differenziamento, dislocativo questa volta, relativamente al ruolo del “guardare”. Il motivo della presenza di un osservatore diventa paradossalmente maggiormente rilevante rispetto a quello della stessa fotografia. Più dell’oggetto-soggetto immortalato, più della cornice che racchiude staticamente il momento, conta ciò che avviene fuori dal riquadro dell’incorniciatura, la reazione che attribuisce significato e valore a questa moderna concezione del fotografare.
Sarebbe quindi opportuno interrogarsi sul significato di questi rivolgimenti, partendo nello specifico dall’origine ovvero dalle motivazioni che hanno spinto all’affermazione e alla diffusione del selfie. Per chi volesse incamminarsi lungo questo sentiero – del senso – emergerà preliminarmente il tema generale del narcisismo moderno, della derivazione egocentrica (per dirla con le parole del filosofo Charles Taylor) assunta dalla nozione contemporanea di auto-realizzazione. A questo tema si legheranno indubbiamente quello della ricerca di attenzione, di importanza, di immortalità, di peso e persino di unicità all’interno di una società globalizzante e annichilente (ricerca che paradossalmente si concretizza in quella che ormai è diventata una consuetudine talmente diffusa da non far altro che ribadire il paradigma stesso che inizialmente cercava di fuggire). Ma potrebbe esserci di più.
Sartre ne L’essere e il nulla scriveva «Io sono, al di là di qualsiasi conoscenza, quel me che un altro conosce. E questo me che io sono, lo sono in un mondo del quale altri mi ha espropriato: perché lo sguardo d’altri abbraccia il mio essere e correlativamente […] tutte le cose-utensili, in mezzo alle quali sono io, volgono verso l’altro un volto che per essenza mi sfugge.» Così scrivendo affermava come l’io-soggetto si configurasse come oggetto per l’altro, nella maniera di una determinazione di un essere che fugge al controllo dell’io-soggetto stesso. Contestualmente alla riflessione in atto, il soggetto-oggetto del selfie, controllando lo scatto, cercherebbe allora di veicolare, bloccare e vincolare l’attività giudicante e di conferimento di valore (senso) dell’altro- soggetto-osservatore. L’immagine non coglie nulla, in questo caso, se non quell’idea o visione di sé che l’oggetto stesso ricerca, rincorre e vuole imporre al mondo esterno sottraendosi a quella che Barthes definisce «angoscia di una filiazione incerta».
In ultimo, se è vero quanto affermato dal semiologo francese circa la possibilità di definire lo spazio privato come «zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto» e se allo stesso tempo è possibile quindi identificare questa estensione con la categoria della riflessività, dov’è in una durata scandita da queste istantanee, o selfie, il residuo della meditazione su se stessi? È lecito considerare, nel bene o nel male, questa moda narcisistica anche come l’ennesima forma di divertissement, di fuga dalla considerazione riflessiva dei problemi esistenziali dell’individuo?
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.