Illustrazione di Michel Chabaneau
parole di Massimo De Angelis
Conobbi e frequentai Emanuele Severino a metà degli anni Novanta. Avevamo da poco fondato, con alcuni amici, il mensile liberal, e gli proponemmo di collaborare. Accettò di buon grado. Nel corso degli anni fu anche ospite di diversi convegni da noi organizzati. In seguito, chiusa la rivista, la frequentazione si diradò. Sino a quando ci ritrovammo con lui, all’incirca un anno fa, intorno alla seria malattia di un comune amico. Stavo già da tempo lavorando a un saggio sul pensiero di Nietzsche e gliene parlai. Severino era persona diretta e pensatore appassionato, e fu dunque sinceramente incuriosito e interessato. Nel frattempo si venne organizzando il congresso internazionale di Brescia del 13 -15 giugno scorso su “Heidegger nel pensiero di Severino”, in occasione del suo novantesimo compleanno e in coincidenza col ritrovamento di alcuni testi del filosofo tedesco che documentavano l’interesse di questi per il pensiero di un Severino ancora filosofo in erba. Egli mi propose di partecipare con una comunicazione al simposio. Nel frattempo andavo avanti col mio lavoro e rimanemmo d’intesa che gli avrei inviato altro materiale. È quel che feci nelle settimane successive. Severino mi scrisse una mail nella quale diceva che aveva preso i miei testi e li avrebbe letti con grande interesse in montagna dove si stava recando per un periodo di vacanze. Né lui né io immaginavamo che pochi giorni dopo il suo arrivo nella località montana si sentisse male. Dovette rientrare rapidamente a Brescia, curato dai medici e protetto dalla figlia da qualsiasi incursione esterna. Non ho quindi più potuto parlare con lui apprendendo lo scorso 21 gennaio della sua scomparsa. Ho perso così non solo un maestro ma colui che stava diventando un amico, dal pensiero affilato e freddo e insieme dotato di un fortissimo entusiasmo, di grande comunicativa e attenzione.
Non parlerò qui di seguito della storia della sua opera. Vorrei piuttosto mettere a fuoco un passaggio cruciale del suo pensiero che avevo percorso anch’io nel mio studio di Nietzsche. E lungo il quale avevamo finito, perciò, per incrociarci. Heidegger sostiene che ogni filosofo pensa nella sua vita un solo pensiero. L’Essere era per Heidegger il pensiero fondamentale e a vedere bene lo è forse per ogni filosofo, metafisico o post-metafisico. Purché si aggiunga allora che il pensiero dell’Essere è simile a un prisma del quale ogni filosofo guarda una faccia. La prospettiva di Severino guardava la faccia del Divenire. E qui, ovviamente, Severino non poteva non incontrare Nietzsche, il filosofo che afferma l’assoluta evidenza del divenire. Era infine questo stesso pensiero che aveva stregato Heidegger, che per questa porta entrò nel pensiero di Nietzsche senza in realtà mai più uscirne. Per Heidegger, Nietzsche, avendo affermato l’assoluta evidenza del divenire, cancellando, insieme con ogni dualismo, l’essere, era l’ultimo dei metafisici. Egli approdava alla volontà di potenza come verità ultima e disvelata della metafisica e come sovrana nel conseguente esito nichilista di essa.
Severino ha scritto su Nietzsche e sull’interpretazione heideggeriana del suo pensiero soprattutto ne L’anello del ritorno, con una lettura memorabile, in particolare, di alcuni canti di Così parlò Zarathustra e del famoso aforisma 617 de La volontà di potenza. Anche per Severino, non c’è dubbio che Nietzsche disveli l’essenza nichilista della metafisica, del pensiero dell’Occidente, mettendone a nudo la follia. La follia di pensare il divenire come passaggio delle cose, degli enti, dall’essere al non essere. Follia che è all’origine della tecnica pensata e agita come annientamento. Come devastazione avrebbe detto Nietzsche (e con lui Heidegger). Follia che viene a nudo nel nostro tempo dopo aver soggiornato nel sottosuolo delle epoche precedenti. Nietzsche ha disvelato la follia del pensiero occidentale e fu probabilmente proprio questa la sua autentica follia.
Severino però non è d’accordo su un punto: Nietzsche non si sarebbe fermato qui e nega perciò che egli possa essere catalogato come ultimo dei metafisici. Il cuore dell’argomentazione di Severino è racchiuso nel commento che egli fa dell’aforisma n. 617 de La volontà di potenza e nel paragrafo 6 di “Storia di un errore” in Crepuscolo degli idoli. Heidegger non si avvede, secondo Severino, ed è questo il punto cruciale davvero, che in questi testi Nietzsche delinea i contorni di due diverse verità. “Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza”, scrive Nietzsche a inizio 617. Essa si esprime come volontà di verità che stabilizza l’essere, che dà forma e fissa enti nel flusso incessante. Enti che sono illusioni così come lo è quella verità, che è utile alla vita ma che è ‘falsificazione’. Severino svela come Nietzsche abbia intuito un’altra verità, che si afferma nell’eterno ritorno come “estrema approssimazione di un mondo del divenire al mondo dell’essere” (sempre nel 617). Heidegger ha ignorato la presenza di questa diversa idea di verità, così come non ha compreso la famosa frase del Crepuscolo: “Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente” che pure indica la via di una verità ulteriore a quella dei due mondi, quello delle idee e quello sensibile.
La verità nuova è quella che Nietzsche attribuisce al superuomo che è più appropriato definire, come suggerì Vattimo, oltreuomo. Porre la nuova verità implica distinguere tra verità vera e verità apparente. La verità apparente, propria della volontà di potenza, fissa, come con delle istantanee, le forme che danno corpo transitorio, raffigurazione agli enti; la verità vera, viceversa, è quella che diviene consapevole di tale procedimento e intuisce il flusso quale realtà ultima e suprema. Essa coglie così l’immutabile che non è l’immobile. Ma è, se si vuole, lo spirito di quel che è. La prima verità, sostiene Nietzsche e sottolinea Severino, mette capo alla “logicizzazione, razionalizzazione, sistematizzazione come sussidi della vita”. E sempre a questa verità appartiene ogni pensiero rappresentativo. Esso non conosce l’essere ma connota come essere ciò che è divenire ed è perciò azione falsificante. Ma dal superuomo, afferma Severino, la verità è intesa in modo diverso… “essa non allontana mai dai propri occhi la falsità del mondo”. Di quel mondo nel quale gli enti appaiono essere e non essere più. Severino dunque coglie in Nietzsche il pensiero di una verità che salva le cose dal nulla.
Egli non coglie invece, a mio avviso, una componente essenziale di questa verità nel modo in cui la pensa Nietzsche. E cioè che essa è risultato di un odòs non più logico. È frutto di un altro tipo di conoscenza. È frutto dell’intuizione, incardinata, a sua volta, nel corpo e nella sua Erlebnis, conscia e inconscia, col che Nietzsche è definitivamente oltre il Soggetto cartesiano, e quindi ovviamente oltre il pensiero metafisico e oltre ogni razionalità calcolante e logicizzante. Per Nietzsche il nostro intelletto non è organizzato per comprendere il divenire; lo è invece l’intuizione che non segue la logica e grazie alla quale è possibile vivere il e nel flusso assoluto. Che è quanto poi, paradossalmente, ha visto Heidegger attribuendolo però a Rilke in Perché i poeti e disconoscendolo a Nietzsche che lo aveva invece più compiutamente pensato.
Si può comunque dire che Severino, sulla scorta di Nietzsche, giunge a proporre uno sguardo soprannaturale sul mondo. Lo sguardo appunto del superuomo. Uno sguardo col quale non si pensa più l’eterno a partire dal tempo (come prolungamento infinito del tempo), ma si pensa il tempo a partire dall’Eterno, come apparenza di quel che è immutabile ed eterno. Come in ‘Meriggio’ di Così parlò Zarathustra, dove l’attimo è il buco luminoso di eternità nel quale “sparisce il tempo”. Come nella famosa visione di Silvaplana. Nel tempo traspare l’Eterno.
Nietzsche per questa via giunse a vedere in Gesù, ne L’Anticristo, e nel suo annuncio di ‘vita eterna’ un completamento, ma direi il superamento, di Dioniso. Non vi sono tracce, per quanto ne so, che Severino abbia mai fatto altrettanto. Tuttavia nella sua idea di Gioia vi è un presagio.
Perciò Severino non spiega il motivo per il quale l’Eterno appare, non spiega l’origine del tempo e del suo incantesimo che fa intravvedere ma tiene lontani dall’Eterno stesso. In Essenza del nichilismo Severino accenna al tema della Caduta ma non credo la abbia mai inserita a pieno nel suo pensiero dell’Eterno e del Tempo.
Pur non individuandone la causa, il Tempo è comunque per Severino luogo in cui appare l’eterno. C’è dunque differenza tra l’apparire e l’essere ma tutto l’essere passa nell’apparire e non c’è altro che essere nell’apparire. Cessa dunque il Nulla e la persuasione che l’ente sia niente. Cessa il nichilismo. Cessa la follia dell’Occidente, che è poi la follia (e la separatezza tenebrosa) del mondo.
A questa stregua il pensiero di Severino va considerato un ritorno a Parmenide non perché si tornino a negare le determinazioni – perché su questo Severino è convinto che abbia ragione Platone – ma perché tali determinazioni sono tutte nell’essere, e tutte le determinazioni, tutto il divenire delle cose è manifestazione dell’eterno, e l’eterno è luce di tutte le cose. E infine immanenza e trascendenza, con buona pace di Cornelio Fabro, non sono più dimensioni separate e contrapposte.
Massimo De Angelis è scrittore, giornalista e politico. Già portavoce di Achille Occhetto, vicedirettore di Liberal e dirigente Rai.