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“Pleasure is our subject”
25/05/2018|L'EVENTO

“Pleasure is our subject”

illustrazione di Simona Bramucci
parole di Luciano De Fiore

«Pleasure is our subject»,  annunciava ai suoi studenti David Kepesh, il più sprovveduto degli eteronimi di Philip Roth.
In effetti, il desiderio/godimento  – traduciamo così la Lust freudiana – è il grande tema dello scrittore di Newark, unica fiamma-pilota delle nostre scelte e delle nostre rinunce.

 

«Il nostro argomento è il piacere. Come affrontare seriamente, nell’arco di una vita, i propri modesti, privati piaceri». Così inizia il suo corso universitario di Critica letteraria il sessantaduenne David Kepesh, il personaggio più fragile nel teatro rothiano degli eteronimi, ne L’animale morente. Nel salutare il maggiore scrittore americano dell’ultimo mezzo secolo, mi limito a commentare questa breve, semplice frase. Nell’argomento eletto dal “professore di desiderio” si condensa infatti il progetto letterario e di vita del suo autore, ultimo della triade dei grandi maschi bianchi – con Saul Bellow e John Updike – dominatrice delle lettere americane nella seconda metà del ventesimo secolo.Nessuno meglio di Roth ha descritto l’impresa, alta e ai limiti dell’impossibile, di tener insieme legge e desiderio. Sapeva che un padre è un padre se incarna anche la legge, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare. Sentimenti che aveva escritto in Patrimonio, uno dei suoi capolavori. Da qualche anno ci aveva anticipato, in un lascito, la sua eredità di scrittore. Oggi possiamo confrontarci con questa provenienza, guardandoci dalle idealizzazioni.

Luciano De Fiore, Philip Roth. Fantasmi del Desiderio (2012)

Perché quella frase? Perché Roth è lo scrittore del piacere. Sin da Goodbye, Columbus, fin dall’urlo finale, liberatorio e spaventoso, di Alexander Portnoy nel suo Lamento. Viva l’impudicizia: quando fai l’amore con una donna, ti vendichi di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Tutta la fragilità di Kepesh si mostra nello scegliere a tema il pleasure, la Lust freudiana. Nella sua narcisistica ingenuità non sa, invece, che è lui, il desiderio/godimento, a sceglierci. Kepesh quindi è destinato a subire i picchi e le cadute di un’economia pulsionale contrassegnata soltanto dall’eccesso. Roth invece lo sapeva benissimo, e questa consapevolezza è conficcata in tutta la sua opera, il cui oggetto è stata infatti sempre quella Lust che, Freud insegna, è insieme gioia di vivere, desiderio/godimento e il suo contrario. Nel farne esperienza, sfreghiamo continuamente il limite, la sofferenza, incontriamo quella radicale destabilizzazione comportata da Eros e che ci mantiene divisi, e quindi sani.

La triade piacere/godimento/sofferenza è programmaticamente indagata, per di più, con serietà. Vale a dire, senza lasciarsi distrarre da quella cometa iridescente che è l’amore, la cui rotta, a tratti, può intersecare quella del desiderio. Per questo i personaggi di Roth amano raramente. Anche quando ciò accade – come nel caso struggente di “Bucky” Cantor e Marcia, la sua ragazza, in Nemesi, l’ultimo romanzo – l’amore ha più a che vedere con la vulnerabilità che con la felicità. Questa non sembra neppure rientrare in un orizzonte sensato e perseguibile. Al punto che Il teatro di Sabbath cita, tra il serio e il faceto, il professionale DSM-IV che propone «di classificare la felicità tra i disordini mentali e di includerla nelle future edizioni dei principali manuali di diagnostica sotto questo nome: disordine affettivo primario, di tipo piacevole».

Philip Roth, Exit Ghost (2007)

Piuttosto, «la vita è composta di “e”: l’accidentale e l’immutabile, il bizzarro e il prevedibile, l’attuale e il potenziale, tutte realtà che si moltiplicano, si aggrovigliano, si soprappongono, entrano in collisione, si combinano tra loro… più il moltiplicarsi delle illusioni!»: la grandezza della scrittura di Roth riluce nella capacità di dar conto delle mutevoli stagioni del desiderio nell’arco della vita, di seguirne gli intricati, contorti sentieri fin nel folto degli anni, quando l’età, le malattie, la melanconia sembrerebbero soffocarlo. Mentre invece, ancora e sempre, quel pleasure funge da fiamma-pilota delle nostre scelte e delle nostre rinunce. Personali, per lo più modeste, quasi mai eroiche ed anche perciò vive ed umane.
Come nel caso paradigmatico dell’ultimo Nathan Zuckerman, in Exit Ghost. Che anche alla soglia degli ottant’anni si produce in una fuga degna di un attaccante ventenne, spinto da un eccesso che sa di non poter soddisfare. Il desiderio si mostra nei suoi romanzi per quello che è: in termini calcistici, immarcabile. Non consumandosi mai fino in fondo, preserva l’eccesso che esso stesso è. Grande Roth.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni. Nel 2012 pubblica Philip Roth. Fantasmi del desiderio, di cui sta curando una seconda edizione.

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