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Pasolini “fuori dal Tempo”
01/11/2017|L'EVENTO

Pasolini “fuori dal Tempo”

Pasolini “fuori dal Tempo”
illustrazione di Chabacolors
parole di Daniele Taurino
Pier Paolo Pasolini visto con gli occhi di quella generazione che non lo ha mai vissuto direttamente. Una generazione anagraficamente sollevata dal senso di colpevolezza e, così, libera di trasformare la mancanza in desiderio di conoscenza.

La tua viva presenza, nella nostra colpevole assenza! Ogni giorno della vita, hai pensato alla condizione del tuo essere e dell’essere degli altri. Mai hai smesso di sognare, perché questo era il tuo modo disperato di essere, sperare, amare. Hai combattuto il rifiuto di gioia dei denigratori della felicità, reagendo all’oltraggio e aspettando impaziente la resa dei conti.

Pier Paolo Pasolini è stato forse l’ultimo intellettuale di una stirpe italica perduta; o almeno così l’ho sempre percepito. Lo provo a dire ex abrupto, senza alcuna intenzione di ingabbiamento, consapevole che è la lingua che rimane residualmente «fascista», come ha scritto Roland Barthes, non per una qualche censura intrinseca, ma perché “costringe a dire, a nominare, a stabilire etichette, e ad assumersi di conseguenza la responsabilità del relativo comportamento e del relativo giudizio positivo o negativo che la società prevede per le relazioni normali e quelle anormali, per la regolarità e per la perversione”.
Sono 42 gli anni che ci separano dalla morte di Pier Paolo Pasolini, avvenuta in modo atroce, il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. Nato a Bologna l’anno della Marcia su Roma e morto sulle rive del Tevere, tra i rifiuti, in un degrado ancora visibile tra la fitta vegetazione quando da ragazzino, uscendo di casa, mi capitava di osservare dalla sponda di Fiumicino quella ostiense del Tevere. Oggi, al posto di quel corpo dilaniato e abbandonato nella sabbia sudicia, c’è un Parco Letterario a lui dedicato presso il Centro Habitat Mediterraneo LIPU di Ostia. Sembra la storia di un suo verso portata a compimento: “Fiori: ecco che cosa il cuore vorrebbe offrirvi in cambio dei rifiuti”. Che quotidiani gesti d’amore prendano finalmente il posto usurpato dalla violenza.

Fiori: ecco che cosa il cuore vorrebbe offrirvi in cambio dei rifiuti

Quarantadue anni sono anche il tempo minimo che misura la nostra distanza dalla vita di Pasolini e che può collocare noi giovani nati quasi una generazione dopo la sua dipartita, in una prospettiva inedita anche rispetto alle sue idee e alle sue opere. Inedita perché non più guidata dallo scandalo del suo corpo in vita, offuscata da sentimenti d’odio e d’amore, illuminata dal ricordo. Inevitabilmente finora l’eredità di Pasolini è stata colta nel segno della «mancanza», in un verso o nell’altro molti persero da quel 2 novembre un punto di riferimento culturale e lo stesso “ceto intellettuale” sembra che da quel giorno in poi abbia iniziato a ripiegarsi su se stesso, sempre più incapace di influenzare il dibattito nazionale, figurarsi l’agenda politica. Una mancanza che in coloro che più si riconoscevano in Pasolini si è fatta anche «colpevole assenza», come scrive il filosofo Guido Zingari nell’esergo con cui ho voluto aprire. Un’assenza colpevole, perché personale e non più sanabile, imbarazzante e doverosa di giustificazione come quella di Platone al momento della morte di Socrate (Fedone, 59b). L’età anagrafica solleva invece un giovane lettore di PPP da questo senso di colpevolezza, lo assolve seduta stante e lo rende libero di trasformare la mancanza in desiderio di conoscenza, di ricostruzione, di orientamento; è così che Pasolini può tornare a essere “viva presenza”, magari partendo con una promozione dal basso della sua poesia (bellissima!) nelle scuole e negli incontri culturali…del resto: “La morte non è/nel non poter comunicare/ma nel non poter più essere compresi” (da Una disperata vitalità).

Cosa è cambiato da allora a oggi? La salute dell’ecosistema è sicuramente peggiorata, le guerre si moltiplicano “a grappoli”, le ingiustizie sociali sono cresciute, l’economia neocapitalista ha aumentato il divario tra ricchezza e povertà, le forme della politica sono state stravolte… ne avrebbe ancora PPP di che riempire pagine corsare. Molti dei temi che egli affrontò polemicamente, entrando a “gamba tesa” pur sapendo, da calciatore, di rischiare ogni volta di esser cacciato, sono ancora aperti, con le loro pure opposizioni a vista, nascoste solo dal velo dominante d’ipocrisia “borghese”. La sua voce, profetica soltanto nel senso etimologico del “dire prima”, insieme alla volontà di non farsi condizionare da logiche ideologiche, gli consentiva analisi che, spesso, costituivano un unicum nel panorama di generale conformismo italiano.
Questa sua intelligenza superiore è la motivazione autentica – quelle strumentali e pubblicitarie lasciamole stare – per cui molti si sono affannati per appropriarsi o prendere le distanze dall’eredità di Pasolini. Ma può essere una motivazione valida anche per la sua riscoperta. Non più per cercare col lumino quando ebbe ragione e quando torto, quanto e in che misura fu “scandaloso” o “profetico”, incoerente o geniale, bensì per entrare in dialogo con le sue pure opposizioni, per rintracciare nei suo testi (orali, scritti e visivi) il pirncipium contradictionis di cui fu portatore: ovvero quella capacità/disposizione, accettata da Pasolini con coscienza appassionata, a generare conflitti non per il gusto estetico di farlo, ma per renderli pubblicamente esposti, pronti a essere agiti, studiati, risolti prima dell’esplosione distruttiva. Un “generatore di conflitti” da cui non dobbiamo pretendere ricette o menù per l’avvenire, ma la cui unicità stava nel fatto che le sue tesi non erano preconfezione; anche il suo marxismo di fondo, ineluso e ineludibile, non era un tabernacolo, un dogma, piuttosto uno strumento di comprensione che, a monte e a valle, non escludeva nessun altro compagno di analisi critica.

Si può capire così meglio, per esempio, il breve ma importante saggio apparso nel 1959 col titolo “Marxisants” sull’ultimo numero di Officina in cui Pasolini, a partire dalla constatazione che anche seguire gli ideali e la luce del “padre e umile fratello” Gramsci non è più sufficiente – infatti sono i neocapitalisti e non i comunisti che hanno avviato una rivoluzione seppur degenerativa-, risponde all’annosa questione del «che fare?» in maniera sorprendente: bisognerebbe, dice, trovare il modo non solo di annunciare il rinnovamento sociale, ma di viverlo al di fuori degli schemi borghesi, partecipando “attivamente” alla vita del sottoproletariato (ipotizza per esempio la trasformazione del Partito Comunista in un Partito dei Poveri). In altre parole, Pasolini delinea a cavallo degli anni ’60 una figura di intellettuale attivo, “socialmente decisivo”, quindi sì esistenziale (come gli rimproverava Franco Fortini), ma di necessità, in quanto concreto e sociale, al tempo stesso aristocratico e vicino agli ultimi. In questa prospettiva egli partecipò alla prima Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli promossa e organizzata dal filosofo Aldo Capitini; e ne rimase entusiasta al punto che ne presenziò una regionale poco dopo in Toscana, insieme allo stesso Capitini. Scrive su Vie nuove, il 4 gennaio 1962:

“La nonviolenza: mi sembra una nozione stupenda. Essa è estremamente aristocratica […] Ma, si è visto nelle «Marce della Pace» di questa estate, tale sua fondamentale aristocraticità è facilmente accepibile dalle masse coscienti: non c’è contraddizione tra la sua elezioni e la sua popolarità. Per questo, quelle «Marce della Pace», sono state il fenomeno politico italiano più interessante dell’anno. […]
La nonviolenza è l’acme ideale di una concezione razionale della realtà. Se ogni forma di pensiero ha bisogno, nell’atto pratico, di una manifestazione concreta e basata quindi sul sentimento e la persuasione, la nonviolenza è l’atteggiamento sentimentale e persuasivo di chi è totalmente fuori da ogni conformismo, di chi si è totalmente «liberato» attraverso gli strumenti della ragione e della cultura.”

Pasolini connette “opposizione e liberazione” – giungendo così a un punto d’arrivo analogo a quello di Capitini pur partendo da premesse radicalmente diverse –, denuncia del Potere e programma costruttivo che, scaturito da una sincera lotta interiore, è capace di coinvolgere le “masse popolari”, di non rimanere astratto moralismo e organizzarsi, invece, in modalità collettive e corporee. Poiché, come afferma impunemente uno dei quattro carnefici di Salò o le 120 giornate di Sodoma, “la vera anarchia è quella del potere”. Ciò che il Potere prescrive diviene senza mediazione Legge e la maschera del Potere, diviene lo strumento di coercizione mediante cui la persona scompare per fare largo a un cittadino svuotato della sua stessa umanità; una patologia del potere assoluto che è rimasta virus all’interno dello stato democratico dove la violenza diviene fattore costituente, non alternativo, del Potere. Se la violenza – sia essa irrazionale, istituzionale o rivoluzionaria – non è un’alternativa, allora ne consegue che bisogna cercare una più stretta corrispondenza tra mezzi e fini. È su questo punto in particolare che il poeta critica i giovani del ’68:

Questa è la radice del problema: usano contro il neocapitalismo armi che in realtà portano il suo marchio di fabbrica, e sono quindi destinate soltanto a rafforzare il suo dominio. Essi credono di spezzare il cerchio, e invece non fanno altro che rinsaldarlo.

Il Pasolini degli anni Settanta accentua il suo sguardo pessimista, ma non dobbiamo pensare che perda in lui centralità la cifra “opposizione-liberazione” prima rintracciata: il rifiuto, dice a Furio Colombo nel 1975, è “il gesto essenziale”, “i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no”. Naturalmente si tratta di no detti al Potere, capaci di spezzare il cerchio di violenza e conformismo, di urtare il sistema e lasciare aperto lo spiraglio per il progresso. Nell’ultima intervista, che il settimanale “Gente” intitolò Quasi un testamento, Pasolini dice, con tono leopardiano: “In realtà il mondo non migliora mai. L’idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse”. Tuttavia aggiunge, preziosamente: “Il mondo può peggiorare, invece, questo sì. È per questo che bisogna continuamente lottare”. Un impegno che non possiamo eludere e che si può affrontare meglio con l’aiuto di maestri sinceri, come Pier Paolo Pasolini.


Daniele Taurino è Laureato in Filosofia con una tesi magistrale su Giordano Bruno. Attivista del Movimento Nonviolento e membro della Comunità di ricerca di “Educazione aperta”, è responsabile di redazione della rivista Azione nonviolenta fondata da Aldo Capitini nel 1964.

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