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NORMAL IS THE NEW BLACK
10/04/2017|L'EVENTO

NORMAL IS THE NEW BLACK

NORMAL IS THE NEW BLACK
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Giulia Sinceri

 

La normalità. “L’appuntamento che ho avuto con quel ragazzo è stato normale” non suona come il presupposto ideale per una grande storia d’amore. Questo perché di solito siamo abituati ad associare la normalità a qualcosa che non si distingue dalla massa, mentre essa talvolta sa porsi come un elemento chiave e facilmente identificabile. Prendiamo il mondo della moda: quest’ultimo è spesso foriero di statement pieces decisamente caratteristici, come le camicie femminili dalle maniche oversize che impazzano ultimamente.
Eppure, accanto ai trend più bizzarri, negli ultimi quattro anni ne sta emergendo uno basato sulla normalità, il cosiddetto trend normcore. Si tratta di vestirsi in maniera easy, con capi basici e neutri, tanto da arrivare a possedere una sorta di divisa sorprendentemente caratterizzante. Idea che aveva fatto propria, seppur da molto più tempo, anche Steve Jobs: provate a visualizzarlo nella vostra mente e vi apparirà subito la sua immagine con addosso l’iconico dolcevita nero, potete scommetterci.
Inoltre la sobrietà dei gusti si sta manifestando da parecchio anche in ambito gastronomico, dove alcune delle parole d’ordine sono ritorno alla semplicità, territorialità e tradizione. Lo evidenzia anche un articolo pubblicato a gennaio dal Gambero Rosso.
Ma come spiegarsi il successo di questa tendenza ormai tentacolare? Sarà che talvolta abbiamo solo bisogno di un break dalle particolarità, cedendo così a un caldo abbraccio normcore. Inoltre stanare continuamente delle novità non è facile, la fantasia talvolta viene a mancare. Perciò alcuni temi vengono riproposti ciclicamente, approfittando dell’avvento di nuove generazioni o facendo affidamento sulla nostalgia, altro trend che ultimamente è sulla cresta dell’onda nel campo cinematografico e televisivo: ne sono una prova i vari sequel come Trainspotting 2 o Blade Runner 2049, il grande successo di Stranger Things e il suo vibe anni ’80, o ancora programmi Rai come Nemicamatissima e C’era una volta Studio Uno. Ovunque ci giriamo, il passato torna prepotentemente. E se non fosse invece che a tornare non è il passato ma la sua immagine fantasmatica?
Non si devono sottovalutare due fattori essenziali come la nostra sempreverde necessità di incontrare il reale e di seguire il filo di racconti, per quanto essi siano stati già sfruttati in precedenza; se così non fosse avremmo smesso di guardare la televisione e di andare al cinema già da diverso tempo. Come diceva André Bazin, infatti, le persone avvertiranno sempre il bisogno di ritrovare il reale attraverso le sue apparenze: perciò la realtà non diventerà mai noiosa, l’importante è saperla affrontare da diverse angolazioni.

This is us, la straordinarietà del normale

Una serie Tv che ha carpito tale segreto è This is us, la cui prima stagione si è conclusa da poco. Il titolo è decisamente esplicativo, ci fa subito capire che siamo noi stessi, le persone “normali” e comuni, a essere le protagoniste. Di fatto la trama di This is us racconta gli alti e i bassi di una famiglia qualunque: detta così non si presenta particolarmente avanguardistica, eppure la serie utilizza una scrittura allo stesso tempo semplice ma coinvolgente, dimostrando concretamente che spesso non è importante cosa si racconti, ma come.
Ma forse c’è qualcosa di più: dopotutto queste storie normali contengono in sé qualcosa di speciale. Vengono mostrate in televisione e sottoposte dunque all’attenzione di migliaia di persone. Si opera così una sorta di transfert in cui la normalità diventa straordinaria e se noi siamo ciò che vediamo sullo schermo allora anche noi siamo straordinari. Probabilmente a ciò si deve l’iniziale successo di reality show come il Grande Fratello, dove persone comuni diventano oggetto di grande interesse per il solo merito di trovarsi sotto i riflettori e sotto gli occhi degli spettatori, creando un processo che legittima sia chi guarda sia chi è guardato.

Il caso Stoner

Un effetto simile lo si ottiene leggendo Stoner di John Williams, romanzo che tratteggia la vita di un uomo comune, anzi comunissimo. Quando venne pubblicato nel 1965 non riscosse successo, del resto in quegli anni si aveva fame di novità. Ma dopo la ristampa negli anni duemila e grazie al passaparola, Stoner è riuscito a diventare un vero e proprio caso letterario: le persone erano ormai pronte a lasciarsi affascinare da una vicenda così semplice ma suggestiva.
Mentre lo si legge, infatti, il libro si abbarbica alla mente, e, anche dopo averlo finito, lo si ricorda con chiarezza (a differenza degli studenti di Stoner che dopo la sua morte serbano poca memoria del loro professore). Forse anche noi speriamo che gli altri si possano interessare allo stesso modo al nostro storytelling: dopotutto è quello che facciamo ogni giorno sul nostro profilo Facebook, ovvero ricercare approvazione per la sequela dei semplici post che condividiamo e che riflettono il nostro modo di essere.

Vivian Maier, semplicità segreta

Chi della semplicità aveva fatto un vessillo era Vivian Maier: anche lei, come il personaggio di Stoner, era una persona – apparentemente – ordinaria che però è assurta alla straordinarietà, seppur postuma. Di fatto era conosciuta da tutti come una tata ma nessuno sapeva del suo talento segreto, ovvero la capacità di scattare foto di qualità eccelsa. Solo dopo la sua morte i suoi lavori sono diventati popolari acquisendo molta notorietà (e in questo assomiglia di più all’ideatore di Stoner, John Williams), anche in nome di un gusto per il “vintage” che non fa mai male. L’effetto nostalgia colpisce ancora, dunque. E in effetti le foto della Maier colpiscono sia per la placida semplicità dei soggetti ritratti sia perché narrano delle memorie passate che non appartengono alla maggior parte di noi, dato che la Maier è stata operativa in America negli anni ’40-’80, ma che in qualche modo risultano estremamente riconoscibili e incisive nel tratteggiare un’epoca. Il merito principale di questa fotografa segreta sta quindi nell’aver saputo inquadrare un universo di simboli condivisi e condivisibili nel tempo, esattamente come il fenomeno del cult, tratto comune a tutti e tre gli esempi citati finora.
Il processo che però li ha portati a diventare cult risulta inverso rispetto alla norma: solitamente diventa tale ciò che ci colpisce per la sua natura particolare e stridente rispetto al contesto in cui nasce, come la famosa scena di ballo in Pulp Fiction che è entrata nell’immaginario popolare diventando fortemente riconoscibile. Con Stoner, This is us e l’opera della Maier si parte invece da elementi identificabili nell’immediato e che solo in seguito assurgono allo statuto di cult, uscendo dunque fuori dalla matrice “ordinaria” che li ha generati.


Giulia Sinceri è una studentessa di Media, Comunicazione digitale e Giornalismo alla Sapienza. Alle elementari diede vita al racconto “Il frullatore magico” e da lì capì che scrivere era la sua strada. Solo che adesso scrive principalmente di cinema, non più di elettrodomestici.

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