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«Macchine come me» di Ian McEwan: Creare (non) è roba da umani

parole di Matteo Sarlo
illustrazione di Michel Chabaneau

86.000 pound. 86.000 pound, tanto il trentaduenne Charlie Friend, per una «foolish infatuation with technology», ha pagato Adam. 86.000 pound, questo il prezzo per una Superintelligenza bayesiana perfetta (stando alla definizione di Nick Bostrom). 86.000 pound, solo 86.000, per la fine (o il rischio della fine) della razza umana.

Un altro numero, 1982. L’anno in cui Ridley Scott immagina il nostro 2019 come un mondo popolato da replicanti. Le cose non sono andate così qui da noi, ma avrebbero potuto. Se la Thatcher avesse perso la guerra delle Falkland, se Alan Touring non si fosse ucciso a seguito della castrazione chimica, se i Beatles si fossero riuniti dopo dieci anni di separazione e fossero primi in classifica con Love and lemons, se John Kennedy fosse sopravvissuto a Dallas e se Jimmy Carter avesse sconfitto Reagan alle elezioni del 1980.

“Se”, il monosillabo della narrazione. “Se”, le due lettere che identificano il principio-creazione. Basta pronunciarlo, “se”, due minuti segni grafici e tutto diventa istantaneamente possibile. Schaffen, così dicono i tedeschi: creare. Un verbo eminentemente teologico, al massimo umano. Di certo l’antitesi dell’automa(tico). Eppure così ragionano anche le macchine nel linguaggio della programmazione: Ifelse

77, di nuovo un altro numero. 77 chili circa, tanto pesa Adam quando arriva imballato a casa di Charlie, che non è proprio un tipo da palestra e funzionale e deve chiedere alla ventiduenne vicina Miranda (sì, come la figlia di Prospero nella Tempesta) di aiutarlo a portarlo dentro casa. 
Una volta scartato Adam resta in piedi, con i resti del packaging alle caviglie:

the debris of the packaging that had protected him was still piled around his feet. He emerged from it like Botticelli’s Venus rising from her shell.

L’unico suono che si sente in casa è il mormorio del frigo, definito in un indiretto libero nella testa di Charlie come «friendly». Già quasi un verso (amichevole) dunque, nella percezione di Charlie, che vede il replicante uscire fuori dalla scatola come la Venere di Botticelli dalla conchiglia. La triangolazione non potrebbe essere più chiara: uomo-macchina-arte. Come a dire, tutto è il prodotto di una precisa forma di elaborazione, di un assemblaggio meccanico di parti. La stessa lezione – alla meglio, in forma di domanda – che ha dovuto imparare a sue spese il povero battitore d’aste (colpa di Tornatore questa volta, non di McEwan) Virgil Oldman alias Geoffrey Rush in La migliore offerta. Basta che le parti siano riunite in un insieme, non importa che siano organiche o no, per formare «un senso molto potente del sé». Adam ne è convinto quando confessa a Charlie:

It’s the way I’made. I’m bound to conclude that I’ve a very powerful sense of self and I’m certain that it’s real and that neuroscience will describe it fully one day. Even when it does, I won’t know this self any better than I do now. But I do have moments of doubt when I wonder whether I’m subject to a form of Cartesian error

Ma ha dei momenti di dubbio Adam, al punto da chiedersi se sia soggetto a una forma di errore cartesiano. Un’affermazione di debolezza, di ferita, di imperfezione. Giusto per capirsi: affermando il dubbio sulla sua perfezione, ponendo il suo scetticismo sul suo senso molto potente del sé, Adam non sta facendo altro che rinsaldare il suo senso molto potente del sé.

Sarebbe stato d’accordo il Cartesio del Discours de la Methode. Ma per altro verso anche quello dell’Homme, impegnato a offrire una spiegazione meccanica generale delle principali funzioni fisiologiche che comandano gli automatisti corporei (circuito cardio-vascolare, digestione, movimento muscolare, supporti celebrali della memoria, dell’immaginazione, sonno, vegli, ecc.).

E se per Leibniz gli animali sono macchine della natura, per McEwan lo sono anche gli esseri umani, capaci in un 1982 alternativo di creare essi stessi macchine come loro
E non ragiona tanto diversamente da Leibnz Charlie quando, in un discorso interiore, confessa:

My friends, family and acquaintances all had appeared in my life with fixed settings, with unalterable histories of genes and environment. I wanted my expensive new friend to do the same. Why leave it to me? But of course I knew the answer. Not many of us are optimally adjusted.

In altri termini, il corpo fa da sé. Funzioniamo per fixed settings. Con buona pace per Aristotele, sganciando così l’anima dalla funzione sensitiva e vegetativa, non rimane che quella intellettiva: all’anima spetta soltanto di pensare, un’operazione a sua volta simulabile da un cervello artificiale come quello di Adam. Anzi, non solo imitabile ma potenziabile. Ed è in quel optimally adjusted che si affaccia per la prima volta in Charlie il principio di quella vergogna prometeica di fronte alla macchina, non deperibile ma al contrario sempre customizzabile e perfettibile.

Aggiornamento dell’anatra di Vaucanson, Adam sarebbe allora l’agente bayesiano perfetto. Agirebbe cioè partendo da una distribuzione di probabilità a priori a ciascun mondo possibile massimamente specifico. Ad ogni nuova informazione l’agente aggiornerebbe la distribuzione di probabilità, condizionandola secondo il teorema di Bayes. Condizionare significa – scrive Nick Bostrom in Superintelligenza – «porre uguali a zero le nuove probabilità dei mondi che sono incompatibili con le informazioni ricevute e rinormalizzare la distribuzione di probabilità sui restanti mondi possibili. Il risultato è una distribuzione di probabilità a posteriore […]. Via via che l’agente effettua osservazioni, la massa di probabilità si concentra quindi sull’insieme sempre più piccolo di mondi possibili che sono in accordo con le informazioni aggiunte; tra questi mondi possibili, i più semplici sono sempre i più probabili».

La domanda va da sé: se “bastasse” (ad oggi un agente bayesiano perfetto è computazionalmente inarrivabile) creare un sistema che sappia reagire in risposta agli accadimenti esterni, cosa resterebbe di quell’ineffabile, di quell’unicum, di quello scarto che distingue animale-replicante-uomo?
È quel che chiede anche Mona Foster al marito William (Keaneue Reeves), biomedico che da anni lavora alla Bionyne Corporation nel tentativo di trasferire la mente umana in androidi con forza sovraumana (Replicas, 2018). È il noto dibattito sul mind-body problem.

Dopo Nutshell, in cui a parlare era un feto (superintelligente), McEwan fa parlare un automa (superintelligente). Adam, il primo super-uomo. Sparecchia, stira, passeggia, si innamora (della stessa donna di cui è innamorato Charlie, che finisce per essere il primo cornuto 3.0, tradito da Miranda con qualcosa di più di una lavastoviglie). Almeno fino al quarto capitolo (circa metà) Adam funziona come boomerang di Charlie per McEwan e Macchine come me sembra avvicinarsi alle vette di Never let me go (Ishiguro), Solaris (Lem), L’invenzione di Morel (Casares). Cioè un certo modo di scrivere science-fiction che deborda immediatamente dal genere di appartenenza. E allora può perfino accadere che un uomo si innamori di un ologramma, o della forma fantasmatica del proprio rimosso. La sequenza in cui Charlie segue gli spostamenti di Miranda e Adam al piano di sopra, ricorda I passi di Means.
Poi dal quinto Macchine come me si trasforma in un legal-thriller, e tutto cambia.

Matteo Sarlo è nato a Roma nel 1989, dove vive e lavora come editor.
Nel 2018 ha pubblicato Pro und Contra. Anders e Kafka, una riflessione sulla filosofia di Günther Anders interprete di Franz Kafka.
Ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana.

Matteo:
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