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La Trilogia di Holt. Il caso Kent Haruf

illustrazione di Michel Chabaneau parole di Marco Quaglia

Per celebrare l’uscita di “Vincoli”, abbiamo ripreso in mano la Trilogia di Holt, la tripletta di libri perfetti che Kent Haruf ha scritto nell’ultimo decennio e poco più della sua vita. La Small Town Literature è un genere insidioso – a meno che non ti chiami Marylinn Robinson o Pierre Michon, e allora scrivi da Dio, e quindi puoi scrivere quello che vuoi. Il genere è più delicato di molti altri perché è enorme il rischio di cadere in personaggi che sono dei cliché viventi. Così come è enorme il rischio di annoiare anche il più ben disposto dei lettori. Questo, se si escludono poche persone in grado di farlo, ad esempio i due di cui sopra, o un terzo grande autore: Kent Haruf. E questa aggiunta è un recente vero e proprio “caso editoriale”. Era il 2015 quando NN Editore ha pubblicato l’intera Trilogia di Holt. Da allora, almeno per l’Italia, Haruf è diventato un nome sulla mappa dei grandi scrittori, al punto da poter essere messo al fianco di altri mostri sacri, notissimi o meno noti, senza il rischio di sfigurare. Morto nel 2014, Haruf deve il suo successo estremamente tardivo proprio alla Trilogia di Holt, in Italia così come all’estero. In misura maggiore lo deve al primo libro, scritto nel 1999: Canto della pianura. Fino ad allora, aveva 56 anni, la sua era stata più o meno la carriera di un qualsiasi aspirante scrittore: decine di rifiuti, giusto qualche pubblicazione su riviste di nicchia. E poi ecco che arriva il Canto della pianura: il suo capolavoro. Il libro, così come i due che lo hanno seguito (Crepuscolo e Benedizione), raccontano la vita di diversi personaggi che abitano la città immaginata di Holt, Colorado. Si tratta del più classico dei romanzi corali. Parliamo di vite normali, se per normali possiamo intendere tutte quelle vite verosimili che spesso la letteratura ci regala, vite tragiche, umili, dense. I personaggi che ne vengono fuori non per questo sono meno che memorabili:  ci sono due ragazzini, Ike e Bobby che consegnano i giornali e ammazzano il loro tempo esplorando il mondo che hanno sotto gli occhi, anche a costo di cacciarsi nei guai; c’è il padre, un insegnante dignitoso che ritrova il brivido dell’amore ma che dice a sé stesso di non meritarlo. Ci sono poi i due fratelli McPheron, anziani, isolati e vagamente burberi, – in assoluto i personaggi più riusciti di Haruf. Sono introdotti così:

I due vecchi fratelli McPheron erano dall’altra parte del recinto a sorvegliare il bestiame. Indossavano jeans, stivali, giacche da lavoro in tela e berretti con paraorecchie di flanella. Sulla punta del naso di Harold tremava una goccia, poi cadde, mentre gli occhi di Raymond erano velati e rossi per la polvere sollevata dalle vacche e per il freddo. (p.61)

L’equilibrio di questi lavoratori instancabili, non molto lontano da quello degli ultimi nonni spariti in questi anni, verrà letteralmente stravolto da un’adolescente incinta ripudiata dalla sua famiglia. Victoria Roubideaux, questo il suo nome, aggiungerà una dimensione paterna e sentimentale ad una vita quasi monastica. La giovane Roubidoux sarà catalizzatrice della cattiveria e della bontà di tutta la comunità. Buona parte dei personaggi del primo libro proseguono le loro linee narrative anche in Crepuscolo. Solo in Benedizione – l’ultimo in senso cronologico, ma che NN ha deciso di pubblicare come primo, – Haruf racconta una storia, con altre dinamiche e protagonisti. Qui è la figura del morente Dad Lewis che giganteggia, al pari delle grandi figure della letteratura statunitense. L’aspetto che salta più all’occhio della scrittura Haruf è che le frasi sono sempre perfettamente centrate. C’è un equilibrio prodigioso nel suo periodare, e ogni cosa sembra essere dove dovrebbe essere. Come gli alberi, come le montagne. Il tutto con una dose di lirismo che non strabocca mai, ma che piuttosto si diffonde soffuso come una nebbiolina. Questo si deve certamente alla dignità di Haruf, un uomo che ha coltivato “il piccolo talento” di cui disponeva, come racconta il The Guardian, con dedizione quasi religiosa fino all’ultimo giorno della sua vita; ma che in un senso più pratico, credo si debba ad un metodo di scrittura assolutamente unico nella storia della letteratura. Haruf era solito mettersi davanti alla sua vecchia Underwood calandosi un berretto sugli occhi. Scriveva letteralmente cieco. Questo aveva due conseguenze: il primo, che quanto veniva scritto erano periodi che seguivano il flusso dei pensieri; il secondo, che non c’era spazio per gli artifici. Haruf stesso rispose così ad una domanda in merito al suo metodo di scrittura:
It takes away the terror when you’re blind and you can’t go back and rewrite a sentence. It calls for storytelling, not polishing. (New York Times, 1999).
Punteggiatura, riscrittura, tutto avveniva in un secondo momento. Con la storia e i suoi personaggi ormai conclusi nella sua essenza. Quello che faceva allora la moglie, Cathy Haruf, era un lavoro di limatura, come quei piallatori di parquet raffigurati da Caillebotte. La Trilogia di Holt la si può leggere in diversi modi, l’ordine non è rilevante – per quanto NN abbia suggerito di cominciare con Benedizione, per poi proseguire con Canto della Pianura e Crepuscolo. Quello che non cambia in alcun modo, comunque si decida di affrontare la vita, la morte, l’amore e il dolore della working class di Holt, è la sensazione rara di avere di fronte una delle poche opere statunitensi scritte negli ultimi venti anni in grado di reggere alla sfida del tempo.

Marco Quaglia è laureato in Relazioni Internazionali. Nel 2017 ha pubblicato insieme a Shareable.net un libro collettivo sul fenomeno delle città condivise “Sharing Cities: Activating the Urban Commons“. Cura un blog di letteratura.

Matteo:
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