illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
C’è poi questa idea che la letteratura abbia a che fare con una sorta di via di fuga. Funzionerebbe più o meno come una partita di calcio. Ti siedi; il prato, le linee bianche, il pallone. Poi l’arbitro fischia e zac, sei dentro. Per 90 minuti più 15 di intervallo tu sei lì. Il lavoro, la casa, gli amici, niente. Con i libri, stessa cosa: leggi l’incipit e zac. Il lavoro, la casa, gli amici, niente. È l’idea che la letteratura sia una sorta di ascensore che ti porta altrove. Detta così il rischio è certo che diventi qualcosa di secondo piano. Una pausa tra il necessario (e forse lo è). Spesso riesce bene ai generi di settore: l’horror, il fantasy o i libri gialli. Diciamo Il Signore degli anelli. Ma in generale tutta la letteratura la si può trattare come un gigantesco diversivo. Un depistamento della realtà.
Poi c’è quest’altra idea che la letteratura registri una presa diretta della vita. Più o meno la traduzione del motto di Godard del cinema come realtà filmata a 24 fotogrammi al secondo. Da questa parte non mancano giganti della letteratura, special modo americana. Uno su tutti: Jonathan Franzen (Le correzioni, Libertà, Purity). C’è persino il caso Breat Easton Ellis (American Pshyco), che costruisce mondi dove non contano i volti dei personaggi ma le marche dei vestiti che indossano.
La letteratura è un interruttore
Poi c’è Murakami Haruki. Per Murakami la letteratura è un interruttore (la metafora è sua). Nei suoi libri puoi trovare gatti parlanti, una pioggia di cavallette, strani pozzi, mondi con 2 lune ma il modo che ha di buttargli giù non ha niente di “fantastico”. Anzi, spesso i personaggi protagonisti sono dei ragazzi che girano per la città simili al peregrinare di Holden Caufield. Per questo suo essere anfibio, scrittura realista più elementi onirici, si è parlato, per usare quelle schede che ogni tanto purtroppo servono, dei libri di Murakami come di un “realismo magico” e del suo capolavoro Norwegian Wood come di un Giovane Holden giapponese. Anche se in generale i suoi personaggi principali sono vicinissimi anche al Philip Marlowe di Chandler.
In una sorta di sintetizzante logica hegeliana dei primi due modelli citati, il caso Franzen per capirci e il caso Signore degli anelli, Murakami sta nel mezzo. La sua letteratura distoglie lo sguardo dalla realtà, racconta il suo altro, ecco gli elementi onirici (-A), per poi ritornare come un boomerang sulla realtà (A). In una formula: A= (+A) + (-A). Ovviamente questa è la formula di qualsiasi letteratura che sia letteratura, compreso naturalmente Franzen. Ma, per capirsi, occorre provvisoriamente fare delle distinzioni. E in Murakami questa cosa è chiarissima.
Come è diventato uno scrittore?
Nel suo ultimo saggio pubblicato pochi giorni fa in Italia Il mestiere dello scrittore, racconta di aver iniziato a scrivere stendendo il primo capitolo della sua storia in inglese. Il fatto di aver sempre parlato e pensato in giapponese, cioè in sostanza il problema di essere giapponese, rendeva impossibile liberarsi da quelle che potremmo chiamare delle incrostazioni del linguaggio, delle frasi fatte:
Essendo nato in Giappone e cresciuto parlando in giapponese, la mia personalità era satura delle parole e delle espressioni della mia lingua […]. Scrivendo invece nel mio inglese rudimentale, quel problema era superato
L’inglese lo conosceva ma non perfettamente. Il lessico era ridotto. Ma eccola l’intuizione: si può scrivere letteratura utilizzando soltanto parole semplicissime. La costrizione diventa libertà. Tutto ciò ha a che fare con una sorta di riciclo del linguaggio. Un po’ come accade ai grandi del Jazz che a Murakami piacciono tanto, tanto almeno da aprirsi e gestire un Jazz Bar (un piano interrato di un palazzo) nel 1974: i tasti del pianoforte sono quelli e sono pochi (88) ma le composizioni possibili non si contano. Poi ha tradotto quel primo capitolo in giapponese e oplà: Murakami Haruki ha trovato per la prima volta il suo stile. Asciutto, diretto, preciso ma non meno evocativo. Era il primo capitolo di Ascolta la canzone del vento, che verrà pubblicato per la prima volta nel 1979 e uscito di recente in Italia in un volume intitolato Vento & Flipper. Dentro c’è anche un’altra storia del 1980, Flipper, 1973. I due romanzi insieme al Segno della pecora (1982) costituiscono una sorta di trilogia ideale, La trilogia del ratto.
L’esordio
Non avevo conservato neppure una copia del manoscritto. Di conseguenza, se non fosse stato selezionato, sarebbe andato perso per sempre. E io non avrei mai più scritto un romanzo. La vita è davvero strana
L’isola da dodici milioni di copie
Quando due anni dopo esce Norwegian Wood. Tokyo blues, dopo che tutto il Giappone lo aveva conosciuto come lo scrittore capace di unire ad una prosa fresca e anglosassone un immaginario preso dai manga e dalla televisione (che si è iniziata a diffondere in Giappone nei primi anni 50, contribuendo non poco alla fantasia di Murakami e della sua generazione) Norwegian Wood spiazza: niente, nemmeno un elemento surreale. Una storia d’amore raccontata in prima persona in flashback a partire da un Boeing 747 da un 34enne, Toru Watanabe, che chiama se stesso come boku, la versione meno formale di watashi per dire “io”. Non avrà inserito elementi onirici ma la rottura con la tradizione continua. Anche i suoi punti di riferimento letterari non sono giapponesi. Il libro più citato è il Grande Gatsby di Fitzgerald. Ad un certo punto Toru si lancia in una vera e propria dichiarazione d’amore per la letteratura americana:
Gli scrittori che preferivo in quel periodo erano Truman Capote, John Updike, Francis Scott Fitzgerald e Raymond Chandler, ma né al corso né al collegio si trovava una sola persona che leggesse o amasse quel tipo di romanzi. […]«Se c’è uno che legge tre volte Il grande Gatsby, siamo fatti per diventare amici»
Ma di più. Norwegian Wood è un libro scritto da un giapponese, con influenze americane, e steso tra il 21 dicembre 1986 a Mykonos e il 21 marzo 1987 in un appartamento della periferia di Roma. Un libro americo-euro-giapponese.
E seppure mostra un debito incontrovertibile rispetto al capolavoro di Fitzgerald, da un punto di vita strutturale i due romanzi sono piuttosto diversi. Toru Watanabe è il protagonista e il narratore della sua stessa storia mentre in Fitzgerald narratore e protagonista sono due persone diverse: Nick Caraway ≠ Jay Gatsby. Il primo narratore cioè è in gergo tecnico autodiegetico mentre il secondo intradiegetico. E ha ragione Giorgio Amitrano, a lungo traduttore di Murakami in Italia, a sostenere che mentre il primo appartiene alla categoria dei Disillusionment Plots, subtopic “Plots of thoughts”, il secondo appartiene alla categoria dei Maturing Plots, subtopic “Plots of Characters”.
Norwegian Wood invece presta molto più il fianco al David Copperfield di Dickens, tra l’altro anche menzionato in una conversazione tra Toru e Steerfoth.
«Sai una cosa, Watanabe?» mi disse Nagasawa dopo che avemmo finito la cena. «Ho la sensazione che noi due, dopo essere usciti da questo posto, tra dieci o vent’anni, ci incontreremo. E ho anche la sensazione che quel giorno, in un modo o nell’altro, avremo a che fare l’uno con l’altro.»
«Parli come un personaggio di Dickens,» dissi ridendo.
Ma senza dubbio Toru è l’Holden Caufield di Salinger.
Reiko mi guardò per qualche istante, mentre le rughe agli angoli degli occhi si facevano più profonde. «Certo che tu hai proprio un modo curioso di parlare,» disse. «Non è che cerchi di imitare il ragazzo di quel libro, Il giovane Holden?»
«No! Che idea!» dissi ridendo.
La carriera di Murakami ha ormai preso il volo. Norwegian Wood lo consegna ad un pubblico mondiale. Il successivo sarà Dance Dance Dance, dove l’elemento magico è più che presente poi un’altra piccola isola di realismo con A sud del confine, a ovest del sole e poi ancora pieno mondo onirico con Kafka sulla spiaggia, After Dark, 1Q84. In generale la letteratura di Murakami è un pendolo che oscilla a sinistra verso la vita e a destra verso la finzione.
Il piccione, una palla da Baseball e il guantone di Allie
La mattina che Murakami riceve la telefonata dall’editore, quello della rivista Gunzo, verso le 11 va a fare una passeggiata. La notte aveva fatto tardi col Jazz Bar. Conclusa la conversazione è assonnato e felice. Passando davanti ad una scuola elementare, vede un piccolo piccione con un’ala ferita. Lo tiene fra le mani e ne percepisce il calore e il tremore. Saper ricordare questa cosa e, soprattutto, essere in grado di mantenerla nel tempo – più di trent’anni – è letteratura.
Ma c’è un altro episodio che Murakami racconta quando gli viene chiesto del come è divenuto scrittore e ha a che fare con una palla da Baseball. Aprile 1978. Murakami va allo stadio a vedere Yakult Swallows contro Hiroshima Carp. Lui era per gli Swallos (ora si chiamano Tokyo Yakult Swallows), una sorta di Leicester del baseball giapponese destinata, contro ogni pronostico, a vincere quell’anno la Central League. A un certo punto il battitore degli Yakult respinge il tiro del primo lanciatore degli Hiroshima. Al suono secco della mazza che colpisce la palla Murakami confessa di aver pensato: «Sì, anch’io posso scrivere un romanzo».
Dopo la partita – vinta dagli Yakult – andai in treno a Shinjuku, entrai in una cartoleria e comprai una risma di fogli e una penna stiolografica (spesi circa duemila yen)
C’è poi il guantone di Allie, il fratellino morto di Holden Caufield, sul quale scriveva le sue poesie preferite in inchiostro verde. Un guantone da prenditore (The Catcher). Le aveva scritte, così quando nessuno batteva poteva leggerle. Ma c’è anche lo svedese Levov, l’eroe innocente metafora della vera pastorale americana, che si allenava nel box di casa, colpendo una palla fissata col nastro adesivo a una corda che pendeva da una trave.
Questo accade, credo, sia per il senso che riveste il baseball nella cultura americana ma anche per una contro-intuitiva riverenza della letteratura verso la precisione. Spesso si pensa che sia l’ancella della vaghezza ma non è così, non solo almeno. È quello che porta Flastaff a descrivere i suoi tre assalitori come vestiti di “verde Kendall” o Emma Bovary accarezzare gli scarpini di seta messi al ballo alla Vaubyessard, che avevano le suole ingiallite dalla cera sdrucciolevole di quel pavimento.
Naturalmente il rischio è il manierismo. Troppa specificità e rischi di scrivere un elenco telefonico. L’impossibile semplice segreto: l’equilibrio. In Dolore e grandezza di Richard Wagner, Thomas Mann scrive che la letteratura è una questione di non del tutto. Si tratta allora di un po’ di più e un po’ di meno.
Murakami Haruki non è Thomas Mann, ma è un equilibrista dei due mondi. Un Philippe Petit che a 400 metri d’altezza mette un piede dopo l’altro sulla cordicella tesa tra la fiction e la real Tower.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia.