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    Categories: L'EVENTO

AUTORI DEL CONTEMPORANEO: KUBRICK/LYNCH (2001 e Twin Peaks)

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis

 

Proprio ora che sta uscendo la terza stagione di Twin Peaks, ed è visibile il già celeberrimo episodio 8, risulta finalmente chiaro a tutti il rapporto esistente tra il cinema di Kubrick e il cinema di Lynch.
I due terzi abbondanti dell’episodio 8, a partire dalla sequenza dell’esplosione atomica, sono infatti una riscrittura di 2001:odissea nello spazio, in particolare il cosiddetto viaggio psichedelico “oltre l’infinito”, che conduce l’astronauta David Bowman nella “stanza finale”.
Nei due fotogrammi seguenti, nell’ordine, il trip di Kubrick e quello di Lynch.

Senza addentrarci in dettagli che sarebbero per ora troppo provvisori (siamo ancora a metà dei 18 episodi che compongono Twin Peaks 3), è comunque evidente l’impianto artistico sotteso all’opera dei due cineasti.
Stanley Kubrick indaga il territorio dell’infinitamente grande. Il viaggio, l’odissea spaziale dell’astronauta Bowman, si snoda dalla Terra, verso Giove,e così oltre l’infinito. Il corridoio spazio-temporale che conduce Bowman in un altro punto dell’universo, è il salto dell’umanità in direzione di un nuovo inizio.
Come è noto, Bowman, giunto nella misteriosa stanza settecentesca stile regency, muore e rinasce “feto astrale”, “bambino delle stelle”, ossia qualcosa che sta tra il terrestre che era, e l’oltre-terrestre che diventerà (le note ascendenti dello Zarathustra di Strauss, sulle quali avviene la rinascita, incoraggiano a parlare di “oltre-uomo”).
David Lynch mette in opera una traiettoria uguale e contraria.
Invece della scritta sovrimpressa “Giove e oltre l’infinito”, come in Kubrick, Lynch, sempre attraverso la grafica, dichiara che siamo nel deserto del Nevada, nel giugno del 1945. Si tratta dell’esplosione atomica sperimentale che precede la missione a Hiroshima. Si sente nella colonna audio il count-down dell’evento. La macchina da presa, a volo d’uccello, parte da molto lontano e, lentamente, si avvicina al fungo atomico in ebollizione (vedi fotogrammi seguenti).

Proseguendo il volo, la macchina da presa entra direttamente nel magma del fungo atomico. Qui le immagini, in breve, diventano a colori, come nel fotogramma proposto all’inizio di questo articolo, e si infila un attraversamento allucinato all’interno dell’atomo in disgregazione.
Se Kubrick, in 2001, effettua un viaggio attraverso l’infinitamente grande, allora Lynch, in Twin Peaks, con traiettoria uguale e contraria, si addentra nelle spire dell’infinitamente piccolo.
Kubrick, negli spazi siderali; Lynch, all’interno della materia.
Sono in fondo i due “universi” della fisica contemporanea: quello einsteniano per Kubrick, e quello quantistico per Lynch.
Michel Chion, studioso sia di Lynch che di Kubrick, così descrive il singolare mondo lynchano di Twin Peaks: “L’insieme di Twin Peaks, con un effetto di sovrapposizione di strati e intenzioni, acquisisce la forza straordinaria del poema epico o religioso” (M.Chion, David Lynch, Lindau, 1992).
È  la stessa immagine proposta da Kubrick all’uscita di 2001. Alla domanda di Eric Nordern (intervista su “Playboy”, settembre 1968), “Lei concorda con i critici che lo definiscono un film profondamente religioso?”, Kubrick così risponde: “Direi che il concetto di Dio è l’essenza di 2001. Ma non si tratta di un’immagine di Dio tradizionale, antropomorfica”.
Chion così descrive il carattere di “libro religioso” di Twin Peaks: “Il territorio di Twin Peaks è innanzitutto un nido, una pozza nutritiva, dove ci sono acqua, fuoco, energia, spazio, boschi e cose da mangiare. E’ l’immagine magnifica di un paio di seni nutrienti e inesauribili (i due picchi della sigla), da cui sgorgano a bizzeffe, personaggi, musica e azione. Ma al tempo stesso è l’arcaico, le forze indomite, rappresentate da inquadrature di congiunzione tra le scene, in cui ci si mostra un semaforo rosso automatico, la notte, con le strade vuote e nere”.
Noi diremmo che l’elemento comune ai due film (assumiamo i due film come testi paradigmatici dei rispettivi autori), è innanzitutto l’ambizione di filmare il vuoto. Lo spazio cosmico, in Kubrick; le particelle della materia, in Lynch.
Il “vuoto”, certamente, non è vuoto, ma rimanda in entrambi i casi alla dimensione di vagheggiamento di ciò che si dice lo spirituale. Un’immagine non antropomorfica di Dio in Kubrick (allegorizzata nel celebre Monolite Nero);  l’immersione nella materia così piccola da diventare astrazione (allegorizzata nella Stanza Rossa). Vedi fotogrammi a seguire:

In entrambi i casi, i due campi iconografici, Monolite e Stanza Rossa, assumono la medesima funzione figurativa, e anche narrativa.
Sia il Monolite, che la Stanza Rossa, sono figure di passaggi, transiti, traiettorie entrata/uscita: in breve, sono figure di ciò che si può dire una porta.
Il Monolite, porta della scala evolutiva: scimmia/uomo, uomo/computer Hal 9000, specie umana/feto astrale
La Stanza Rossa, porta di un campo di forze a n dimensioni, in cui andare avanti indietro nello spazio e nel tempo.
In entrambi i casi, porte che danno direttamente sull’opposizione Bene/Male: l’essere umano ma anche la scimmia assassina e poi il computer killer, in Kubrick, e tutti i doppi, sia buoni che malvagi, da Laura Palmer all’agente Cooper, dal Gigante al Nano, in Lynch.
Entrambi i film, così, per riprendere Chion, sono Libri religiosi, che si interrogano sulle origini, ciascuno a suo modo, della vita, e della divaricazione Bene/Male, all’origine di tale origine.
La dimensione religioso/spirituale, nella storia del cinema, era stata appannaggio o della infinta serie di “Passioni di Gesù – Sacre Rappresentazioni”, o il “sangue, sesso e Bibbia” demilliano, oppure il “mistico d’autore” di artisti quali Robert Bresson  o Carl T.Dreyer.
In tutti questi casi, il “religioso” veniva immediatamente calato nella realizzazione del “rituale”: la crocefissione e morte del Salvatore (la Passione), il passaggio del Mar Rosso e i dieci comandamenti (De Mille), gli atti di fede e i piccoli miracoli della gente comune (Bresson e Dreyer).
Kubrick e Lynch, invece, escludono la coincidenza assodata di mito e rito: ciascuno a suo modo, affrontano direttamente la dimensione del mito. E, cosa più importante, concepiscono una dimensione rituale originale,il più possibile aderente al mito prescelto.
In 2001, il mito è la storia della specie umana, dal principio alla fine. Il rito che l’accompagna è quello della tecnica. La specie umana ha infatti inizio con l’inizio della tecnica, ossia la scimmia che afferra l’osso, e lo trasforma in utensile (un’arma da offesa). La tecnica, lungo il film, evolve in tecnologia, e sarà la volta del computer Hal 9000 a farsi arma direttamente. Hal, come è noto, si rivolta ferocemente contro gli esseri umani presenti nell’astronave.
Il computer, così, si comporta esattamente come la scimmia: in una parola, uccide. Qui, si introduce la contraddizione: il rito predisposto al dispiegamento del mito produce l’evoluzione, ma stabilisce anche il corto-circuito.
Ovvero, il rito (la “tecnica”) chiamato a presiedere l’evoluzione del mito (la “specie umana”), si rivela infine inadeguato.
C’è una falla nel circuito evolutivo. Per disporre di un’altra eventualità, sarà necessario oltre-passare gli spazi siderali (Monolite), e approdare là dove il circuito può ri-posizionarsi. Nella stanza dall’atmosfera vagamente settecentesca, l’uomo muore e rinasce (vedi fotogrammi a seguire).

La stanza deve necessariamente rimandare al Settecento, perché quello è il secolo del passaggio chiave, dalla tecnica alla tecnologia. Il rito deve ripercorrere il circuito del proprio dispiegamento, e approntare il salto nella nuova posizione del mito, ossia il feto astrale. Nell’ultimo fotogramma, il feto sta in contro-campo speculare a 180 gradi, ossia è visto come “prodotto” dal monolite ai piedi del letto.
Questa, in sommi capi, l’ipotesi di “Libro religioso” di S.Kubrick.
Se Kubrick, pertanto, si pone al di qua del rapporto circuitale mito/rito, come qualcuno chiamato a ripercorrere e verificare tutte le possibilità del circuito stesso, ebbene David Lynch si pone invece al di là.
In Lynch, il rito non evidenzia inadeguatezze da ri-posizionare. Questo perché il rito è ormai definitivamente sfuggito di mano rispetto alle possibilità originarie del mito.
La stanza vagamente settecentesca, e il monolite/varco, in cui sperimentare una nuova di-spiegazione del mito, in Lynch si mutano in uno spazio allucinato, la Stanza Rossa, in cui un tendaggio, vermiglio altrettanto, e un pavimento, non più a scacchiera (la “tecnica”) come in Kubrick, ma dai riflessi e segni ondulatori, dimensionano uno spazio-tempo in cui tutti i punti, luoghi e momenti, interfacciano vorticosamente tra di loro.


Come risulta evidente nei due fotogrammi appena riprodotti, Laura Palmer che nella dimensione della “realtà” è morta, in quella della “iper-realtà” della Stanza Rossa, invecchia.
Il circuito è totalmente fuori controllo, il rito è ormai tutto al di là di qualsiasi relazione col mito.
Mentre l’astronauta Bowman, approdando nella camera settecentesca, gradualmente invecchia e poi muore, poiché il rito deve comunque spegnersi, esaurirsi, in una parola, religiosamente, compiersi, Laura Palmer può solo accumulare,  ripetere, riprodurre ossessivamente, il rito del ciclo vitale ormai fuori dal mito che lo contiene, ovvero fuori dall’unico mito possibile per capire qualcosa delle cose, ovvero il mito dell’origine.
Laura Palmer, invecchiata di 25 anni, dice: “I am dead…yet live”. Che si può tradurre, “io sono morta…ancora vivo”. Ma anche, si pensi, in chiave fungo atomico, che “live” può voler dire “inesploso”…oppure, in chiave “ondulatoria”, significa, come è noto, “in diretta”. Nel momento in cui l’atomo, ovvero la materia, è stato dissolto dalla tecnologia umana ormai fuori controllo, il mito dell’origine si è sganciato dall’origine del rito.
In Kubrick, la tecnologia umana fuori controllo (Hal) è certamente ancora il presupposto necessario per l’accesso in una camera/officina dove, al di qua di utili e perdite, il mito dell’origine può ri-posizionarsi.
In Lynch,invece, il rito, ormai sciolto dal mito (quindi ab-solutus, assoluto), può solo interfacciare con se stesso in chiave ossessiva: Laura è morta, ma è ancora viva…oppure è l’unica cosa ancora “inesplosa” in una iper-realtà dagli atomi scissi (in tal caso, sarebbe una sorta di “monolite”…), oppure è l’eco “in diretta” di una singolarità dimensionale che cerca affannosamente, e con angoscia, una co-presenza qualsiasi, dello spazio e del tempo.
Ci fermiamo.
Ciò che conta, per ora, è aver individuato come il cinema di Kubrick e Lynch affronti il medesimo tema, il rapporto tra le dimensioni del mito e del rito.
Kubrick si mantiene al di qua del circuito mito/rito, in chiave di verifica e controllo, in una realtà einsteniana dell’infinitamente grande, dove il circuito può compiersi e eventualmente ri-posizionarsi.
Lynch, si colloca al di là del circuito mito/rito, in chiave di segnaletica e sondaggio, in una iper-realtà quantica, dove le particelle di materia ondeggiano fra varie “probabilità di esistenze”, in cui ogni origine posta non fa in tempo a stabilire un mondo, che già deve ri-dimensionarsi lungo una serie n di mondi interfacciati e s-connessi.
Entrambi, Kubrick e Lynch, infine, fanno un cinema come porta sul vuoto.
L’unica occasione di “Libro religioso” possibile, oggi?


Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.

Matteo:
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