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Kazuo Ishiguro Nobel per la Letteratura 2017 o come si diventa quel che si è

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
La storia di un ragazzo di Nagasaki cresciuto con il mito di Bob Dylan e Leonard Cohen. Voleva fare il musicista ed è finito a fare lo scrittore.Tenta di convincere qualche etichetta musicale ma non ne esce fuori nulla. Allora si iscrive ad un corso di creative writing finendo per vendere, qualche anno dopo, più di un milione di copie con The Remains of the Day. Never let me go compare tra i migliori 100 romanzi di lingua inglese dal 1923 per il Time. Tutto è stato così facile in Inghilterra. Un trasferimento che ha accettato da bambino, a cinque anni, seguendo il padre e senza conoscerne il motivo.

Questa foto deve essere stata scattata molte decadi prima che vincesse il maggior premio che uno scrittore possa desiderare. L’accademia svedese gli ha riconosciuto la capacità di svelare «l’abisso che si spalanca sotto l’illusorietà del nostro legame col mondo». Ma questo ragazzo non poteva ancora immaginare un riconoscimento simile. Con lo sguardo fissato in un punto che sembra costantemente essere oltre – oltre l’occhio della camera, oltre il fotografo, oltre chiunque si trovi ad essere il suo spettatore – tiene fermo il viso con una posa degna di una possibile cromatura ingiallita della foto. Gli enormi occhiali addolciscono un viso che sembra quello di un dandy. I capelli si vedono poco ma scommetteresti che arrivino almeno sotto le orecchie. È il viso a cui immagineresti non sia stati mai rifiutato nulla. Un viso da college. Le unghie lunghe sporcano la perfezione della figura, se non fosse che non sono figlie di una dimenticanza, di un errore di calcolo, ma stanno lì per suonare la chitarra. Perché dopo il college questo ragazzo voleva diventare un musicista, riuscendo ad ottenere un paio di appuntamenti con la divisione A&R di un’etichetta. Ancora oggi possiede nel suo studio diverse chitarre elettriche. Ma sono stati chiari: questo non accadrà mai.
Con quegli enormi occhiali deve essersi sforzato di individuare gli stessi indizi che da ragazzino rintracciava nei casi di Sherlock Holmes. Almeno fino ai tredici anni, quando compra il suo primo album di Bob Dylan John Wesley Harding e allora quasi smette di leggere fino ai vent’anni. È il suo primo contatto con qualcosa di simile allo stream-of-consciousness, o a quel che ha definito una sorta di surrealismo musicale. Poi viene Leonard Cohen, con la sua cura per le parole, con la sua letteratura in note. Una commistione di arti che si sedimenterà in quel tredicenne fino a quando non scriverà uno dei suoi due romanzi di maggior successo all’età di cinquantuno anni e non gli darà il titolo di una canzone: Never let me go. Un romanzo che il Time inserirà nella lista dei migliori 100 romanzi in lingua inglese dal 1923 al 2005.
Ma la musica resterà solo una passione per questo giovane chitarrista, nonché pianista dall’età di cinque anni. Poi per caso scopre un corso, della durata di un intero anno, di scrittura creativa tenuto da Malcolm Bradbury all’università di East Anglia, Norwich. Aveva sentito dire che anche Ian McEwan l’aveva frequentato una decina di anni prima. Per la prima volta avrebbe passato giorni a pensare a cose come il punto di vista, la coerenza del plot, la scelta dei personaggi. Durante quell’anno tornerà con la mente al Giappone abbandonato così tanto tempo fa. Scriverà per la prima volta di Nagasaki e di una ragazzina. Erano già i semi che lo porteranno poi a Un pallido orizzonte di colline (1982). E quando Faber risponde positivamente a un paio di sue proposte, Kazuo Ishiguro ha chiaro che qualcosa si sta mettendo in moto. Ha chiaro che sta per diventare uno scrittore.

In questa seconda foto ha sostituito gli occhiali, passando da un’enorme montatura ad una pressoché inesistente. Ad incorniciargli ora il viso non sono più le dita aperte a forbice ma il bavero rialzato del cappotto. A restare è lo sguardo gentile, uno sguardo pieno di sicurezza e compassione. A giudicare dalle fila di capelli bianchi sui lati, deve aver superato i trentacinque anni e pubblicato il suo romanzo di maggior successo, che gli è valso il Booker Preiz e più di un milione di copie vendute in sola lingue inglese: Quel che resta del giorno. Tutto è stato così facile. Gli è bastato incontrare Angela Carter per trovare, insieme a Malcolm Bradbury, un suo mentore. È stata Angela a presentargli quella che divenne la sua agente, Deborah Rogers, la quale manda senza nemmeno dirglielo alcuni suoi scritti a Granta. Inutile dirlo, un giorno suona il telefono di casa e dall’altro capo del filo c’è Bill Buford, di Granta.
Poi è arrivato Un artista del mondo fluttuante (1986). Tre anni dopo vince il Booker Prize per The Remains of the Day. No, scrivere non è mai stato così facile.
La bocca stretta si curva in un sorriso che non esibisce pienamente ma che svela una certa precisione nella gestione delle proprie emozioni. Una persona che si siede tutti i giorni a scrivere alle 10 di mattina fino alle 6 di pomeriggio davanti alle sue due scrivanie. Una con un il piano inclinato e un’altra con un computer del 1996. Inizialmente a quest’uomo piace scrivere a mano, per sfruttare un certo grado di illeggibilità e segretezza.

Ora, a più di sessant’anni, non ha più bisogno di alcuna protezione per il volto. Può indossare una giacca e lasciare completamente scoperti collo e viso. I capelli ci sono ancora e tutto è stato confermato: oggi è uno dei più riconosciuti scrittori al mondo. Ha conservato l’esilità degli occhiali e alla gentilezza dello sguardo si mischia una dose di serena stanchezza. Non cambia l’atmosfera di ordine, derivata probabilmente dalla forte tradizione giapponese della madre. Tutto sembra trasparente in questo viso e le rare rughe sulla fronte sono probabilmente dovute più all’occasionale espressione che ad una costante.
L’Inghilterra ha adottato completamente quest’uomo, che da bambino aveva seguito il padre in un viaggio di quasi diecimila chilometri, senza conoscerne il motivo. Sarebbe dovuto essere un viaggio breve. Il padre era un oceonagrafo e il capo della British National Istitute of Oceanography lo invita per un progetto (racconta l’episodio lui stesso nella approfondita intervista  di Susannah Hunnewell per il Paris Review, leggi qui). Era il tempo della guerra fredda e il motivo del trasferimento era rimasto un segreto in famiglia. Cosa andasse a fare in questo edificio costruito nel mezzo di un bosco, rimaneva un mistero. Di cosa si trattasse, quale fosse il reale motivo per il trasferimento del padre, quale fosse il preciso motivo per lasciare il giappone, non lo seppe mai con certezza. Proprio come accadde a Kathy H, Tommy e Ruth, i protagonisti dell’altro suo romanzo più noto, Non lasciarmi (2005), che non sapevano cosa si nascondesse dietro la quieta serenità di Hailsham: essere niente altro che cloni utili alla donazione di organi. Non lasciarmi, quello che Ishiguro considera, a dispetto della maggioranza dei critici che lo vede come un romanzo dark, il suo romanzo più cheerful. La storia di tre ragazzi – due ragazze e un ragazzo – e della loro amicizia. La storia di tre ragazzi perbene che quando scoprono di avere il tempo contato «si preoccupano di loro stessi e di mettere le cose a posto». Da entrambi i romanzi di maggior successo– Quel che resta del giorno e Non lasciarmi – sono stati tratti dei film. Cosa che credo abbia fatto molto piacere al ragazzo che adorava guardare i cowboy in televisione e le serie TV. Ha imparato l’inglese in questo modo. Quella che preferiva era Laramie, con Robert Fuller.
Ha dichiarato che non si sarebbe mai aspettato di vincere il nobel, che spera di festeggiare presto anche Murakami e Rushdie. Non è diventato un musicista, ha vinto il nobel Kazuo Ishiguro ma la sua bibliografia è quasi della lunghezza di un Ep. E se Quel che resta del giorno è la ballad, perfetta e classica, Non lasciarmi è l’uptempo sofisticata. Una cosa vicino a Shout to the Top degli Style Council insieme alla malinconia elettronica di Home di Brian Eno.
Si è stupito Kazuo Ishiguro di aver vinto il premio. E in parte ha ragione, come fai ad aspettarti di vincere il nobel. Ma dai, non c’è molto da stupirsene perché la sua, per dirla con Hanya Yanagihara, la sua non è una vita come tante.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).

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