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I sensi lacerati. Una nuova lettura di Rilke
06/05/2019|L'EVENTO

I sensi lacerati. Una nuova lettura di Rilke

Orfeo, Euridice, Rilke, Simona Bramucci

illustrazione di Simona Bramucci
parole di Silvia Vizzardelli

Quando la psicoanalisi incontra la letteratura, e in particolare la poesia, genera risentimento negli animi. Risentimento, una bella parola, perché contiene in sé significati molto diversi: si risentono gli effetti benevoli o malevoli di qualcosa, ma anche ci si risente per qualcosa che turba. Insomma, il risentimento è prima di tutto uno scossa degli affetti, una scossa che tende a ripetersi, a ri-sentirsi appunto.

Avvicinare la poesia con una sensibilità psicoanalitica è un’operazione abbarbicata ed esaltante, piena di insidie e rigenerativa. Talora si sente l’agguato di una violazione del testo, osservato in tralice per vedervi i segni di una teoria nata altrove. Mária Török, psicoanalista ingiustamente dimenticata, autrice tra il 1968 e il 1975, insieme a Nicholas Abraham, di contributi straordinari, notava che le analisi freudiane sono animate da un atteggiamento oscillante tra scoperta e conquista. Posto di fronte al sogno, ai lapsus, al motto di spirito, Freud sarebbe in ascolto, pronto cioè ad accogliere ciò che emerge da quei campi sconosciuti, dinanzi alla letteratura prevarrebbe, invece, un atteggiamento di conquista, ovvero il tentativo di trovarvi l’applicazione delle teorie maturate autonomamente. È ciò che accade con L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann. Nel saggio su Il perturbante, Freud cerca di trovarvi l’esempio del ritorno di formazioni mentali arcaiche o infantili, in particolare la minaccia dell’evirazione, mentre la paura dell’evirazione non sarebbe, ad avviso di Torok, in linea col racconto, centrato sì sul tema degli occhi minacciati, ma per esprimere tutt’altra cosa, vale a dire una privazione della facoltà di discernere, di vedere, di capire, di scoprire la cripta in cui si nasconde il segreto paterno. Per comprendere L’uomo della sabbia occorrerebbe restare fedeli al segreto e alla lettera di quegli occhi offesi.

Il suggerimento di Maria Torok a rispettare l’identità letterale del testo è stato tacitamente raccolto da Mario Ajazzi Mancini, psicoanalista e scrittore, nella sua recente traduzione commentata dell’Orfeo. Euridice. Hermes di Rainer Maria Rilke (Press &Archeos, Firenze 2018). Non è casuale che Ajazzi Mancini abbia introdotto e tradotto un altro capolavoro di Abraham e Torok, Il verbario dell’uomo dei lupi.

Intanto alcune considerazioni sull’atmosfera che ci viene restituita da questa bella traduzione dell’Orfeo. Euridice. Hermes, “poesia in prosa” scritta da Rilke nel 1904, all’età di 29 anni, tra Roma e la Svezia e definita da Brodskij “la più grande opera del Novecento”. La prima cosa che si nota è la scelta convincente di mantenere la durezza, la scabrosità della parola, rinunciando a qualsiasi tono aulico (presente invece ad esempio nella, pur bellissima, traduzione di Pintor). Si tratta appunto di un poemetto in prosa, in cui il carattere affettivamente incendiato viene temperato dall’urgenza di far emergere contenuti di pensiero. A quei contenuti, cresciuti insieme alla parola poetica, bisogna prestare ascolto, più che alla teoria psicoanalitica, anche se, infine, sarà quest’ultima a trarne nutrimento.

Il poemetto di Rilke è animato da un ritmo di slancio e di ritrazione, di creazione e decreazione, vita e morte, potremmo dire, con la diade che tutte le riassume. E si tratta di un movimento a elastico tra due polarità: la polarità avanzante della vista, dello spettacolo, dell’inseguimento significante, e la polarità del risucchio resa possibile da un vuoto plastico, da un vuoto formativo, da un vuoto generativo costituito dalla presenza assente di Euridice. Die Sinne waren wie entzweit, i sensi erano come lacerati, divisi, dissociati. La vista corre avanti, l’udito resta indietro.

Rainer Maria Rilke, Orfeo.Euridice. Hermes, a cura e traduzione di Mario Ajazzi Mancini, Press & Archeos Edizioni.

E i suoi sensi erano come lacerati:
lo sguardo correva innanzi come un cane,
si volgeva e gli era accosto, poi di nuovo
lontano, per fermarsi in attesa alla prima svolta –
come un odore l’udito gli restava alle spalle.

Che le forme si disegnino a partire da un vuoto plastico, funzionante come una sorta di magnete vuoto, ce lo suggerisce Rilke fin dalla descrizione del regno dei morti da cui prende origine il poemetto. È un paesaggio di vertigine, di ilinx, è un paesaggio pulsionale.

Era l’arcana miniera delle anime.
simili a silenziose vene d’argento
ne penetravano la tenebra. Tra radici
scaturiva il sangue che sale verso gli uomini
e greve come porfido appariva nella tenebra.
Nient’altro era rosso.

C’erano rocce
e boschi inanimati. Ponti sopra il vuoto
e quello sconfinato e grigio stagno
cieco che pendeva sul suo fondo lontano
come cielo di pioggia su un paesaggio.
Tra i prati, placida e colma di indulgenza,
biancheggiava pallida la striscia di un unico
sentiero, stesa nella sua lunga incertezza.

Sentiamo in questo esordio il costituirsi del vuoto, la vertigine del fondo lontano, il senso di mancamento prodotto dallo sconfinato, ponti sugli abissi, il prodursi di un’assenza in relazione allo sguardo, stagni ciechi. Mentre lo sguardo di Orfeo avanza come un cane anelante, lascia dietro di sé un vuoto, un’assenza.

Ma ad esso si affianca presto un secondo motivo: la genesi del fantasma come consistenza del vuoto. Siamo abituati ad associare al concetto di fantasma i caratteri dell’inconsistenza e, soprattutto, della creazione immaginifica. Qui dobbiamo fare lo sforzo di vedervi piuttosto una consistenza lontana, un imbozzolamento che disegna forme autonome, separate, staccate da chi le guarda. È questo il significato del termine francese fantôme, contrapposto a fantasme che a sua volta traduce il freudiano Phantasie. Euridice non è un fantasme, non è il prodotto immaginario di Orfeo, è un fantôme, una identità plastica che dà forma a un vuoto. Il procedere di Orfeo, un avanzante – potremmo quasi dire una Gradiva – genera il vuoto alle spalle, e tale vuoto si scrive come differenza assoluta e sarà capace di generare forme, spettri, più reali di qualsiasi sogno. “Non c’è altra entrata per il soggetto nel reale che non sia il fantasma”, scriverà Lacan. Notiamo che il momento in cui Orfeo si gira a guardare Euridice, il momento cioè che ha reso famoso il mito di Orfeo, nella poesia di Rilke ha un ruolo marginale, viene trattato velocemente a partire dal punto di vista di Euridice. Anzi è il Dio Hermes che avverte Euridice: “si è voltato” e lei risponde: “chi”?

Come si presenta, dunque, il fantôme Euridice: un corpo chiuso in sé, perfettamente autonomo, separato, staccato dal suo amante, avvolto nell’indipendenza assoluta della morte. Se dovessimo visualizzare questa strana consistenza, potremmo pensare a una goccia d’acqua che comincia a formarsi alimentata dal desiderio di Orfeo, ma che ad un certo punto si stacca da quel desiderio e cade in un mondo discontinuo.

Era in sé. E il suo essere morta
la ingravidava come pienezza.
Simile a un dolce frutto di tenebra,
era così piena della sua grande morte,
tanto nuova che niente comprendeva.

Euridice, come l’analista, sarei tentata di dire, c’è e non c’è, e questa consistenza assente (il desiderio di morte dell’analista) favorisce un prender corpo (con un altro neologismo lacaniano, corpsistenza) del fantasma. È come se il corpo stesso di Orfeo per una sorta di teleplastia si chiudesse intorno a questo vuoto plastico, prendesse forma intorno ad esso, e si vedesse laggiù al fondo di una decantazione vertiginosa.

Si tratta, scrive Mario Ajazzi Mancini, “di una spazio interiore da gettare (aufwerfen) attorno alle cose del mondo, per fermarle, contenerle e delimitarle attraverso un gesto di rinuncia (Verzichten), di trattenimento dal possesso, che dà forma e riempie di sé, affinché quelle siano davvero”, come l’albero di un’altra poesia rilkiana:

Da ogni lato contienilo.
Da sé non si delimita. Solo se gli dà forma
la tua rinunzia si fa vero albero.


Silvia Vizzardelli è docente di Estetica e Filosofia della musica presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria. Tra le sue ultime pubblicazioni La tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico (Orthotes) e Filosofia della musica (Laterza)

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