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I 100 ANNI DEI SEI «PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE». (MAGGIO 1921-MAGGIO 2021): PIRANDELLO DALL’ATTORE AL PERFORMER

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis

1945. Il Neorealismo cinematografico prese a modello Verga, cancellando Pirandello: “Giovanni Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società: a noi che crediamo nell’arte specialmente in quanto creatrice di verità, la Sicilia omerica e leggendaria dei MalavogliaMastro don Gesualdo (ecc.) ci sembra nello stesso tempo offrire l’ambiente più solido e umano, più miracolosamente vergine e vero, che possa ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti di un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese” (M.Alicata, G.De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, in “Cinema”, 127, 1941).

In breve, la generazione del Neorealismo identifica Pirandello col mortificato gusto borghese decadente e quindi, per attrazione fatale, con il fascismo. 

Per Gramsci, è lo stesso. La poetica pirandelliana sa di vecchio: “la pirandelliana concezione dialettica della oggettività si presenta al pubblico come accettabile, in quanto essa è impersonata a caratteri di eccezione, quindi sotto veste romantica” (Quaderni dal carcere1930-32 – Miscellanea). Ossia, la poetica pirandelliana, per Gramsci, sarebbe più culturale che artistica: lo scopo “intellettuale” è quello di porre la dialettica della “filosofia moderna”, il soggettivismo, in opposizione al modo “aristotelico-cattolico di concepire l’oggettività del reale” (ibidem). 

Ancora. Silvio d’Amico scrive così: “Pirandello rinnega addirittura il pensoquindi sono di Cartesio: per lui neanche pensare significa essere. Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l’essenza della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuol essere l’originalità del Pirandello drammaturgo; appunto da questa impossibilità della tragedia egli trae la più disperata delle tragedie”. Nonostante l’attestazione di “originalità”, l’essenza della grande poesia tragica, quella tramandata dalla tradizione, è irrimediabilmente perduta. Tanto che ancora Gramsci arriva persino a concludere: “Il teatro pirandelliano è strettamente legato alla personalità fisica dello scrittore, e non solo ai valori artistico-letterari scritti (…) Il suo teatro vive esteticamente in maggior parte solo se rappresentato teatralmente avendo il Pirandello come capocomico e regista”. I testi teatrali di Pirandello, per Gramsci, sarebbero valutabili alla stregua di ‘pretesti’, scenari “alla stregua del teatro pregoldoniano”. Ossia canovacci della commedia dell’arte, che hanno bisogno dell’autore/capocomico in persona per ottenere scrittura compiutamente scenica e teatrale.

Corrado Simioni, occupandosi dell’incompiuto I giganti della montagna, che resta una sorta di remake testamentario dei Sei personaggi, scrive come nell’ultima fase della produzione teatrale pirandelliana si sciolga “la contrapposizione tra arte e vita. L’arte, come momento privilegiato, è destinata a sparire; ma forse potrà essere sostituita dalla creatività generale, cioè da un mondo che viva secondo ritmi e leggi di armonia e bellezza. Questa grande utopia è presente nelle parole con cui Stefano Pirandello, secondo le parole del padre morente, ricostruisce il finale de I giganti della montagna: ‘Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto come fantocci ribelli, i servi fanatici dell’arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita…’ “.

I conti paiono tornare. Pirandello non è uno scrittore drammatico, i suoi testi non possiedono valore artistico-letterario, sono piuttosto partiture tese alla scrittura per la scena. In questa chiave, non ha senso la consueta contrapposizione tra arte e vita:  queste si sciolgono in una sfera evidentemente performativa, di azione diretta, cosa che allude infine a una dimensione utopica dove alle opere d’arte e agli artisti succede la sfera della “creatività generale”, spazio di libera e spontanea espressività.

Ma così viene da chiedersi: e non è forse successo davvero tutto questo? La creatività generale oggi trionfa, tanto che la forma artistica è stata sostituita dal format, così come i servi fanatici dai fan.

In questa chiave, Pirandello è artista puro quant’altri mai, capace di prevedere puntualmente il destino della civiltà occidentale. L’arte passata integralmente in estetica; l’opera in operazione; l’oggetto in evento. I Sei personaggi in cerca d’autore sono certamente il canovaccio di tutto ciò. Ossia, la scrittura performativa di ciò che stava per accadere, che stava già accadendo.

Gli uomini del Neorealismo hanno pertanto inteso rifiutare tale Utopia?

 Il confronto, abbiamo detto, è con Giovanni Verga. Corrado Simioni scrive che i personaggi pirandelliani esulano sia dalla sfera di un destino sociale, come è per i naturalisti, sia da quella di un destino religioso, come in Verga. La visione del mondo di Verga è pertanto statica, perché rigorosamente “epica”, ossia religiosa: il luogo dove il poeta osserva l’ “eterno ripetersi del dramma di essere uomo”.

Il neorealismo cinematografico italiano, così, sarebbe poeticamente verghiano perché capace di volgere lo sguardo su questo eterno ripetersi del dramma di essere uomo. Il “marxista” Visconti de La terra trema non sarebbe d’accordo, il “cattolico” Rossellini di Germania anno zero forse sì.

In ogni caso, Pirandello risulta non utile alla causa, perché in lui agisce pur sempre una dialettica di tipo strettamente “soggettivistico” in cui la vita è compresa nel “comportamento”, e il comportamento è racchiuso nella metafisica dell’oltre (cfr. l’esordio del romanzo Si gira, “c’è un oltre in tutto”).

Oltre i personaggi, infatti, ci sta l’autore: un oltre sia a monte che a valle, dato che l’autore, come scrive Pirandello stesso nella prefazione aggiunta ai Sei personaggi, è colui che da lontano ha inteso comporre attraverso loro, i personaggi, la propria opera. Questo “da lontano” allude forse alla impersonalità del verismo verghiano rivisitata in chiave idealistica? In ogni caso, Pirandello ammette che in fondo tutto ciò altro non sarebbe che “una satira dei procedimenti romantici”. Ovvero, per ripetere Gramsci, la satira della condizione contemporanea della eccezionalità.

Ai neorealisti, allora, non può e non deve interessare l’eccezionalità. La posizione “morale” neorealista è quella dell’uomo immerso nel proprio tempo. Da un lato, quindi, riannodata a Verga e la sua “umanità” umile e sofferta, dall’altro proiettata verso la fenomenologia/esistenzialismo dell’esistere prima dell’essere, secondo la celebre formula sartriana.

Eppure in Pirandello già frigge molto di questo. Lo abbiamo visto: mancando il cogito, rifiuto dell’essenza della poesia tragica in favore dell’esistenza della performance. Caratteri eccezionali certo, i fanatici dell’arte versus i fanatici della vita, ovvero attori contro personaggi, ma in procinto di assumere riconoscibilissime vesti quotidiane, ossia tutti gli attuali fan della creatività, follower blogger influencer e quant’altro.

Giuseppe Giacosa aveva individuato nei Sei personaggi ciò che forse non sempre è stato messo opportunamente in evidenza: “i personaggi aspirano a un atto di vita che li renda immortali, che li fissi in una forma consistente e definitiva…In verità essi aspirano anche ad essere gli attori di se stessi”. In breve, il dualismo “soggettivistico” è in realtà oltrepassato. L’individuo borghese non recita una parte: recita se stesso. Questo è il metateatro. All’Università, negli anni Ottanta, Franca Angelini ci insegnava che già la Mirandolina goldoniana, la “locandiera”, aveva accesso al metateatro. Allo scopo di punire il Cavaliere di Ripafratta, odiatore delle donne, Mirandolina recita la parte della sedotta che vuole sedurre. Il carattere di Mirandolina, così, è un carattere di secondo grado, in grado di significare il ruolo dell’attore. La seduzione di Mirandolina significa realizzare una prova d’attore. Il carattere di Mirandolina, ci spiegava l’Angelini, è così un meta-attore. Tale è infatti la dimensione della borghesia settecentesca: se l’aristocrazia non ha bisogno di una “scena” perché già compresa, storicamente, nella codificata scena di corte, la borghesia, se intende competere sulla scala sociale dei valori, deve necessariamente mettersi in scena

Se è vero, come scrive Giacosa, che i personaggi pirandelliani aspirano ad essere gli attori di stessi, ciò è il segno della crisi della borghesia novecentesca che non ha più una scena da realizzare. Perché? Perché la cultura borghese è ormai transitata nella cultura di massa. Il metateatro pirandelliano, più che la scomposizione, è la ricerca spasmodica di una unità perduta. Il teatro vuoto dei Sei personaggi è l’unità di luogo oltre tutti gli aristotelici precetti, così come il tempo dell’azione che non ha ellissi: l’unità d’azione è la meta finale del personaggio, ossia essere attore di se stesso. Qualcuno c’è riuscito: Madama Pace (ha trovato infatti la “pace”), il settimo personaggio, che non rientra nel titolo perché non è in cerca d’autore, ma è attore di se stesso, compiutamente. L’attore di se stesso, oggi, ha un nome: il performer.

La società borghese transitata in società di massa predispone il transito dell’individuo borghese in uomo-massa, ossia da attore a performer. All’uomo-massa viene sempre e comunque chiesta, richiesta una performance. Mettere su famiglia, investire un capitale, avviare un’impresa sono tutte declinazioni della condizione della performance. Come il tempo libero, le vacanze, lo sport.

Se così è, Pirandello, allo scoccare dei 100 anni dei Sei personaggi, ha raffigurato e previsto la deriva novecentesca fino al nuovo capitalismo del XXI secolo. La “maschera nuda” è la condizione del personaggio come attore di se stesso, quindi del performer. L’uomo-massa del XXI secolo è infatti puro e semplice comportamento, dall’attore di se stesso al performer di se stesso, in un soggettivismo integrale che rende ininfluente ogni strategia della comunicazione. I personaggi, Padre Figliastra Madre ecc., a differenza della settecentesca Mirandolina, significano ma non comunicano il proprio ruolo di personaggi: attore e meta-attore si sciolgono nell’uomo a una dimensione del performer.

Resta aperta la questione del Neorealismo. Pirandello, questo è indubbio, oltrepassa il Neorealismo, che non sa di maschere. La non consapevolezza delle maschere, tuttavia, segnerà il destino stesso del Neorealismo il quale, manuali di storia del cinema alla mano, si scioglierà nella commedia all’italiana (da Poveri ma belli a I soliti ignoti fino ad Amici miei), che altro non è che il regno incontrastato delle maschere.

Le recenti regie pirandelliane di Carlo Cecchi e Gabriele Lavia dei Sei personaggi in cerca d’autore, convergono sul dato che la storia del Padre, Figliastra, Madre ecc., ossia i personaggi del dramma, altro non sia che un canovaccio tutto e integralmente italiano: una dark comedy. Perversioni e incesti, il culto spasmodico della famiglia, l’omosessualità inconscia dei due uomini che si dividono la stessa donna, si tratta insomma di un campionario che la comunicazione mediatica contemporanea non sa, o non intende, distinguere più tra cronaca rosa e cronaca nera. L’assenza di distinzione non costituisce il tragico, come supporrebbe un idealismo di maniera, ma testimonia il comico, come evidenzia la temperie tutta e solo satirica dei nostri tempi.

Lavia e Cecchi, giustamente, tendono così a un Pirandello fondamentalmente comico/satirico. E così facendo mettono in luce l’affinità, tutt’altro che superficiale, tra Pirandello e colui che, pur collaboratore fedele del neorealismo, fu imputato della sua esecuzione capitale, ossia Federico Fellini.

In Block-notes di un regista, un documentario realizzato per una tv americana, 1969, dove Fellini mostra i propri metodi di lavoro, si vede il regista in un atteggiamento clamorosamente pirandelliano: seduto alla scrivania del proprio ufficio, Fellini dà udienza ai “personaggi”, strani, deformi, bizzarri, provenienti dalla “vita”, i quali chiedono una pur minima apparizione nel film, figure e figuranti che nessun sceneggiatore potrebbe mai immaginare, così come Luigi Pirandello nel suo studio, la domenica mattina, parimenti, è solito dare udienza a tutti i personaggi, folli e ossessivi, reduci dalla “vita”, che lo assediano per essere rappresentati in commedie, drammi o novelle (Colloqui coi personaggi).

Il tono delle udienze, in entrambi i casi, è comico/satirico. La satira, per Pirandello post-romantica, per Fellini post-neorealista, del personaggio comunque preso dalla vita. Ossia di una umanità consegnata a quell’utopia sintetica della creatività generale, che è il segno indelebile e precisissimo dei nostri tempi. La creatività indifferenziata e indistinta degli uomini-massa, performer di se stessi.  

Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni MorettiRobert AltmanL’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese

Matteo:
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