illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Tiziano Cancelli
Passeggiando fra i corridoi del Palazzo delle Esposizioni, ci si accorge che tutte le opere presenti parlano di sovvertimento e cambiamento radicale. C’è la scienza. C’è la concretezza dura e reale della protesi d’acciaio. C’è il materialismo delle modificazioni genetiche. Continua però a rimanere non pensata la politica, unica forza in grado di indirizzare la scienza oltre il muro freddo e impersonale della logica analitica.
Salita la grande scalinata centrale del Palazzo delle esposizioni di Roma, che ospita la mostra Human + fino al 1 luglio, ci si trova immersi in quell’atmosfera tipica da libro di fantascienza: prototipi, istallazioni e silenzio irreale. Entrando nello spazio circolare che ospita la mostra sembra di essere entrati in una sala di comando, in uno di quei laboratori che custodiscono orrori e meraviglie, dove il tempo si ferma e le possibilità appaiono chiare, disposte, pronte ad essere colte. Il cartello principale ci avverte: stiamo entrando nel futuro, in quello spazio immaginifico dove tutto può assumere contorni sfumati, fatto di tonalità chiaroscure. Questo è quello che suggerisce il gioco di luci, pensato per far risaltare gli allestimenti posizionati sulle pareti bianche del Palazzo, quasi a voler suggerire una sorta di riverenza, di curiosità un po’ timida, verso il tema trattato. L’aria che si respira in effetti è quella tipica dei luoghi di culto, rarefatta, con un gran numero di persone che si aggirano silenziose, perse ognuna per sé in un grosso sforzo d’immaginazione.
Ad accompagnare le opere, frutto dell’impegno congiunto della Science Gallery di Dublino e del Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, troviamo cartelli bianchi contenenti citazioni provenienti dai più classici cliché sul tema: dalle tre leggi della robotica di Asimov, agli estratti dei libri di Huxley, ad una maestra del gotico come Mary Shelley, tanto per non tradire l’inquietudine data dal sovvertimento, in qualche modo proposto, del fantomatico ordine naturale delle cose. Tutto lo sforzo dell’esposizione è sostanzialmente racchiuso nelle domande che si trovano scritte all’inizio del percorso esplorativo: evoluzione o estinzione? Che cosa vuol dire essere un uomo o una donna oggi? E come sarà tra cent’anni? La tecnologia fa passi da gigante. Dobbiamo continuare ad accettare che la nostra mente, il nostro corpo e la nostra vita quotidiana vengano modificati o esistono confini che non andrebbero superati?
Non può essere un compito semplice riflettere su temi che trascendono le nostre più basilari concezioni, i nostri più basilari standard vitali. Quello che viene da chiedersi attraversando l’esposizione è: siamo in grado di concepire tutto questo? Siamo in grado di relazionarci, di confrontarci, di lasciarci contaminare, proprio come accade alla Biologa nell’Area X descritta da Van Dermeer all’interno della sua trilogia (recentemente portata su grande schermo dal film di Alex Garland, già regista di Ex machina) senza esserne irrimediabilmente compromessi?
Le installazioni sono diverse fra loro, rispondono diversamente, a seconda dell’autore, a questa domanda. Anche lo spettatore avrà sicuramente visioni e pareri contrastanti: difficile vedere in modo negativo lo sforzo che compie una persona che ha subito una mutilazione, nel tentare di rimediare al danno attraverso l’uso di una protesi più o meno bionica; difficile che qualcuno veda del negativo nel voler usare proprio queste protesi come oggetto d’arte e di espressione, ridefinita, di sé e del proprio corpo. Questa è l’istallazione che inaugura il percorso espositivo: un tentativo di pensare ai limiti del corpo umano in maniera nuova, più aperta, disponibile alla compenetrazione con le macchine. Del resto l’etica del Cyborg ci parla di questo, perché limitarsi al dato biologico, quando siamo in grado di trascenderlo in qualcosa di più funzionale? Donna Haraway ha avuto qualcosa da dire in proposito.
Forse potrà risultare più difficile il confronto con la morte, eutanasica in questo caso, a tema dell’opera sul Roller Coster of Death: un plastico mostra il progetto in scala di una giostra, montagne russe, studiata per portare alla morte per ischemia i suoi passeggeri. Si sale, si cade in picchiata, giri concentrici vari e alla fine della giostra si è passati a miglior vita. O ancora, qualcuno potrebbe avere da ridire sulle modificazioni genetiche sui neonati, proposte da un’altra opera, questa centrale, presente all’interno del percorso espositivo. Un bambino con più pelle su determinate parti del cranio, spiega la didascalia, sarebbe in grado di lavorare e sopravvivere a temperature più alte, tipiche degli scenari più pessimistici sul riscaldamento globale. Un bambino con una dose extra di guance potrebbe essere un manager migliore, grazie al migliorato assorbimento della caffeina nel sangue.
I temi affrontanti sono molti, e ognuno porta con se una riflessione intricata. La mostra ha un grosso merito, pur non illuminando particolarmente, riesce a far luce su temi ambigui, difficili che stimolano però come non mai l’immaginazione del visitatore. La tendenza che si ha quando si parla di tecnologia e futuro, è quella di cedere alle facili rappresentazioni; complice l’enorme quantità di materiale prodotto da questo fortunato filone che si sposa a pieno con le visioni più orgiastiche del turbo-capitalismo, risulta difficile fare un discorso equilibrato, trarre conclusioni precise. La divisione è spesso fra chi vede nascosta dietro questo l’abuso del termine «futuro» una irrimediabile debolezza, un cronico bisogno di evasione che riesca a fare breccia dove l’ideologia sembra aver fallito per sempre; e chi d’altro canto crede fermamente, al limite dell’esaltazione, di aver trovato finalmente la chiave di volta capace di far collassare su sé stesso il soffocante tempio dello status quo. Una lettura diversa, più realista, ma non per questo meno entusiasmante, dovrebbe forse riflettere sullo stesso uso della parola futuro: quello che vediamo all’interno della mostra non è futuro, ma presente. Attuali, in molti casi sfruttanti tecnologie già ampiamente commercializzate, le istallazioni cercano di far leva su questa distopia percettiva, su questo sguardo indagatore, avido, tipico del visitatore di musei, che mira a scomporre il giocattolo, a decostruire l’opera, per capire se e quanto può dirci su di noi. Il futuro ha molto da dire. Ma più che una previsione, ancor più di un trend, il futuro così immaginato fa luce sulla profonda crepa aperta nella modernità, una crepa che rende difficile fare i conti con il presente ma asseconda l’illusione di poterne fare a meno. Si passano ore ad immaginare l’ingegnerizzazione retroattiva del corpo, la realtà aumentata e l’empatia per le macchine, tralasciando il dato centrale che fa ancora da sostrato essenziale e per ora ineliminabile, l’umano.
La sensazione che si prova visitando una mostra del genere, che vuole avvicinarsi e avvicinare ai tabù dell’uomo contemporaneo, ricorda ancora una volta quell’approccio tipicamente new weird di autori come Van Dermeer e Miéville: c’è un qualcosa di magico nelle opere che vediamo, un’aura vibrante di possibilità e scenari inattesi, un tripudio di allegorie e simbolismi che fanno volare la fantasia fra riflessioni filosofiche e antropologiche, fondendosi alla perfezione con la forza del reale, del tangibile. La politica è un pò ciò che viene a mancare in quest’ottica. Passeggiando fra i corridoi scarsamente illuminati del Palazzo delle Esposizioni, ci si accorge che tutte le opere presenti parlano di sovvertimento, sconvolgimento, cambiamento radicale; nessuno cambiamento radicale avviene senza un passaggio attraverso la dimensione politica.
Come se questo baccanale di ottimismo hi-tech potesse aleggiare nell’etere, in un qualche stadio sconosciuto della materia e, come nel migliore dei realismi magici, potesse prendere forma di punto in bianco, senza passare dalle condizioni materiali necessarie alla sua realizzazione. Questo è forse un po’ il rischio del pensare la tecnologia in chiave fantasmagorica: si, c’è la scienza, la forza che manipola la materia, quindi c’è la concretezza dura, reale, della protesi d’acciaio e delle modificazioni genetiche; ma continua a rimanere non pensata la politica, unica forza in grado di indirizzare la scienza oltre il muro freddo e impersonale della logica analitica.
Senza la riflessione politica si rischia di compiere un errore piuttosto comune nei tempi recenti, quello di pensare la tecnica senza vincoli di potere né legami di servitù. Sarebbe importante pensare invece come ogni singola opera esposta, e che simboleggia un avanzamento tecnologico e in alcuni casi ne sbandiera uno sociale, nasconde una storia di gerarchie e di sfere d’influenza. Il potere di immaginare non è qualcosa che va preso alla leggera. Tutte le opere esposte ci parlano di un futuro alle porte, in alcuni casi già presente, che è stato nella mente di qualcuno prima di prendere vita e palesarsi, fino ad arrivare sulle pareti di un esposizione. Se non riusciamo a pensare questa causalità che lega i fili di questo ego visionario, difficilmente riusciremo a comprenderlo e tanto meno ad elaborarlo in modo soddisfacente. Quel qualcuno capace di pensare l’impensabile, il progresso, capace di situarsi oltre l’immaginabile e riportare con sé una parte di quella potenzialità, è un qualcuno che varrebbe la pena conoscere. Capire quanto meno cosa lo muove, cosa lo spinge verso una data direzione. Del resto a chi non piacerebbe farsi raccontare da Elon Musk perché ha creato un lanciafiamme o perché ha spedito una roadster nello spazio? A questo scopo la politica, per capire se questa potenza immaginifica può essere anche emancipatrice, ed evitare di ridursi ad ennesimo sfoggio di lusso o stravaganza di una parte sempre più piccola di mondo.
Meno la tecnologia incorpora la politica, l’etica e la morale, più le possibilità di un lieto fine si avvicinano allo zero. Senza un riflessione strutturata si rischia di trasformare la bellezza di un esposizione tecnologica in un moderno circo Barnum, solamente che a farne le spese questa volta non saranno scimmie, leoni ed animali esotici ma semplicemente altri esseri umani, colpevoli di appartenere alla parte sbagliata della Terra.
Tiziano Cancelli è laureato in Filosofia all’università La Sapienza di Roma. Scrive di politica, cultura e nuove tecnologie. Frequenta il master di secondo livello Big Data, innovazioni, regole, persone. Ascolta Black Metal e sta ancora cercando la pietra filosofale.