illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
C’è una vecchia idea che tiene da quando si raccontano storie. È una di quelle idee che non sai mai con precisione dove sono nate. L’idea è la seguente: una storia, per essere raccontata, deve essere credibile. Il che significa: una storia, per essere raccontata, deve possedere verosimiglianza. Detta ancora diversamente: una storia, una buona storia, perché sia una storia, deve possedere sempre, in certa misura, un grado di realtà. Poi – è il 2016 – e uno spagnolo e un inglese scrivono due romanzi, usciti in Italia tra la primavera e l’estate 2017 entrambi per Einaudi, platealmente inverosimili. Uno si chiama Nel guscio e l’ha scritto Ian McEwan, l’altro si chiama Dall’ombra e l’ha scritto Juan José Millás. Cioè due dei più grandi scrittori viventi.
Il Caso Millás: Dall’ombra
Damián Lobo ruba un fermacravatta in un mercatino d’antiquariato. Per non farsi beccare si nasconde in un vecchio armadio. Aspetta, cercando il momento opportuno per uscire dal nascondiglio, quando l’armadio viene imballato, sollevato e condotto a casa di Lucia. Dall’armadio, dall’ombra, Damián inizia a spiare la famiglia e a viverne, in segreto, tutta la quotidiana complessità.
Ora, ogni persona di buon senso, quindi ogni personaggio credibile, avrebbe colto la prima opportunità per uscire dall’armadio e poi dalla casa. Damián, al contrario, visto che è un personaggio, ed è un personaggio “non credibile”, decide di costruire una sorta di passaggio segreto dove nascondersi, tra il vecchio armadio e la cabina armadio che gli sta dietro. Decide di permanere in quello spazio. Poi, una volta che la coppia è a lavoro e la figlia a scuola, uscirne per mettere a posto casa, fare il bucato, preparagli la cena. E tutte le sere, quando la famiglia torna a casa lui zac, di nuovo nel nascondiglio: l’armadio dietro l’armadio.
Con tutta evidenza l’implicazione è ontologica, cioè; il mondo dietro il mondo di cui persino Nietzsche confessa, in apertura del terzo capitolo del Così parlò Zarathustra, di essersi illuso: «Così anche io, un tempo gettai la mia illusione al di là dell’uomo, come tutti coloro che abitano un mondo dietro il mondo».
Ma l’implicazione è anche di natura teologica. Ad un certo punto Damián è solo nell’armadio, e inizia a parlare con un presentatore, Sergio O’Kane, all’interno di uno spettacolo televisivo che si svolge completamente nella sua mente:
«Mi dica la verità, non aveva paura?»
«No, solo…»
«Cosa?»
«Mi domandai se quella fosse una sorta di invisibilità. Se Dio, tanto per dire, dato che non sono credente, stava dietro un tramezzo sottile come quello che mi separava dalla donna».
La posizione scelta da Millás è allora strategica: il suo personaggio si trova in un punto preciso, si trova in quel luogo che in tedesco si esprimerebbe con l’avverbio jenseits, cioè l’altrove. Qualcosa che potremmo chiamare anche anderswo, cioè la trascendenza rispetto al terreno – trascendenza che può essere intesa in senso teologico, metafisico, ma anche politico. Da quest’ultimo punto di vista è evidente, infatti, che è un pensiero dell’aldilà ad alimentare il filone che definiamo utopico, poiché il non-luogo dell’utopia di per sé trascende “questo” mondo. In gioco c’è quindi la relazione triangolare soggetto-mondo-Dio.
Un giorno, girando su Internet, Damián decide di iscriversi in uno dei molti forum che rigurdano morti e apparizioni. Il primo post che scrive è: «Sono uno dei fantasmi di cui parlate e vivo a casa di una famiglia che logicamente non può vedermi, ma che beneficia della mia presenza». La firma, “il Maggiordomo Fantasma”. Damián, in altre parole, decide di assecondare quello che per Kafka è stato un incubo, confessato a Felice Bauer il 1° Novembre 1912: essere l’uomo più magro che conoscesse, uno che per poco non finisce per scomparire, un essere quasi senza corpo. E allora de-realizzarsi, tagliarsi fuori dalla realtà, fare a meno della presenza corporea e divenire un fantasma, notoriamente essere che sta al di qua di questo mondo e non-ancora nell’altro.In effetti, in molti hanno trovato elementi kafkiani nel romanzo di Millás. E lo stesso Kafka è stato criticato di Anti-Realismo, in particolare da certa critica marxista – uno su tutti György Lukács – cui vi opponeva il modello Thomas Mann. Tanto da intitolare un intero capitolo del suo Il significato attuale del realismo critico proprio «Franz Kafka o Thomas Mann?». Il che, per Lukács, equivale a chiedersi: Avanguardismo o Realismo?
Scrive Lukács:
«I particolari grandiosamente suggestivi (kafkiani) rimandano continuamente a una realtà ad essi trascendente, all’“essenza” presentita e anticipata, stilizzata in un essere fuori dal tempo, del periodo imperialistico. Essi non sono quindi – come nel realismo – concentrazioni, punti nodali delle svolte e dei conflitti della loro propria realtà, ma – in ultima istanza – semplici cifre di un aldilà inafferrabile […]. Il vero contraltare a questo fascinoso fuoco fatuo sulla vita di una letteratura che voglia esprimere lo specifico del nostro tempo dal punto di vista borghese, è Thomas Mann […]. Thomas Mann è sempre immanente»
La sua posizione è netta: Kafka trasforma l’hic et nunc, che traspare attraverso il carico di dettagli della sua scrittura, in vuota allegoria. Mann, viceversa, rimane sempre immanente. L’uno, esempio dell’atteggiamento avanguardista, in fin dei conti non capisce la società borghese, l’altro, esempio dell’atteggiamento realista, va innalzando l’impalcatura di un palazzo letterario perfettamente adeguato ad essa.
Eppure esiste un Realismo dell’Anti-Realismo, una geometria dell’illogico, che accomuna Kafka e Millás. Nelle parole di quest’ultimo «En apariencia está muy alejada de la realidad, parece una novela fantástica, pero quizás sea una de las novelas más políticas que he escrito». Questo, il romanzo più politico che abbia scritto. Cioè il romanzo in cui un uomo, ad un certo punto della sua vita, si trova a vivere dentro dentro un armadio dietro un armadio, trasformandosi in un fantasma in una casa di sconosciuti, è il romanzo più attaccato alla realtà.
Il Caso McEwan: Nel Guscio
La campagna del Gloucestershire, un’ora di treno da Londra e una vecchia casa di pietra. Qui, da qualche anno, si è trasferito Ian McEwan. Qui è nata l’idea di Nel Guscio, mentre chiacchierava con sua nuora Rosie. Lo racconta in una intervista apparsa sul Venerdì: «era all’ottavo mese di gravidanza del primo figlio e naturalmente l’argomento era il bambino o la bambina che stava per arrivare. Ho avuto la netta percezione che eravamo già tre persone, sul divano. Un paio di mesi dopo ho cominciato a scrivere». Tutto il resto è stato un percorso in discesa: la storia di un feto che assiste al tradimento del padre con il fratello Claude e all’organizzazione del suo assassinio. Con tutta evidenza si tratta di una riscrittura dell’Amleto, da cui è tratto il titolo (in originale Nutschell): «Oddio, potrei anche essere confinato in un guscio di noce (Nutshell) e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse la compagnia di brutti sogni».
Ma c’è qualcosa di completamente surreale: il nuovo Amleto deve ancora nascere e, “dall’ombra” del non-ancora, già parla come un intellettuale, in parte parodizzando la spinta astrattiva del principe di Danimarca, con frasi del tipo:
Immerso nelle astrazioni, posso contare solo sui loro proliferanti legami a catena per crearmi l’illusione di un mondo noto.
Oppure si cruccia per il comportamento della madre:
Quale amarezza, e ancor più amara se si considera quanto il poeta è dolce. John Cairncross espulso dalla casa di famiglia, acquisto di suo nonno, in ossequio al principio filosofico della “crescita personale”, un’espressione non meno assurda del genere musicale detto “easy listening”. Separarsi per poter tornare insieme, darsi le spalle per potersi abbracciare, smettere di amarsi per potersi innamorare. E lui se l’è bevuta. Che babbeo! Tra la debolezza di lui e la falsità di lei si è aperta la fetida crepa che ha partorito spontaneamente uno zio-verme. Frattanto io me ne sto acquattato nella mia impervia privacy, in un languido e inesauribile crepuscolo, preda dei miei sogni impazienti.
Una cosa è certa: per McEwan Nel Guscio è stato una vacanza. Lo scrittore dell’Hampshire, che ha sempre studiato tantissimo per scrivere i suoi romanzi, l’ha detto chiaramente al The Guardian: una vacanza dal realismo e una vacanza dal lavoro di ricerca preparatoria. E ancora in una intervista apparsa su The Catcher: «Ho semplicemente preso la decisione, questa volta, di voltare le spalle al realismo».
Una cosa allora è chiara, Per McEwan si è trattato di una fuga dal rigore della realtà.
Messa giù così, si direbbe un romanzo di puro intrattenimento. Un divertissement, una pausa dal mondo, il puro godimento della finzione.
Eppure le cose non sono così facili. Continua McEwan sul Venerdì:
L’istante dell’attraversamento è quello buono per mollare: se hai problemi con l’antirealismo o l’irrealismo, lascia perdere. Uno dei momenti di irrealtà che amo di più nella letteratura europea è La metamorfosi di Kafka. Un uomo si sveglia dopo un incubo e si ritrova trasformato in un insetto gigantesco: lì c’è la linea da attraversare. Ma cosa pensa Gregor Samsa? Che farà tardi al lavoro. Sono molto attratto dalla possibilità di avere il reale, il banale, e il fantastico che scorrono assieme. E, se accetti che un feto intelligente possa riflettere e preoccuparsi come me per i destini del mondo che sta per raggiungere, sei libero.
Cerchiamo di trattenere due cose da quanto dice McEwan:
- Se hai problemi con l’antirealismo, lascia perdere
- La Metamorfosi di Kafka è uno dei momenti più alti di Anti-Realismo nella storia della letteratura occidentale.
Già, Kafka.
Kafka imputato, accusa: Anti-Realismo
Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, all’interno dell’enorme dibattito su quale autore dovesse fungere da rappresentante della cultura tedesca, le aspettative favorivano Thomas Mann. La storia della diffusione di Kafka invece s’incrocia inesorabilmente con quella del nazismo. Nel 1934 Schocken Verlag, la casa editrice di Berlino presso cui cominciarono ad apparire le sue opere postume a cura di Max Brod, fu costretta a trasferirsi a New York. Ed è dall’America che, negli anni del dopoguerra, Kafka “ritorna” in Europa e in particolare in Francia, dove viene studiato in modo approfondito dalla critica letteraria Marthe Roberts, messo in scena da Andrè Gide e fatto proprio dalla filosofia esistenzialista.
Oggi insieme a Dostoevskij, Kafka è l’autore straniero più letto, diffuso e influente nella letteratura americana
Inoltre gli anni cinquanta si caratterizzano per la consacrazione definitiva dell’astro di Brecht. Brecht, riguardo alla “questione Kafka”, è l’unico, a parte Walter Benjamin, a polemizzare con Mann. Ma la questione è spinosa, tanto che nell’immediato dopoguerra la rivista del partito comunista francese Action apre quella che poi divenne l’inchiesta più famosa nella storia della critica letteraria su Kafka: Faut-il brûler Kafka? Il che significa chiedersi: Kafka è o no utilizzabile? Inoltre, cosa che ha sostenuto George Bataille, il tema Faut-il brûler Kafka? rimanda a due questioni cruciali: il rapporto tra Kafka e il tempo, marxisticamente inteso come progressivo, e il rapporto tra Kafka e il problema del male. Due enormi problemi, ancora una volta, di natura onto-teologica.
È certamente vero che anche Tvetan Todorov, nel suo fortunato saggio dedicato alla Litterature Fantastique, ha infatti inserito Kafka in questo genere letterario. Ma è altrettanto certo che l’inserzione nel genere opposto è a sua volta un’evidente forzatura. Ne risulta un nec nec: Kafka non è collocabile a pieno titolo né nel genere “realista” né in quello “fantastico”.
Questo vale sia per Millás sia per McEwan. Come è accaduto, tra l’altro, anche per la maggior parte della letteratura di José Saramago: se accetti la premessa assurda, cioè se accetti che la morte inizi a scioperare (Le intermittenze della morte), se accetti che di colpo l’umanità venga affetta da cecità (Cecità), se accetti che la Penisola Iberica si stacchi dall’Europa e cominci a navigare in pieno oceano (La Zattera di Pietra), tutto filerà liscio more geometrico.
La questione allora non è stare dalla parte del Realismo o dalla parte dell’Anti-Realismo. La questione è se una storia possieda o no una forma di trascendenza. C’è un episodio del Processo (opera alla quale dal 30 giugno al 28 Agosto 2017 è dedicata la mostra al Martin Gropius Bau di Berlino dal titolo Franz Kafka. Der Ganze Prozess), in cui Joseph K si trova, come Damián, in una stanza separata da un’altra stanza.
Leni e l’avvocato Huld
Sono le otto di sera e Joseph viene trascinato dallo zio allo studio dell’avvocato Huld – K. ha sempre pensato invece all’autodifesa. I due bussano alla porta. Sulle prime non accade nulla e lo zio inizia a battere più forte con i pugni. Poi vedono due occhi neri osservare dallo spioncino. La porta si apre e Joseph, con lo zio fuori di sé, irrompe nello studio. Intanto la donna, con un camicie bianco e una candela in mano, li segue intimandoli del fatto che l’avvocato è molto malato e che non possono assolutamente proseguire. I due vanno dritti lungo il corridoio.
Leni, la donna, li raggiunge nella stanza e rimane fintanto che l’avvocato non le ordina di chiudere la porta e restare fuori. Leni lascia i tre – Joseph, l’avvocato, lo zio Albert – soli nella stanza. Le luci sono bassissime e tutta la scena si svolge in penombra e semioscurità. Ad un certo punto, poco dopo aver iniziato a parlare del processo di Joseph, si scopre che dietro di loro, in un angolo della stanza completamente buio dove la luce della candela non arriva, sta una quarta persona: il direttore della cancelleria che, di certo, sarebbe potuto essere più che utile per Albert e suo nipote. L’avvocato, il direttore della cancelleria e lo zio iniziano a parlare mentre Joseph resta appoggiato alla colonnina del letto dell’avvocato, estromesso dalla conversazione. Il direttore guarda costantemente l’orologio, mentre K. continua a pensare a Leni, maltrattata in precedenza dallo zio per il suo comportamento negligente.
A quel punto si sente nell’anticamera un botto improvviso, come di porcellane infrante contro il muro. Joseph capisce che quello è il segnale di Leni, che ha effettivamente gettato un piatto contro la parete, chiede il permesso di andare a vedere ed esce dalla stanza. La mano di lei lo afferra e lo conduce in un’altra stanza completamente buia. Lo fa sedere su una cassapanca di legno con lo schienale e poi, in una posizione stranissima, si siede con le ginocchia sulle ginocchia di K. In questa posizione Leni confessa di avere un difetto fisico e mostra tra l’anulare e il medio una membrana che arriva quasi sino alla prima falange delle dita: è fuori di dubbio, l’immagine rimanda alla palmatura dei pesci, e dunque Leni è una sirena. Non appena Joseph si accorge di questo dettaglio, la bacia. Ginocchia su ginocchia, Leni per poco non scivola sul tappeto, lui fa per afferrarla ma viene trascinato verso di lei. «Jetzt gehörst du mir», dice Leni, la sirena: «ora appartieni a me». Poi taglio, conclusione della scena. Nel capoverso successivo Joseph K. è già fuori dall’edificio.
Ancora una volta allora c’è una parete, dietro questa parete si sentono dei rumori, a produrre questi rumori è una figura che non è del tutto di questo mondo e non-ancora dell’altro. Questi rumori attirano perché provengono da un altrove, esattamente come l’amore di Margherita nel V capitolo del Faust. Scrive Goethe che Das ewig Weibliche zieht uns hinan («il femminino ci attira»). Ma sul verbo hinanziehen si gioca il punto di saldatura tra amore e redenzione, perché il movimento che esso indica è estremamente preciso, non riducibile dal nostro semplice tirare (traducente del solo ziehen). È chiaro che si tratta di un verbo composto e alla sua forma base ziehen significa tirare, trarre, attrarre. An- sta ad indicare la vicinanza. Hin- (verso) è l’opposto di her- (da). Se, per analogia, heranziehen indica qualcosa che avvicina a sé, hinanziehen è allora qualcosa che avvicina ma che non è vicino. Segnala allo stesso tempo l’avvicinamento e l’inavvicinabilità. Questo tipo di movimento segna il desiderio, espressione dell’amore, di Margherita di farlo salire al cielo e contemporaneamente la redenzione di Faust.
Il feto e l’armadio allora sono due posizioni da cui poter guardare il mondo. E sono le due posizioni dalle quali toccare quel «tramezzo sottile» dietro il quale compare la Sirena (per Joseph K), la casa (per Damiàn), il cielo (per Faust), letteralmente “il mondo” per il feto di nove mesi di McEwan. Un mondo che sta dietro il mondo.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia