illustrazione di Matteo Sarlo
parole e foto di Luciano De Fiore
C’è il mare, a Venezia
È come se quest’anno l’arte si fosse accorta, tutta insieme, che a Venezia c’è un protagonista e padrone: il mare. La Biennale 2017 e le cento altre esposizioni in contemporanea sembrano tutte intonarsi alle acque. Come se il mare allungasse le sue mani sulle terre così effimere della laguna, non si sa per ghermirle o per sostenerle, come mima l’istallazione di Lorenzo Quinn emergente dal Canal Grande a Ca’ Sagredo.
Le bagnanti iperrealiste della tedesca Carole Feuerman, al Giardino della Marinaressa, sembrano scrutare il bacino di San Marco e gli yacht ormeggiati lungo la Riva dei Sette Martiri. Negli ampi olii di Philip Guston – in dialogo con un pugno di poeti del Novecento, alle Gallerie dell’Accademia – ecco le verdi bocche delle onde montaliane. Nelle fotografie di Dirk Braeckman, nel padiglione belga ai Giardini, protagonista è la quieta risacca della superficie, solcata – nel padiglione cinese – dall’improbabile trenino navigante di Tang Nannan, mentre Wu Jian’an esplora quelle profondità che hanno inghiottito al largo dello Sri Lanka la portacontainer che trasportava a Venezia 52 opere di 17 altri artisti cinesi.
La superficie burrascosa di Wolfgang Tillmans (The State We’re In) ci avvicina un oceano di masse inquiete e rotolanti, un acqua poderosa, quasi che l’umanità potesse esservi inghiottita. Se l’Himalaya tutta intera fosse scagliata nelle profondità marine sprofonderebbe senza lasciar traccia, e sopra avrebbe ancora una colonna d’acqua di kilometri.
Questa superficie infida e burrascosa è percorsa, oggi come sempre, dalle rotte dei migranti, di cui dà conto il progetto Leviathan, dell’inglese Shezad Dawood, articolato su due luoghi espositivi e su un film in dieci episodi, i primi due presentati in anteprima a Venezia. Leviathan intreccia le preoccupazioni sui rischi climatici a quelli umanitari, le conseguenze della pesca scriteriata sul domani dei mari e la tragedia dei migranti che affogano nel Mediterraneo. Nella Palazzina Canonica un’istallazione riporta su preziosi e antichi tessuti Fortuny le forme di ciò che chi ha provato ad attraversare il mare si è lasciato indietro e che oggi viene utilizzato dal LABANOF, l’istituto dell’Università di Milano incaricato del riconoscimento degli effetti personali persi dai migranti, per contribuire all’identificazione dei dispersi da parte dei familiari: golfetti stinti, pezzi di banconote slavate dal sale, mozziconi di documenti personali.
«Soffia ora, vento; gonfiatevi, onde; sta bene a galla, barca: scatenata è ormai la gran tempesta, e tutto adesso è rischio»: da questa citazione del Giulio Cesare di Shakespeare nasce il progetto a tre del regista Alexander Kluge, dell’artista Thomas Demand e della scenografa e costumista Anna Viebrock, alla Fondazione Prada. Una collaborazione, a detta del curatore Udo Kittelmann, originata dalla comune consapevolezza dei tre, a livello emotivo e teorico, delle criticità e della complessità del presente. Fatto sta che, come recita il titolo della mostra, ripreso da Everybody knows di Leonard Cohen, “la barca imbarca acqua. E il capitano se ne sta seduto”.
Veri naufragi, e falsi ripescaggi, come la gigantesca e spettacolare operazione realizzata da Damien Hirst – distribuita tra la Fondazione Pinault alla Punta della Dogana e a Palazzo Grassi.
No Feelings
Il demone gigante di resina nera alto diciotto metri campeggia al centro della corte del palazzo. Affacciandosi da ognuno dei tre piani se ne coglie uno spicchio, dei particolari. Impossibile averne l’immagine intera. Ma la gigantesca scultura di Damien Hirst non è troppo grande per Palazzo Grassi: è quest’ultimo ad esser troppo piccolo per lei.
Potrebbe esser questo il messaggio del dominatore del mercato artistico degli ultimi anni. La mia arte è ultramuseale, perfino un contesto articolato e segmentato come quello di Venezia la contiene a stento. E dire che lo spaziotempo permeabile e onirico della laguna sembra fatto apposta per dar conto del profluvio di immagini e di forme del grande comunicatore inglese. Ma i prodotti di Hirst e della sua azienda sono pensati e realizzati per una piazza per la quale il museo costituisce soltanto un passaggio. Importante, perché in quel contesto le opere acquistano valore, finanziariamente parlando: d’altra parte, la sua ambizione – sostiene Robert Storr – «non consiste nel lasciare il suo segno nella storia dell’arte, oppure di criticare satiricamente i suoi valori e le sue istituzioni, ma semplicemente e senza alcun rimorso nel lasciare un segno nella storia della finanza».
Sta di fatto che così l’eclettismo e la vanità poetica di Hirst passano attraverso il lavacro dall’accademia e della critica, tendenzialmente favorevoli al divertente, ma algido spettacolo sul potere e la gloria organizzato sapientemente e senza risparmi dall’immaginifico imprenditore di Bristol. No Feelings si chiamava una sua opera del 1989: un triste armadietto ripieno di medicinali. Vent’anni sono trascorsi, ma quest’estetica anestetizzata resta ancora la sua cifra. Le due vaste e prestigiose sedi veneziane ospitano una sorta di replica spettacolarizzata della storia personale del suo creatore. Come il liberto Aulus Calidius Amotan, divenuto ricco al punto da collezionare un’immensa fortuna in opere e cose, persa poi nel naufragio della Apistos/Unbelievable, la nave che la trasportava, così l’ex povero Hirst, ora collezionista di opere dell’amato Bacon – e sfido -, e di Bansky, Picasso e Jeff Koons (del quale Hirst è probabilmente il più grande collezionista al mondo, come si apprezza anche dalla recente intervista realizzata ad entrambi per la BBC), sopravvissuto alle sue ultime non fortunatissime aste, ha impiegato dieci anni per concepire e dirigere la realizzazione e l’allestimento di queste cento e cento opere esposte a Venezia e destinate poi, con ogni probabilità, alla diaspora. Smontata la mostra, l’incredibile bric-à-brac veneziano subirà una specie di nuovo naufragio pilotato, vagando sulle onde del mercato fino ad esser ghermito da qualche rapace oligarca. Per ora, tutto appare come fosse stato gettato, davvero e per finta, in fondo al mare; e recuperato, per finta e per davvero, grazie a pontoni, gru e sub presi a prestito dai film di James Bond, recupero fake “documentato” con dovizia di particolari.
Così, dal fondo di un mare archetipico nel quale non esiste moneta, ma dal quale è possibile recuperare tesori, Hirst ha tratto centinaia di oggetti che si mischiano in un allusivo sincretismo pseudoarcheologico. La statua di Topolino accanto a quella di Mowgli che gioca con Baloo, busti preziosi di principesse sul calco di Kate Moss rovinati apposta alludendo all’insulto del tempo trascorso negli abissi; modellini dei Transformers e di robot supereroi giapponesi, busti di divinità egizie, indù e greche e perfino un paio di autoritratti di Hirst nelle vesti del collezionista armatore naufragato.
Tutto realizzato impiegando insieme materiali preziosi e corrivi, antichi e contemporanei, mescolando lapislazzuli bronzo e oro con acciaio, resine, siliconi e LED. A dimostrare che l’opera è un gioco, che non esistono materiali nobili e altri meno, ma è che è la firma dell’artista ciò che nobilita e dà valore. Così come non si dà un prima e un dopo, al punto che il mito dei personaggi di Disney coesiste con credenze religiose millenarie, senza frizioni e gerarchie. Non è rintracciabile neppur più la vettorialità della storia: è più archetipica la statua di Pippo fatta di gusci di cirripedi (al mio gusto, il pezzo più interessante) o il calendario azteco? La polìta statuetta dell’ermafrodito o la sfarzosa testa di Gorgone dai cobra d’oro? Ogni oggetto ha subito la catarsi dell’immersione in un mare di fantasia che ha reso ogni cosa spettacolo: Marco Giusti ha avuto buon gioco nel divertirsi a richiamare decine di esempi dall’immaginario filmico, più o meno trash, da Ray Harryhausen a James Cameron, dalla serie della Hammer Film Productions ai film dei Pirati di Gore Verbinsky con Johnny Depp, da cui viene l’idea-madre di ricoprire i reperti di alghe e coralli. Anche la distinzione tra natura e artificio appare consunta. Eppure, alla Punta della Dogana, una scritta ammonisce: «Da qualche parte tra le menzogne e la verità sta la verità». Giusto. A questo punto, francamente, un po’ d’ironia ci sta bene.
P.S. C’è dell’acqua anche nel Padiglione Italia. Che fa acqua. Lasciamo perdere Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Il buio è il vero protagonista di un’Italia plumbea. Una volta salita la gradinata che chiude l’hangar, si svela l’istallazione del veneziano Giorgio Andreotta Calò. La bella capriata dell’hangar si specchia in una gigantesca piscina immota. C’est tout. Macchina metafisica? Cattedrale surrealista? Vertigine perfetta? Oddio, l’io e il suo doppio no!
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.