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DAL NULLA AL NULLA: sulle tracce di Antoine Volodine e del post-esotismo

 

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marco Quaglia

Antoine Volodine, scrittore francese classe 1950, è un vero e proprio culto. Autore multiforme, alfiere e capostipite del proprio stesso movimento letterario.

66thand2nd ha da poco portato in Italia i Sogni di Mevlidò, storia di un poliziotto nietzschiano in un mondo di derelitti. Per preparare il lettore alla lettura di questo libro, così come agli altri disponibili al di qua delle Alpi, sarà necessario spendere qualche parola su questo autore assolutamente unico nel panorama mondiale e poi sul suo libro ad oggi più rappresentativo: Terminus radioso.

C’è un momento, stando al Libro Tibetano dei Morti (o Bardo Thodol), in cui l’anima cosciente vaga in un interstizio che non è più vita e non è ancora morte: questa fase si chiama Bardo. Da qui, allo scoccare del quarantanovesimo giorno, o si ascende al Nirvana o ci si reincarna in una nuova vita terrena. Per Antoine Volodine il Bardo è lo spazio e il tempo di una produzione letteraria unica, così come il numero 49 (in tutte le sue forme: radici e multipli) una ricorrenza che ne scandisce le epopee. Ad oggi Volodine ha scritto quarantadue libri sotto diversi eteronomi, e si avvicina a passo deciso al quarantanovesimo, che come già da lui preannunciato sarà anche l’ultimo. (Di questi 20 sono andati alle stampe firmati da Volodine; 5 sono opera di Elli Kronauer, 13 di Manuela Draeger, 4 di Lutz Bassmann).

Se Sogni di Mevlidò rappresenterà auspicabilmente una conferma, è con Terminus Radioso, anche questo stampato in Italia da 66thand2nd, che Volodine si è consacrato in Italia.

La storia si dipana nelle decine e centinaia di secoli a seguito della devastazione nucleare in cui è precipitato il mondo. Il capitalismo, nemico giurato dell’umanità e i cui alfieri sono violenti uomini con la testa di cane, sta però cercando di riprendere piede, ed è per questo ripartito alla conquista di terre e popoli con violenza esemplare. Il tempo scorre veloce tra le pagine, al punto che se ne perde rapidamente la cognizione. Smarrimento simile, seppur non così alienante, riguarda la geografia del libro. Pur non essendo mai specifico, i connotati morfologici sono indubbiamente quelli dell’Eurasia: steppe e taighe, praterie sconfinate e foreste da cui è impossibile uscire. È in queste terre contaminate che i fuggiaschi del mondo si sono riversati. (Non si può non pensare a Chernobyl, parrebbe). Naturalmente non ci sono più città, anzi, fin dall’inizio siamo informati che ci muoveremo in una vera e propria landa di desolazione, dove l’unica forma di insediamento umano è rappresentata da campi di lavoro agricolo: i kolchoz di memoria sovietica. Come vedremo non sarà l’unico riferimento a quel mondo e a quella storia. Terminus Radioso è il nome di uno di questi campi, chiamato dai suoi abitanti anche Levadivono, come l’omonima regione russa. (Secondo riferimento).

In questo mondo ostile vi sono ancora uomini, seppure con connotati minimali e in via di disfacimento. Si tratta perlopiù di erranti: reietti, ex militari, criminali e prigionieri, fa poca differenza. La maggior parte vive rinchiusa volontariamente nei campi di lavoro, mentre chi ne è ancora fuori vaga alla ricerca di un posto simile, lungo quello che resta delle interminabili ferrovie euroasiatiche: sorelle minori della mitica transiberiana. Sono questi binari gli ultimi retaggi infrastrutturali dell’uomo.

La tentazione iniziale, leggendo Terminus Radioso ma anche le storie di Angeli minori (L’orma editore), è quella di ridurre il contesto narrativo al fantascientifico, all’apocalittico e al dispotico, eppure non mi sembra che ciò basti. È lo stesso Volodine che fornisce al lettore curioso di conoscerli gli intenti e le aspirazioni della propria letteratura. In una bella intervista pubblicata da The Paris Review spiega come la sua poetica, nota universalmente con l’etichetta di post-esotismo, e di cui lui e i suoi diversi eteronomi sono gli unici portavoci, abbia radici in una moltitudine di terreni: nel realismo magico e nello sciamanesimo delle società animiste, nel bolscevismo così come nell’onirismo.

Nella letteratura post-esotica tutto è possibile, è sempre Volodine a rivendicarlo: ogni fantasticheria, ogni confusione dei piani narrativi, il mescolamento del sogno e del reale; tutti questi elementi sono all’ordine del giorno, presenti in ogni pagina della sua produzione, anche laddove il realismo appare plausibile. In Terminus Radioso, ad esempio, le coordinate storiche offerte al lettore sono ovviamente invenzioni, ma nel magma complessivo del linguaggio e della storia appaiono quasi autentiche: ecco allora che il crollo di una fantomatica Seconda Unione Sovietica (terzo riferimento) ci sembra Storia vera; una realtà e non un sogno dalla quale partire per cercare ordine in uno spazio-tempo sconfinato e spinto ai suoi limiti. Ma si prendano anche le descrizioni della vegetazione post-nucleare; enciclopediche e assolutamente inventate e che ciò nonostante non sfuggono a quella stessa inspiegabile verosimiglianza di un polveroso manuale di botanica. Non esiste la malguardia, né la sciugada, non il cammin di sette leghe, o la sparvenella, la tartassina, la berlingotta, la prestincisa, eccetera eccetera (pag.22).

Veniamo ai personaggi. Il libro si apre seguendo tre soldati, due uomini e una donna, in fuga dalla Repubblica dell’Orbisia ormai ricaduta in mano dei capitalisti: Kronauer, Vassilissa Marachvili e Iliuchenko. Sono tutti moribondi, chi più chi meno. È Kronauer infine quello a cui il lettore finirà coll’affezionarsi come il principale protagonista del libro. Nel corso del suo peregrinare, Volodine non risparmia quasi nulla a Kronauer, a partire dall’incontro con altri personaggi memorabili e spaventosi. Su tutti naturalmente svetta Soliovei, il terrificante padre-padrone, nonché figura sciamanica di Terminus Radioso, il kolchoz in cui Kronauer troverà “rifugio”. Viene descritto così al suo primo incontro:

Era un uomo alto, barbuto, con l’aspetto ispido e corpulento di un eroe iracondo. (…) In altezza superava Kronauer di tutta la testa, e in larghezza i due uomini non erano minimamente paragonabili. Con una cassa toracica e delle spalle da lottatore, il ventre dagli addominali sporgenti, il presidente del kolchoz dava l’impressione di essere invincibile. Le sue iridi, di un colore fulvo ramato, invadevano lo spazio riservato al bianco dell’occhio – caratteristica, questa, osservabile in genere nei rapaci e molto spesso nei taumaturgi. (pag.95).

E poi l’immortale nonna Ugdul, la vestale improbabile nonché custode del reattore sprofondato nelle viscere della terra di Terminus Radioso; che tratta con le acque contaminate i moribondi e li riporta ad una parvenza di vita, che parla con la pila atomica, che la nutre di ferraglia, che ama ancora, forse…

Un momento significativo del libro è rappresentato dagli oscuri poemi di Soliovei: narrazioni aberranti e immaginifiche che vengono diffuse in ogni dove, anche dentro le teste delle persone, al punto che nessuno vi può sfuggire, nemmeno le figlie amate e odiate. Difficile scriverne; in più di un’occasione sembrano essere cantilenanti descrizioni (o proscrizioni) della vita a cui saranno condannati – o sono stati appena condannati – tutti i vivi, i morti e i né vivi né morti del romanzo.

Bardo Thodol, ho scoperto in un secondo momento, si può tradurre più o meno come “liberazione attraverso l’ascolto”. L’ho trovata un’ulteriore prova di come Volodine prenda dalla mistica tibetana solo il perimetro per liberare la sua poetica sconfinata, dato che le parole di Soliovei tutto sono tranne che salvifiche: sono torture insopportabili, strazi e sevizie.

Terminus Radioso è un libro assolutamente originale che affronta i temi della vita, della morte e il destino di un’umanità stanca in una chiave del tutto innovativa. Nulla a che vedere con il filone post-apocalittico che ad esempio si può trovare nelLa Strada mcchartiana o nelle società orwelliane. E’ sempre l’autore, nella stessa intervista già citata, che offre una chiave interpretativa ai suoi libri: un lungo cammino dal nulla verso il nulla, e in mezzo a questo nulla il tutto immaginabile.

Ogni singolo personaggio di Terminus Radioso si muove senza speranza nel mondo post-atomico del Bardo, nello spazio e nel tempo. Non c’è speranza nelle pianure divorate dal nucleare, nella civiltà diminuita e devastata in fuga da ogni dove; quel che capita a tutti i protagonisti è il tremendo monito. In tutto questo anche l’uomo, o quello che ne rimane nei secoli dei secoli, artefice come specie del suo destino, è condannato nelle sue singole emanazioni alla stessa fine degli isotopi: al totale annullamento fisico, mentale e linguistico.


Marco Quaglia è laureato in Relazioni Internazionali. Nel 2017 ha pubblicato insieme a Shareable.net un libro collettivo sul fenomeno delle città condivise “Sharing Cities: Activating the Urban Commons“. Cura un blog di letteratura.

Matteo:
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