illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Emanuele Conti
Secondo Alan Turing, inventore della macchina con cui gli Alleati decodificarono Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale, e formalmente inventore del computer, era possibile effettuare un test grazie al quale saremmo stati capaci di comprendere se fossimo in comunicazione con una persona in carne e ossa o con una macchina. Il test di Turing è stato riveduto e aggiornato più volte durante i decenni, ma il suo principio è sempre valido. Alla base del problema che ha portato Turing a formulare il suo test, c’è il cosiddetto gioco dell’imitazione. La macchina finge, simula, la realtà biologica.
La mimesis
Il cinema, gioco dell’imitazione già di per sé, e in particolare il cinema di fantascienza, è pieno, per non dire quasi colmo, di questo gioco dell’imitazione. Potremmo partire da Matrix, il film dei fratelli (ora sorelle) Wachowski, per andare a ritroso nel tempo passando per un cult come Blade Runner di Ridley Scott e giù fino ad arrivare ai primi del secolo scorso con Metropolis di Fritz Lang. Ma soprattutto a partire dagli anni Ottanta gli effetti speciali nel cinema iniziano sempre più prepotentemente a prendere il posto degli effetti visivi. Si dà vita così a quel gusto estetico secondo il quale l’irreale è accettato come più vero del reale. Nascono nuove aziende di servizi per lo spettacolo cinematografico e televisivo che puntano vertiginosamente verso quella direzione e per chi già esisteva (come la Industrial Light & Magic di George Lucas) gli investimenti nel campo della tecnologia per l’intrattenimento iniziano ad impegnare cifre con sempre più zeri. Sempre negli anni Ottanta, iniziano a diffondersi capillarmente i primi sistemi di intrattenimento elettronico da casa, le così dette console.
Dal film al gioco e dal gioco al film
Nel frattempo le software house che si specializzano nella produzioni di videogames iniziano a sviluppare e distribuire giochi tratti da film di successo, soprattutto film per ragazzi. Uno su tutti ovviamente Star Wars, da sempre marchio vincente in qualsiasi mercato. Per circa un ventennio, la situazione è abbastanza stabile, con il campo videoludico subordinato per qualità ed importanza a quello cinematografico.
Tutto inizia a destabilizzarsi quando questa tendenza si inverte. Fanno la loro comparsa sul grande schermo titoli originali per il campo videoludico come Tomb Rider o Resident Evil, enormi successi di vendita e su cui qualche produzione cinematografica tenta una strada quasi pionieristica. Quasi. Il processo infatti non è poi così diverso da quello che si era fatto fino a quel momento con il fumetto o il romanzo: acquistare i diritti di trasposizione di un’opera di grande successo in modo da creare un film avendo già una base di pubblico pagante garantita.
Il caso Final Fantasy.
Tentativo 1
Diversa storia invece per chi sviluppa videogiochi. Qualcuno pensa di uscire dal proprio guscio e provare a spiccare il volo in modo indipendente.
Per motivi che forse sono specifici della sua natura, la saga di Final Fantasy tra tutti era probabilmente quella più adatta per fare il grande salto. Il marchio garantisce, da un capitolo all’altro, determinati elementi nella narrazione ma soprattutto la caratteristica che ogni titolo è indipendente dal precedente. E questo porta a calcare diverse strade possibili.
Così nei primi anni Duemila, Square Enix si imbarca in un progetto oggi giudicato da molti pressoché folle: la produzione di un film, Final Fantasy: The Spirits Within, sviluppato completamente in grafica tridimensionale, senza attori né alcun altro elemento tipico di un film. Solo migliaia e migliaia d’ore di lavoro al computer da parte di tecnici specializzati in grafica 3D. Le pretese tecniche dell’opera sono altissime da tutti i punti di vista, i personaggi (almeno quelli principali) sono ispirati ad attori reali, tutto il contesto tenta di raggiungere un fotorealismo senza precedenti nonostante l’ambientazione futuristica; in pratica Square Enix tenta un’operazione mai vista prima: ricreare, tramite una macchina, persone, ambienti, mondi plausibili ai nostri sensi, tentando implicitamente di sfidare le opere cinematografiche convenzionali. I risultati al botteghino mostrano che, tutto sommato, il film non riscontra il successo sperato, tanto che Square Enix arriva quasi sull’orlo del fallimento. Ma non si arrendono.
Tentativo 2
Solo quattro anni dopo ripropongono lo stesso tipo di opera, questa volta però ridimensionando i propri obiettivi: Final Fantasy VII – Advent Children è un prodotto rivolto quasi esclusivamente ai videogiocatori. Narrativamente questo film è legato al videogame Final Fantasy VII essendone il seguito naturale. Il livello grafico è decisamente più alto rispetto al precedente del 2001 ma esteticamente e stilisticamente rimane legato a doppio filo al videogioco a cui dà seguito, rimanendo così a tutti gli effetti una costola di un altro prodotto, quasi impossibilitato a vivere di vita propria nonostante una distribuzione nelle sale cinematografiche di Giappone e Stati Uniti. Con questo film, un’operazione di sicuro meno rischiosa della precedente, sembra che Square Enix voglia chiudere qui. Ma non è così.
Tentativo 3
Nel 2016 esce Final Fantasy XV a cui viene affiancato un prodotto sì subordinato ma anche indipendente, il film Kingsglaive – Final Fantasy XV. Se non avete o non volete giocare a Final Fantasy XV ma volete vedere Kingsglaive o viceversa, di sicuro non perderete nulla. L’escamotage sta nel fatto di aver creato, questa volta, un film prequel per il gioco. Questo ha comportato la possibilità di creare personaggi inediti modellati sugli attori che li interpretano ma senza influire poi sulla fruibilità o meno del film da parte di tutti. Sembra poca cosa, ma non lo è. Si tratta di un tentativo sempre più ardito di unire due forme d’arte, di espressione narrativa, che da qualche anno a questa parte sono sostanzialmente sempre più simili: il progresso tecnologico nei motori grafici 3D ha aiutato tanto il cinema quanto i videogiochi. Nel cinema da circa vent’anni si è dato il là a produzioni di film con un uso sempre più massiccio di effetti speciali altamente realistici che portano ormai gli attori a recitare in enormi teatri di posa di color verde, che verrà poi sostituito in post produzione con ambienti creati digitalmente. E nel risultato finale non si nota alcuna differenza. Così anche nei videogiochi si sta puntando con un certo successo al sempre maggior realismo fotografico di personaggi e ambienti , come in The Last of Us o Quantum Break, e questo unito ad una narrazione sempre più elaborata rende il cinema e i videogiochi due mondi che tendono sempre più ad intersecarsi, se non quasi a sovrapporsi. La differenza tra le due arti in un prossimo futuro allora potrà semplicemente essere il modo in cui esse vengono fruite: il cinema come narrazione passiva mentre il videogioco come narrazione interattiva e pro attiva.
Un nuovo divismo?
Ma qual è il senso di questa operazione? Qual è il punto nel ricreare digitalmente attori ed ambienti? Tutto ciò non riguarda soltanto Final Fantasy. Prendiamo per esempio Beowulf di Robert Zemeckis. Beowulf è di fatto un film in costume dove non si nascondono in alcun modo i tratti fisici degli attori che interpretano i vari personaggi, anzi all’opposto si punta ad un iperrealismo che cerca di confondere lo spettatore sfidandolo a distinguere tra finto e reale (se c’è).
E se ciò portasse ad una sintetizzazione digitiale dell’attore e del ruolo che svolge? E se questa fosse la pista su cui calcare la via per un nuovo divismo cinematografico, non più statico come nelle foto delle star anni Cinquanta, ma interattivo e dinamico?
Emanuele Conti è laureato in Storia e Critica del Cinema, da diversi anni si interessa al mondo dell’entertainment multimediale. Ha collaborato alla realizzazione di alcuni video, è produttore esecutivo del documentario Splatter – La rivista proibita, lavora in una web radio ed è cofondatore di Globus.