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AUTORI DEL CONTEMPORANEO: DOLAN/PAWLIKOWSKI
17/07/2017|L'EVENTO

AUTORI DEL CONTEMPORANEO: DOLAN/PAWLIKOWSKI

AUTORI DEL CONTEMPORANEO: DOLAN/PAWLIKOWSKI
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis

L’autore cinematografico del XX secolo, della seconda metà del ‘900, aveva dei referenti precisi a cui fare appunto riferimento: per Buñuel il Surrealismo francese, per Bergman l’Espressionismo, per Losey il teatro epico brechtiano, per Fellini le teorie junghiane…
Nel caso dei cineasti del XXI secolo, una simile mappa è ancora tutta da tracciare.
La difficoltà è sicuramente maggiore, perché la cultura postmoderna è meno selettiva in fatto di poetiche e direttrici culturali. E poi, perché non dirlo, il “discorso critico” in tema di cinema e film si è fortemente frammentato, e la voce di dizionario o la video-recensione non sono propriamente gli spazi ideali per mappare il mondo artistico culturale di un autore.
Il discorso critico si è fatto, per forza di cose, prevalentemente impressionistico, e la direttrice abituale su cui indirizzare il giudizio rimane quella del cosiddetto meta-cinema.
Ovvero, l’autore cinematografico si spiega con la capacità di intervenire sul linguaggio delle immagini. Il che non è negativo. Anzi, anche con i cineasti precedentemente citati si è sovente proceduto così, l’immagine plastica di Bergman, quella archeologica di Losey, quella circense di Fellini.
Ma mentre tali riferimenti, negli autori XX secolo, erano anche funzionali a un discorso critico che si espandesse nello spazio artistico e culturale di teatro, pittura, letteratura, architettura ecc., oggi le indicazioni meta-cinematografiche si flettono prevalentemente su se stesse. Il piano-sequenza di László Nemes (per chi non ricordasse, l’autore de Il figlio di Saul) è alla fine dei conti nulla più, nulla meno, che il piano-sequenza di László Nemes. Una capacità tecnico-linguistica che si spiega in fondo da sola. E così, in fondo, nemmeno meta-cinema è.


Il paradosso è che là dove il cinema, nel XXI secolo, perde il suo carattere di testo chiuso e concluso, perché le circostanze di enunciazione del testo filmico stesso, dalla sala al computer, dal videofonino al tablet, aprono il film a modalità percettive irriducibili le une con le altre, il discorso critico si è come rinserrato su se stesso. Si è recintato preferibilmente nella descrizione e commento di immagini e suoni. Nel meta-cinema, o forse nemmeno questo, in altro, nel flusso audiovisivo.
Ma ciò è anche corretto e giusto. Il regime estetico delle immagini e dei suoni, più che il cinema, oggi, è precisamente questo, il flusso audiovisivo.
È indubbio che vedere un film sia un gesto assimilato ormai all’esperienza di leggere un libro. Il libro lo puoi leggere ovunque e comunque. E anche il film, nell’orizzonte tecnologico del XXI secolo, in fondo, lo puoi vedere ovunque e comunque. Flusso audiovisivo anche come flusso di lettura.
Questo ha influito sulle poetiche degli autori? Ciò ha inciso sul modo di fare film?
Innanzitutto, è possibile sostenere con qualche ragionevolezza, che la frequenza con cui si utilizza oggi la figura chiamata piano-sequenza, è forse figlia anche di tale panorama estetico-percettivo.
La percezione comune in fatto di immagini e suoni, oggi, è quella del video registrato tramite cellulare, ed è con ogni evidenza una percezione basata preferibilmente sulla inquadratura lunga e continua, ossia su quello che in gergo si dice il piano-sequenza.
L’ultimo film di Xavier Dolan, allora, È solo la fine del mondo (2016), sembra essere un film che smentisce tale abitudine percettiva, poiché è un film segmentato in una ricca dose di inquadrature finite.
C’è da chiedersi, allora, se il giudizio critico sul film di Dolan, non debba necessariamente fare riferimento anche alla trasgressione di tale abitudine percettiva.
Il piano-sequenza assente in Dolan, non è certo quello di Orson Welles o di Jean Renoir, ovvero quello dei grandi autori del XX secolo. La differenza tra l’autore secolo XXI e l’autore secolo XX è allora bene espressa, secondo noi, dall’esempio che segue:
Pawel Pawlikowski, autore del bellissimo Ida  (2012), la storia dell’incontro tra una giovane suora e la zia magistrato comunista nella Polonia nei primi anni ’60, alla domanda “Quali sono i vostri cineasti di riferimento?”, ha così risposto: “Non mi ispiro a dei registi, piuttosto a dei film. Io non sono abituato a fare del regista un feticcio. Io non amo per niente tutta l’opera di Tarkowski, ma potrei guardare Lo specchio centinaia di volte senza mai stancarmi. Ci sono tanti film magnifici, piuttosto che autori…”. (in “Positif”, février 2014, p. 20)
Questa è la differenza.

Mentre l’autore XX secolo era studiato dalla critica, ed era fonte di ispirazione per i colleghi nella complessità di tutta l’opera prodotta, oggi vige il principio enunciato da Pawlikowski: ciò che conta sono l’impatto emotivo di quel film in particolare, e anche l’effetto specifico di una singola sequenza.
Il discorso critico XX secolo, senza dubbio ideologico, arrivava sovente a sostenere che un “brutto” film di un grande autore fosse più importante, e anche paradossalmente più “bello”, di un film riuscito.
Perché? Perché nel “brutto” film era più facile individuare il dispositivo autoriale, ossia gli arnesi del mestiere al lavoro. Se il lavoro era mal riuscito, diventava allora più evidente il senso di “officina”, il carattere di “laboratorio” messo in atto dal cineasta, e quindi la poetica autoriale medesima si mostrava con maggiore chiarezza e nettezza. E questa sorta di aura del Maestro al lavoro, si trasformava immediatamente in “bellezza”.
E così, il film “brutto” dell’autore, clamorosamente, poteva essere giudicato ancora “più bello” di un film “bello”.
In breve, la vera, radicale differenza tra l’autore XX secolo e l’autore XXI secolo, è la seguente: l’autore del XX secolo è un autore di cinema; l’autore XXI secolo è un autore di film.
Pawlikowski lo ha detto esplicitamente. Il cinema di Tarkowski non mi piace, ma il film intitolato Lo specchio (sempre di Tarkowski) posso vederlo e rivederlo all’infinito.
È un atteggiamento più sano?
Immagino che molti lettori rispondano di sì.
L’autore è stata in fondo anche una figura ricattatoria. Nel XX secolo, qualcuno, in effetti, già segnalava il cosiddetto ricatto d’autore: tutto ciò che fa il cineasta X è bello, per il semplice fatto che è realizzato dal cineasta X.
Il discorso critico così impostato aveva i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.
Una volta stabilito il carattere autoriale di un cineasta, era più bello, e forse più facile, raccontare la sua opera, descrivere la sua poetica. Lo svantaggio era effettivamente quello di licenziare valutazioni molto positive su alcuni film che non avrebbero ben presto retto al trascorrere degli anni.
Questo regime argomentativo non è quasi più attivo nel discorso critico contemporaneo. Oggi, il film ha la meglio sull’autore.
Anche questo ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.
Si incorre in abbagli critici in misura inferiore, in meno sopravvalutazioni. Ma il film appare, in tutti i sensi, una monade. Qualcosa che non ha finestre. Che vale per il fatto di essere e funzionare soltanto come film. Il piano-sequenza di László Nemes è alla fine dei conti nulla più, nulla meno, che il piano-sequenza di László Nemes
Questo venir meno della dialettica cinema/film, che caratterizzava la cultura cinematografica del XX secolo, apre le porte a un successivo regime estetico, che abbiamo chiamato il regime dell’audiovisivo.
Torniamo al bellissimo film di Xavier Dolan (non a caso, premio alla regia a Cannes 2016) dal titolo È solo la fine del mondo, che non fa piani-sequenza.
Il nucleo famigliare messo in scena da Dolan, la madre, il figlio adulto, la moglie di lui, la sorella ragazza e l’altro figlio che ha deciso di vivere lontano, e torna per un pranzo perché è malato di AIDS, ma nessuno lo sa e anche lui non sa bene se deve o può dirlo, ebbene questo nucleo famigliare è un nucleo di personaggi mostrati come tanti telefoni cellulari
Sono figure audiovisive, i personaggi di Dolan. Immagine e suono a flusso, ma anche monadi senza finestre.
Ciascuno parla soprattutto di sé, ma rivolto spasmodicamente agli altri. Il fatto è che nessuno parla davvero con se stesso, perché l’interiorità appare una dimensione ormai contaminata irreparabilmente dalla comunicazione: tutti parlano agli altri di cose che hanno a che fare soltanto con se stessi. E quindi, la comunicazione è attiva, ma non comunica.


Qui sta il punto. Un tema simile, nel regime dell’audiovisivo contemporaneo avrebbe generalmente ispirato il ricorso alla figura del piano-sequenza. Il piano-sequenza, ovvero l’inquadratura che è anche ripresa, la più lunga possibile senza stacchi di montaggio, sarebbe stata la soluzione più immediata per mettere in immagini il concept del film.
Il concept, l’dea base di questo film è infatti la comunicazione, una comunicazione attiva ma anche chiusa su se stessa. Il piano-sequenza raffigura bene tutto questo: il piano-sequenza è infatti una inquadratura che si attiva in ripresa, ma non ha stacchi, non ha aperture all’Altro dall’inquadratura, non esce da sé.
Il concept del film è certamente la comunicazione, una comunicazione attiva, perché i personaggi non fanno che parlare: il film è tratto da una piéce teatrale, di Jean-Luc Lagarce, e se parlano senza parlarsi, allora si tratta di teatro di pinteriana ispirazione.
Dolan però non si limita ad eseguire il concept, ossia non cerca di semplicemente di rendere visibile l’idea di base del film, ma interviene sul linguaggio, ossia va a scardinare il concept: per esempio, quando, e cioè quasi sempre, non mostra i personaggi che parlano tra di loro, ma personaggi che parlano fuori di loro.
La scelta del primo-piano del personaggio parlante al posto del piano-sequenza raffigurante la conversazione nel suo complesso, fa sì che il personaggio sembri parlare sempre e comunque rivolto a un altrove irraggiungibile.
I personaggi di Dolan sono figure audiovisive che si rivolgono a un altrove irraggiungibile: non piani-sequenza, ma primi-piani. O meglio, un piano-sequenza virtuale di primi piani. In una parola, il cinema d’autore contemporaneo.
In tal modo il concept del film, l’idea-base, è ispirazione ma non fondamento del film stesso.
Il cinema contemporaneo dei trucchi ed effetti visivi, e sonori, dei super-eroi e delle serie o saghe fantasy, è invece proprio questo: l’esecuzione grafico-sonora del concept di base. E non solo: anche molta commedia, brillante o demenziale, e parecchio horror, oggi, sono film tutti compresi nel flusso audiovisivo del concept assunto, ed eseguito, più o meno diligentemente, in chiave grafico-sonora.
Dolan, in È solo la fine del mondo, non si accontenta di eseguire il concept, ma lo “mette in scena”, attraverso scelte di regia che vanno a cogliere il nucleo della contraddizione inscritto all’interno del concept stesso. I personaggi sono come quelli che parlano al telefonino, gente che si sbraccia e chiacchiera, senza che si veda la destinazione né dei gesti né delle parole. In breve, parole senza un altrove, che, se c’è (e l’altrove ci sta, ogni personaggio è infatti altrove rispetto all’altro) resta comunque irraggiungibile.
Se l’esecuzione del concept audiovisivo avrebbe posto come soluzione naturale l’uso del piano-sequenza, la scelta di regia seleziona invece la cifra stilistica opposta, l’inquadratura in primo-piano.

      
È una scelta di cinema, all’interno del concept audiovisivo del film. Il piano-sequenza sarebbe stato semplicemente (il che non è a priori negativo) la traduzione del concept  pre-visto nella storia da narrare.
La scelta del primo-piano, invece, diventa la decontestualizzazione, lo straniamento, il detournement del concept audiovisivo di partenza in una produzione stilistica che mira ancora all’autonomia del linguaggio cinematografico da ogni evaporazione di flusso.
Siamo allora ancora legati al cinema del XX secolo?
Bè, in fondo, sarebbe assurdo il contrario.
L’autore XXI secolo, a ben guardare, si trova ancora sospeso tra la dimensione del cinema che c’è stato, e dell’audiovisivo che c’è adesso.
O almeno, a chi produce discorso critico questi sembrano i casi più interessanti. Ossia, i casi che non stabiliscono una demarcazione netta, in funzione del regime estetico vigente, ma conducono la propria ispirazione in transito tra le due sfere di rappresentazione e messa in scena.
Lo stesso Pawlikowski di Ida, già nella scelta della fotografia in bianco e nero, denunciava in fondo il proprio carattere stilistico ancora in transito tra le sfere del cinema e dell’audiovisivo.

Ida è certamente un film-flusso di immagini audio e di immagini visive, ma è anche un film talmente fotografico, il bianco e nero, il taglio netto dell’inquadratura, l’uso plastico della luce, che è l’audiovisivo stesso a sospendersi in blocco nella densità tutta cinematografica del quadro.


Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.

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