illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Matteo Sarlo
Charlize Theron è un’Atomic B(l)onde incaricata di recuperare una lista di agenti sotto copertura. Uno 007 al femmnile che è un esempio di montaggio in funzione della narrazione.
Sarà meglio dirlo subito: Atomic Blonde è un gigantesco MacGuffin, per dirla con Alfred Hitchcock. È il 1989 e siamo a Berlino. Nemmeno a dirlo: Regan/Gorbaciov, CIA/KGB, il muro. Tutti gli elementi di quella tendenza, secondo alcuni coniata dallo scrittore Thomas Brussig, che va sotto il nome di Ostalgie.
C’è una lista di agenti sotto copertura che deve essere protetta e c’è un agente del M.I.6, Lorraine Broughton (Charlize Theron), incaricata di recuperarla. E fin qui, classica spy-story pulita pulita.
C’è un innesco e c’è lo sviluppo. In altre parole stiamo a quello che potremmo chiamare McGuffin standard, qualcosa come la valigetta di Pulp Fiction per intenderci, quel combustibile della narrazione che è di vitale importanza per i personaggi dell’intreccio ma che tu non arriverai mai a conoscere. Allert: la parola orribile da non usare mai in questo contesto è espediente.
L’incipit del film presenta allora il primo MacGuffin, l’omicidio di Gascoigne. Ecco, Gascoigne funziona più o meno come una matrioska: è esso stesso un MacGuffin, perché lo seguiremo per tutto il film senza cavarne un soldo e perché contiene l’altro enorme MacGuffin, la lista. Charlize Theron è incaricata di esfiltrare un agente della Stasi (Eddi Marsan), nome in codice Spyglass, che ha memorizzato la lista. Ad aiutarla un collega inglese (James McAvoy).
L’intero film s’imperna su questo innesco narrativo, di cruciale importanza per chiunque nello schermo ma per nessuno al di fuori (cioè noi che lo guardiamo). Eccolo, uno dei due motivi per cui Atomic Blonde è un gran film. Perché Atomic Blonde riesce ad essere una enorme metonimia della lista: un MacGuffin 1 (Gascogne) che contiene un MacGuffin 2 (la lista) narrato nella forma di un gigantesco MacGuffin 3 (Atomic Blonde). E tu stai lì, incollato a seguire ogni passaggio, attento a non lasciarti sfuggire ogni indizio, senza sapere che tutto questo non ti porterà assolutamente a nulla. E lo dico in senso buono, è ovvio.
L’altro motivo è che Atomic Blonde è un capolavoro di montaggio in funzione della narrazione. E qui il twist: l’intero film è in realtà un flashback costruito in montaggio alternato con le scene dell’interrogatorio a cui Toby Jones (il suo superiore) e John Goodman (della CIA) sottopongono, ex post, Charlize Theron. Il meccanismo narrativo quindi si basa su un presupposto, tenuto strettamente nascosto: tutto quello che vedi non è la verità, tutto quello che vedi è il racconto di Charlize Theron in quella stanza. La polarità Verità/Menzogna sarà al centro di una “accesa” discussione tra Theron e McAvoy.
Ci sono scene d’azione al confine con l’arte marziale e ci sono sparatorie che ricordano il più classico James Bond, che non sembra avere niente di meglio di Lorraine, anzi semmai una “l” di meno. L’interpretazione di Charlize Theron è da lasciare senza fiato. Ma il punto è un altro. Il fatto che il montaggio di Atomic Blonde è completamente fuso con la trama. Perché qui il taglio delle scene, come il loro accostamento, è una forma di trasmissione di informazioni. Esplicita e subliminale al tempo stesso. In un certo senso, la vera talpa è il regista.
E in effetti la forma del film è quella del nastro che viene riavvolto dalla fine.
Il bello? Tutto ciò è vissuto senza che te ne renda conto, perché il film esibisce sotto il tuo naso questo presupposto, cioè che gli eventi narrati non sono quelli usciti dalla bocca di un narratore onnisciente, e quindi salvi dal dubbio, ma sono quelli che escono fuori dalla narrazione di un protagonista che utilizza il proprio racconto in funzione della sua verità interna all’intreccio. Per giunta in una spy-story. Ma questo non vale soltanto perché siamo all’interno di un film di genere.
Diceva Walter Benjamin di Eugene Atget che ogni sua fotografia era la scena di un delitto. Ecco, qualcosa di analogo vale per il cinema. Ogni film è la ricostruzione di un detective. Cosa distingue il cinema dalla letteratura, dal teatro, dalla fotografia? Esattamente una cosa: il montaggio. Uno che lo fa da dio è Danny Boyle, per esempio. Il montaggio, non la sceneggiatura (nessuna scena arriverà mai ad una pagina di Fitzgerald), non l’inquadratura (alcune scene possono essere a livello dei grandissimi fotografi ma non ne costituiscono il genere), non la performance attoriale (vale qui quanto detto per la fotografia: attori di cinema possono arrivare, o anche superare, grandi attori teatrali ma la loro performance non costituisce la novità del cinema).
Tutto qui, è soltanto una questione di avvicinare e allontanare scene. È più difficile di quello che sembra. Ma se lo sai fare, se lo sai fare fai cinema.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).