«What a disgrace is it to me to remember thy name, or to know thy face tomorrow»
illustrazione di Matteo Sarlo parole di Luciano De Fiore
Una ventina di anni fa, Javier Marías aveva stretto tre storie nel nome di un volto ricordato e dimenticato: tu rostro mañana. Che pena ricordare il tuo volto domani. Così il Principe di Galles, figlio del Re e futuro Enrico V, a Edward Poins, gentiluomo al suo servizio (siamo nell’Enrico IV). Il Principe si vergogna della propria intimità con gente come Poins e l’amico Falstaff: ora che è chiamato alla Corona, si pente di aver dissipato la propria giovinezza, spartendo dimestichezze inutili con i compagni di bevute. Nel più recente romanzo dello scrittore spagnolo tornano da quella trilogia – oltre alla consueta ispirazione shakespeariana – l’ispanista oxoniense Peter Wheeler e il torbido reclutatore Bertram Tupra, entrambi legati alle agenzie di secret intelligence al servizio della Corona. Stavolta, nella loro rete – che è poi quella del fato, della nemesi – cade un giovane e brillante studente ad Oxford, Tomás Nevinson, per metà inglese e per l’altra spagnolo, amore di una vita della protagonista Berta Isla che dà il titolo al romanzo. Con la quale vivrà, insieme ma dandosi le spalle, riassume Berta all’inizio della storia. Spartendo un destino, più che la vita. Un destino di segretezza e di rinunce. Soprattutto a conoscersi fino in fondo: Tom vivrà nell’assoluta mancanza d’introspezione, farà quello che deve e basta. Berta, dedicando ogni proprio pensiero al marito troppo presto assente, finisce con il dimenticarsi, con il dare le spalle a sé stessa prima ancora che a Tomás, non indagando le ragioni dei propri comportamenti, dell’arbitrarietà delle proprie scelte. E quando lui sembra sparire nel nulla, e non più tornare, sopravvive per dodici lunghi anni dedicandosi ai due figli ma, anzitutto, fantasticando sul marito: e non è neppure un ricordo, perché la memoria slabbra i contorni, insinua il dubbio che col tempo il volto di lui, domani, si trasformi, divenendo irriconoscibile. Così come sarà, alla fine. Basta che uno esca da una porta perché la sua immagine inizi a sfumare, basta smettere di vedere per non vedere più nulla. Non funzionano neppure gli appigli più classici, come l’album fotografico o i sogni, maestri anzi nel confondere le diverse piste della realtà, i corpi con i loro fantasmi. Se è vero che «chi si abitua a vivere nell’attesa non ne accetta mai del tutto la fine», Berta impara anche a proprie spese che «quando è passato troppo tempo nessuno dovrebbe tornare». Di lei, non possiamo non immaginare almeno il volto, intenso e misterioso, suggerito dalla foto di copertina, eguale nell’originale spagnolo e nella traduzione italiana, uno scatto del fotografo belga Quentin De Briey. Siamo a Madrid, e a Oxford. Ma anche a Belfàst, con l’accento sull’ultima sillaba, all’irlandese; a Buenos Aires durante la guerra per le Falkland; nella Berlino del muro; nel paese basco dell’ETA. Si attraversano gli scenari più conflittuali degli anni Settanta e si entra poi nei primi Ottanta: la Spagna festeggia il passaggio dal franchismo alla democrazia e l’occidente inaugura il decennio del proprio trionfo gettando le basi del thatcherismo in Inghilterra e del reaganismo in America. Brinda con una guerra stupida e spietata in un angolo australe di mare, contendendo alla Dittatura argentina le Malvinas. In apparenza, dunque, accadono fatti. Specie nell’ombra: anzi, sono quelli ad esser destinati ad influire un minimo sulle sorti del mondo, quelli spesi segretamente nella difesa del Regno, di qualunque regno si tratti. Altrimenti, nella sostanza, meglio rendersi conto che «l’universo influisce su tutti noi senza che ci sia possibile intervenire né restituirgli un solo graffio». Ed è proprio allora, appena tramontato lo spirito libertario del Sessantotto, che la vita presenta un primo, salatissimo conto a Tomás: c’è un momento – sostiene da sempre lo scrittore spagnolo – in cui inizia il male, si origina la piaga. E il romanzo accompagna l’incancrenirsi della ferita, il contagio che ne subisce Berta, la moglie. Trentacinque anni fa: un mondo senza smartphone, pre-social. Per entrare in contatto, ci si scrive, oppure si telefona con mille difficoltà. L’ostentazione attuale dell’immagine, la profusione narcinista del sé sono di là da venire. In questo mondo nel quale ancora la comunicazione non spadroneggia, a Tomás viene richiesta un’ulteriore rinuncia: eclissarsi, sfumando del tutto la propria soggettività fino a perdersi in un teatro nascosto e segreto di agguati e contrasti, di incontri insensati anche quando non fugaci, di mestieri cui ci si dedica senza passione e senza badare al domani. In fondo, accettandosi così per quel che comunque si è, nella vita: an outcast of the universe, un reietto dell’universo. Il destino di tutti, al fondo. Ma lui, in aggiunta, non potrà mai lamentarsene, né vantarsi di una qualche azione, di un proprio “successo”. Non potrà scrivere né telefonare a nessuno, men che meno a Berta o ai genitori. Non potrà “farsi vivo”, come suol dirsi. Quindi, col tempo, sarà considerato, e lui stesso si considererà, morto. Però, anche i morti ritornano, non foss’altro che per dire ciò per cui «non trovavano parole, da vivi», e che da morti invece ci possono dire. Tornano, come cenere sulla manica di un vecchio – dice Marías, e l’ipotesto qui è lo Eliot di Little Gidding, saccheggiato per questo romanzo che ne è come un approfondito, ispirato e al contempo manierato commento. Ma perché Tomás dovrebbe accettare il male, e con esso acconsentire a scomparire, vivendo due vite di cui la prima, breve e pubblica, quella con Berta e i figli, solo in attesa dell’altra? Perché il caso lo ha posto di fronte a una decisione, e lui ha scelto di esser schiavo della paura. Da un giorno preciso, in cui un avvenimento si è rivelato per lui ingovernabile. È quel «giorno che avresti dovuto evitare», mentre scopri che «non c’è modo di indovinare il giorno della maledizione, del patibolo e del fuoco, della gola del mare, il giorno che manda all’aria ogni cosa». Tomás può solo ripetersi il verso di Eliot affidato stavolta ad Alfred Prufrock: And in short, I was afraid. Se ci si consegna alla paura, «se non fai un passo di lato, questa sarà la sintesi della tua vita, questo verso. E la paura non guarda in faccia a nessuno, non si ferma a riflettere su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è proporzionato o sproporzionato, sui crimini, sulle conseguenze, e di certo non le importa nulla della giustizia». Da quel giorno, il segreto diviene il fondamento e la regola di una vita in cui Tom non può più decidere ciò che vuole, né può esser fedele al proprio desiderio. Anzi, «i desideri devono essere mitigati, sopiti, quando la sorte è segnata e non si sceglie con la libertà. In un certo senso, non hanno più posto». This is the death of air, questa è la morte dell’aria: come se questa non circolasse più, come se l’universo fosse ormai asfittico e fermo. Tomás baratta la propria vita da libero ma nel terrore, con una sopravvivenza vuota di senso, in cui «non c’è differenza tra il prima e il dopo. Quando non si è fatta una cosa non la si è fatta e anche dopo, non la si è fatta lo stesso, quindi tutto rimane com’era, perfettamente uguale a prima. Nemmeno durante il durante la si fa o, per meglio dire, non la si fa». L’angoscia domina comunque, sia che si scelga la libertà, sia che vi si rinunzi. Anche perciò, il romanzo si svela essere una forma di riconoscimento, e non di conoscenza. Lascia comprendere quanto tenace possa essere comunque l’amore, quanto forte il vincolo nel tempo, ma quanto sfaldati e incerti possano essere i contorni di noi stessi e di chi amiamo senza mai conoscere fino in fondo, e senza mai riconoscerci fino in fondo. Il troppo presto può coincidere con il troppo tardi. C’è spesso un inizio, quasi mai si mette un punto. Se ne accorge anche Tomás: «E così non vidi mai la polvere sospesa nell’aria, che secondo Eliot indica il punto in cui finisce una storia».Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.