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    Categories: L'EVENTO

’68 di Carta

illustrazione di Chabacolors
parole di Luciano De Fiore
Cinquanta anni dopo il ’68. Un anno inaugurato dal massacro di My Lai, dal terreremoto del Belice e dall’assassinio di Martin Luther King prima  e  Robert Kennedy poi. Così l’America prova a rifltterci e Cormac McCarthy pubblica Other Dark e Tom Wolfe The Electric Kool-Aid Acid Test. Poi c’è chi guarda in alto, per non fermarsi sullo schifo in basso. Allora Philip K. Dick scrive Do Androids Dream of Elecrtic Sheep? e Arthur C. Clarke il suo 2001: A Space Odissey. Eccolo il ’68, attraverso la sua stessa narrazione.

Cinquanta anni, e li dimostra. Questa età affranta, penosa, piena di lividi e illividita. Cinquanta da allora, da quell’altra primavera. Dal Maggio, di Berkeley e Parigi, e nostro. Il 1° marzo del ’68, a Valle Giulia, 148 feriti tra polizia e carabinieri e 478 tra gli studenti. Pasolini ci scrive sopra di getto per “Nuovi Argomenti”, ma lo pubblicano su “L’Espresso”: gli studenti menano male, picchiano quegli sbagliati. Avrebbero dovuto prendersela ben prima con il PCI, invece che con i poliziotti. Avrebbero dovuto occupare le sezioni del Partito Comunista, per cambiarlo, ammodernarlo. Aprire le finestre delle cellule, cambiare l’aria. Scontri, incomprensioni, ritardi: anche allora. Però, in quella rabbia si percepiva un qualche senso. Più di un senso. Ragioni e sragioni stavano da una parte e dall’altra. Oggi, invece? Il rancore serpeggia ed esplode in base alla violenza percepita. Meglio non dimenticare che il 98% del nostro pensiero è inconscio. Il che vuol dire che il nostro pensare è per lo più riflesso, nel senso di automatico, incontrollato. Riflesso [reflexive] così come si dice del riflesso di un ginocchio quando è colpito dal martelletto. Il pensiero conscio è invece riflessivo-riflettente [reflective], come quando ci si guarda in uno specchio. E allora, diminuiscono i reati, gli assassini, gli stupri? Chissenefrega: i dati di realtà non contano nulla, vale solo quel che passa a fior di pelle e che viene fatto creder vero, la narrazione. La ragione è forse consapevole, letterale, logica, universale, non emotiva, disincarnata e al servizio dell’interesse proprio? Neppure per idea: come anche le scienze cognitive e neurologiche hanno dimostrato, quest’idea di ragione è falsa.

Era meglio cinquant’anni fa? No, ovviamente. In Vietnam l’anno è inaugurato dal massacro di My Lai. Poi il terremoto squassa il Belice. Negli Stati Uniti prima cade a fucilate il Reverendo King e poi il candidato democratico alla presidenza, Robert Kennedy, mentre i carrarmati del Patto di Varsavia invadono e stroncano la Primavera di Praga. Nel nostro piccolo, ad Avola la polizia spara sui braccianti in sciopero, ammazzandone due e ferendone oltre cinquanta.
Il rimpianto, quasi sempre, non ha senso.
Nel ’68, il mondo è impegnato, come sempre, ad azzuffarsi. C’è chi trova modo anche di riflettere e scrivere. L’anno dopo infatti sarebbero usciti titoli-segnavia, come Il lamento di Portnoy (Philip Roth), Mattatoio n°5 (Kurt Vonnegut), Andromeda (Michael Crichton), Conversazione nella cattedrale (Mario Vargas Llosa) o Il padrino (Mario Puzo). Grandi scritture. Colme di interrogativi nuovi: «Allora (tisse il Tottore). Forze adesso potremmo incomingiare, sì?»
In quella primavera, invece, escono solo alcuni romanzi significativi. C’era il buio, fuori (Outer Dark, secondo romanzo di un prossimo grande scrittore, Cormac McCarthy). Tom Wolfe (The Electric Kool-Aid Acid Test), lui c’era: taccuino in mano, LSD no grazie, ma nulla gli sfugge del mondo psichedelico e sfatto di Ken Kesey e dei suoi Merry Pranksters, intenti a trascinare l’America sulla via (della rimozione) hippie. C’era anche Norman Mailer che col suo Armies of the Night spalanca un genere.
Chi non voleva guardare in basso, allo schifo di un’America assassina e imperialista, alzava gli occhi al cielo, al futuro, alla fantascienza. Come quel grande mezzo matto di Philip K. Dick: le sue pecore elettriche avevano ormai saltato il recinto (Do Androids Dream of Electric Sheep?), la sua spinta creativa era al vertice – l’anno dopo uscirà anche Ubik. Mentre 2001: A Space Odyssey del britannico Arthur C. Clarke scuoteva immediatamente l’immaginazione geniale di Stanley Kubrik. Altre voci d’America sceglievano toni più bassi per mormorare il proprio dissenso, tra il pruriginoso di John Updike (Coppie) e il satirico (Myra Breckinridge, di Gore Vidal).
Intanto, entrava in occidente il vento del mondo. Da est, Neve di primavera di Yukio Mishima e Il primo cerchio di Aleksandr Solženicyn, che insieme ai diari del Che in Bolivia chiudeva un’epoca proprio mentre se ne apriva un’altra. Di cui scriveva in termini accorati, ma ricchi di speranza, Paulo Freire (Pedagogia degli oppressi), voce del sud del pianeta, in sintonia con l’enciclica Humanae Vitae con cui Paolo VI aveva aperto alle coscienze della modernità ancora nello spirito Conciliare. Il Nobel per la letteratura andava a un giapponese, Yasunari Kawabata, allora come oggi (Kazuo Ishiguro).
Ma “Il Maggio”, par excellence? Parigi lo festeggiava con L’opera al nero, di Marguerite Yourcenar, ma soprattutto iniziavano a circolare Il sistema degli oggetti di Jean Baudrillard e due opere centrali di Gilles Deleuze: Différence e Répetition e Spinoza et le problème de l’expression. Nel mentre, l’Italia filosofica veniva conquistata dalla traduzione di Pietro Chiodi di Sentieri interrotti, di Heidegger.
Nel resto d’Europa, erano destinati a restare Le voci di Marrakesh, di Elias Canetti, e due importanti romanzi italiani: Il partigiano Johnny, opera postuma di Beppe Fenoglio, e il malinconico L’airone, di Giorgio Bassani.
A Venezia, il vecchio Ezra Pound scrive l’ultimo, il centosedicesimo, dei suoi Cantos. Che chiude così:

Ammettere l’errore e tenere al giusto: | Carità talvolta io l’ebbi, | non riesco a farla fluire. | Un po’ di luce, come un barlume| ci riconduca allo splendore.

Cinquant’anni. Si sentono tutti.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

Matteo:
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