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X-Factor e le “chiese assassinate”. Per una nuova teologia del Talent Show

illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo
Cosa determina il successo di X-Factor? Quale esigenza sta al fondo di questa unilaterale adesione che attraversa tutte le età e tutti i ceti sociali? Analisi di un format da 1.3 milioni di telespettatori a settimana

Nel mondo come spettacolo e rappresentazione, per dirla alla Schopenhauer incrociato con Guy Debord, X-Factor rappresenta l’estensione più estrema di quell’intuizione sulle masse come ornamento in cui Siegfried Kracauer sintetizzava quel nuovo tipo di divertimento che proviene dallo schermo. Divertimento, di certo. Perché X-Factor rimane un format con i tempi giusti, i giudici giusti, il presentatore giusto e, quasi quasi me ne dimenticavo, l’art director giusto – non esiste X-Factor senza un bel complimento a Luca Tommassini, mi spiace.
Ma il vero punto è un altro. Cosa determina il successo di X-Factor? Quale esigenza sta al fondo di questa unilaterale adesione che attraversa tutte le età e tutti i ceti sociali?
Verrebbe da dire: la società dello spettacolo. Quindi appunto, Guy Debord, il potere del brand. Ma il fatto è che oggi siamo oltre il passaggio dal mondo teatrale alla realtà sociale. E allora il punto che segna X-Factor è un altro, ed è eminentemente proustiano. Quello delle “chiese assassinate”, cioè la distruzione dei luoghi sacrali.

Massa ammassata Vs Massa suddivisa
Il passaggio è quello, in buona sostanza, dallo stadio a Mediaset Premium – o Sky, non cambia poi così tanto. Se la vogliamo mettere giù diversamente: dalla sala del cinema a Netflix. In una formula allora la possiamo ridurre in questo modo: viviamo nell’epoca degli eremiti casalinghi. Meglio chiarirlo: non che le cose siano davvero legate. No, non fa tutto parte di un piano ordito dal Palazzo con la p maiuscola, con buona pace per i complottisti e gli amanti della contro-cultura. Quel che si riscontra è piuttosto una tendenza, antropologico-fisolosofica. Lo slittamento è quello tutto andersiano tra la massa ammassata (quella del teatro) e la massa suddivisa (quella della televisione). Cioè il passaggio che toglie al popolo l’evento – già brandizzato, sia chiaro, quindi già occultato e “vestito” di innocenza: siamo lontani dalla primigenia fruizione dello Show nei puri termini della sola “adesione” – per offrirgli l’immagine dell’evento. Ed è il motivo del passaggio ad essere paradossale. Non per rinunciare al mondo ma per non perdere nemmeno una briciola di quel mondo: più telecamere, più close-up, più grandangoli, perché la partita insomma la vedi meglio a casa che allo stadio.

Die Verwandlung: il televoto
Notoriamente quel che investe questo tipo di fruizione è una trasformazione non solo dello spettacolo, pensato in funzione della partecipazione a distanza ma dello  spettatore stesso, che subisce quella che Kafka avrebbe chiamato una Verwandlung, una vera e propria «metamoforsi». È chiaro, non prendetela alla lettera, d’altronde lo scarafaggio in copertina non ce lo voleva nemmeno Kafka.

La cosa bella? Tutto ciò è vissuto come un divertimento. Ti diverti a vedere cosa hanno scelto i giudici e a commentare che no, tu Miserere a Lorenzo Licitra non l’avresti mai data e che il singolo di Rita Bellanza, nonostante la ghigliottina mediatica che ha portato questa giovane ragazza ad essere la miglior interprete sulla scena italiana dopo Fiorella Mannoia a quella che sì ha pure un bel timbro ma alle note proprio non ci arriva, funziona davvero tantissimo. Certo però Nigiotti sembra nato con la chitarra in mano e i Måneskin, beh i Måneskin sono di un altro pianeta che cantano Beggin meglio dei Madcon e che pure se fanno una lapdance in pubblico diventa il motivo per votarli il giorno dopo.
Votarli, già. Perché lo strumentario per questa metamorfosi parte dalla scelta, notoriamente l’atto che più fortifica la propria soggettività, che più sancisce la distanza tra il sé e il mondo fuori di sé, quello che impone la propria identità per distinguersi dal resto, diventa la bacchetta magica che a suon di dieci voti per dispositivo “cosifica”, oggettivizza, lo spettatore.

Tra Talent e Reality: la necessità del racconto
Ma allora perché subire tutto ciò? Perché non ne siamo consapevoli: troppo facile e affrettato. Non è tanto che non ce ne si renda conto. In parte, può darsi. Ma non è tutto qui.
Intanto c’è da premettere una cosa. Il fatto che X-Factor funziona come le patatine, inizi a vederne una e non puoi più smettere. Perché? Perché ha trovato il perfetto equilibrio tra tecnica e umanesimo. O per dirla più prosaicamente, tra Talent e Reality. Per dirla invece in termini puramente televisivi, X-Factor è la sintesi perfetta tra Maria De Filppi e Carlo Cracco, cioè tra il pieno racconto di C’è posta per te e le lezioni di cucina di Masterchef. Ci sono i Vocal Coach, ci sono le assegnazioni e ci sono le prove ma c’è anche la casa. Non vedi gran che, per la verità. Né della casa né delle prove. Il tutto è affidato ai daily – trasmessi in un orario impossibile intorno alle 19.30. Ma è proprio qui il punto: non vedi tanto né dell’uno né dell’altro.

Ma tanto quanto basta per essere un giudice a tua volta, per godere del lato del “commento” e per capire qualcosa di più di quei ragazzi – dai ragazzini di sedici anni al più a quelli di trenta – e tanto per sbirciare il loro racconto dietro la performance. Essere quello che in fondo l’ha capito di più o prima degli altri che Damiano dei Måneskin, dietro l’aria da rocker maledetto, ha anche una vocalità fuori dal comune. Che Lorenzo Licitra deve cantare Million Reasons e non Pavarotti e che solo così potrà diventare una star del pop e emanciparsi da quell’immagine di se stesso che anni prima proprio non sopportava: venti chili in più e tutta un’aria da tenore perfetto.
Ecco, qualcosa che quindi assurge a quella che potremmo chiamare la “necessità del racconto”. Intendiamoci, è una roba che può andare solo in televisione. È un racconto confezionato per le telecamere e per la poltrona di casa. Breve, retorico, con colpi di scena prevedibili. Ma funziona da matti.

La nuova Teologia: TV-Show Vs World Wide Web
È evidente allora come tutto ciò imponga una riconfigurazione della fruizione della performance musicale. Perché oggi ai concerti si va meno che dieci anni fa. A Milano sono addirittura meno che a Roma. Come gli stadi? Sì come gli stadi. Colpa della crisi e del costo dei biglietti, può essere. Ma il fatto è che questo meccanismo si ripete anche per il cinema, e otto euro non sono i sessanta di un concerto. Il punto è quel che scriveva Proust: la chiesa assassinata. Perché quel che sta accadendo è un accentramento dello spettacolo sull’Home Video.

La prima conseguenza è la perdita di valore sacrale di quei luoghi deputati alla visione (collettiva): lo stadio, il cinema, il concerto. Non è tanto di stabilire se sia un bene o un male, sic est.
Il punto è un altro: nell’epoca del dominio del Web, dell’apparente scomparsa della televisione come intrattenimento, di una diversa temporalità del tutto eternamente disponibile per il download, questi appuntamenti del giovedì, come anche le partite nel weekend, sono le briciole di una rinnovata laica ritualità che, seppure elimina il luogo, ne conserva almeno l’unicità temporale. È chiaro puoi vederti una puntata in replica come anche ogni partita, ma 1) devi andartene a vivere dall’altra parte del mondo per essere al riparo da spoiler 2) non ha proprio senso, la performance di entrambe funziona soltanto in quanto diretta, temporalmente segnata nell’istante dell’accadimento.
L’alternativa è l’eternità del Web, perfetta antitesi della “chiesa”. La domanda rimane aperta: a chi vogliamo affidare la costruzione della prossima nuova teologia?


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).

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