Che cosa vuol dire essere Vegani? Uscire dal moralismo e fare propria la lezione di Orazio, per imparare che c’è una misura nella vita oltre la quale non può esserci il giusto.
Da qualche anno non faccio più colazione con cappuccino e cornetto, quando sono a casa non mangio biscotti, evito anche di mangiare carne, affettati, pesce, uova e tutti i prodotti che contengono miele. Quando qualcuno solleva quesiti sulla mia dieta rispondo lapidaria: «Sono vegana»
Non aggiungo altro e se riesco cambio discorso. Molte volte mi viene detto che sono piuttosto atipica come vegana, mi viene detto: “Quando si mangia con te ci si scorda che sei vegana!” Quello che mi viene riconosciuto è un atteggiamento che non posso disconoscere e che tuttavia è per me oggetto di una costante e profonda riflessione. Spesso infatti, soprattutto all’interno della comunità vegan il proselitismo è visto come una componente fondamentale: chi non fa proselitismo è un vegano a metà. In realtà sebbene sia normale che l’essere umano dia nomi a cose o a fenomeni, ho a volte delle remore nel definirmi vegana. Di norma il vegano viene identificato come colui che decide, per varie ragioni, di non consumare nella propria dieta prodotti animali o di origine animale. In realtà il movimento vegano ha degli obiettivi più complessi e di più ampio respiro che si estendono al tentativo di realizzare uno stile di vita che si astenga – a ogni suo livello costitutivo – dallo sfruttamento di qualsiasi specie animale. Il vegano non dovrebbe, ad esempio, indossare indumenti di lana, utilizzare prodotti cosmetici o per la casa che siano stati testati sugli animali, usufruire di medicinali realizzati tramite la sperimentazione su cavie animali e via dicendo fino ad arrivare al boicottaggio degli eventi ricreativi basati sull’impiego di animali. Non solo, dovrebbe fare o non fare tutto questo cercando di mantenere un atteggiamento che sia quanto più possibile non violento e rispettoso del pianeta. In un mercato globale regolato da una logica capitalistica come il nostro è quanto di più difficile si possa pensare di fare. E’ un percorso lungo, impervio, che viene spesso ostacolato. Può anche essere un progetto rischioso se non viene portato avanti con coscienza e intelligenza.
E’ facile scivolare nel banale
Affermare che la scelta vegana sia una scelta non solo etica, ma anche salutare è obiettivamente quantomeno dubbioso. Affermare che sia una scelta etica migliore è molto presuntuoso. Combattere una crociata ogni volta che qualcuno si mangia un panino con il prosciutto è senza ombra di dubbio fastidioso. Pubblicare costantemente video che mostrino le crudeltà che hanno luogo negli allevamenti intensivi può risultare di cattivo gusto. Di contro, il problema posto dall’esistenza di queste tipologie di allevamenti non può essere liquidato per il semplice fatto che non è presente alla nostra attenzione nel quotidiano. Come non è corretto considerare ogni vegano un fissato, un ipocrita, o peggio ancora uno che segue una moda tra le altre. Evitando di ripercorrere tanto le argomentazioni onnivore quanto quelle vegane, che si aggrovigliano sullo sfondo contemporaneo di una post-verità che si dirama in un orizzonte di senso in cui leggere qualcosa su Wikipedia equivale al possedere una laurea, vorrei riflettere su alcune argomentazioni che spero possano nella loro paradossalità pungolare le convinzioni della comunità onnivora e, allo stesso tempo, ridimensionare il dilagante moralismo vegano.
L’agente del cambiamento
Nonostante esistano molti saggi, ben strutturati, di carattere filosofico, antropologico e sociologico incentrati sulle tematiche antispeciste care all’universo vegano e animalista, il testo che si è rivelato essere nella mia esperienza il principale agente di cambiamento è The Lives of Animals (La vita degli animali) di J.M. Coetzee, scrittore sudafricano vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 2003.
Il testo è diviso in due racconti incentrati sul tema dei diritti animali e presentati al pubblico per la prima volta dallo stesso autore durante due conferenze, le Tanner Lectures, tenutesi alla Princeton University nel 1997. Il soggetto di questo meta-scritto è l’autrice australiana Elizabeth Costello, immaginaria alter-ego di Coetzee, che, chiamata come ospite a tenere due conferenze all’Appleton College, decide di affrontare la problematica della sofferenza animale piuttosto che parlare, come sarebbe stato prevedibile, di letteratura o di critica letteraria. Il testo ha un valore tanto filosofico quanto artistico e non a caso è seguito, tra gli altri, da una risposta dell’utilitarista Peter Singer autore di Animal Liberation (Liberazione animale) del 1975 considerato come manifesto del pensiero antispecista.
Elizabeth Costello
Proprio nella figura di Elizabeth Costello ho avuto modo di trovare una guida valida per intraprendere un reale cambiamento della mia quotidianità. In particolare, due spunti di riflessione si sono imposti alla mia coscienza come il ritornello di una canzone impossibile da non richiamare alla mente. Nello scritto, Elizabeth Costello avanza un paragone che ha dello sconcertante e che al tempo stesso è in grado di rendere operante – anche per un essere umano – l’idea della sofferenza vissuta dagli animali nei laboratori o negli allevamenti intensivi moderni. Il paragone è quello tra l’esperienza animale in questione e l’esperienza degli ebrei nei campi di sterminio: « Vorrei tornare per l’ultima volta ai luoghi di morte che ci circondano, i macelli ai quali noi, in un massiccio sforzo comune, chiudiamo i nostri cuori. Ogni giorno ha luogo un nuovo olocausto, e tuttavia, a quanto vedo, il nostro essere morale non ne viene neppure scalfito. Non ci sentiamo contaminati. […] Puntiamo il dito contro i tedeschi, i polacchi e gli ucraini che sapevano e non sapevano delle atrocità perpetrate intorno a loro. Ci piace pensare che fossero rimasti intimamente segnati dalle conseguenze di quella specifica forma di ignoranza. […] L’evidenza indica l’opposto: possiamo fare di tutto e passarla liscia; non c’è punizione». Un paragone audace sicuramente, ma non assurdo: nei campi di concentramento come negli attuali campi di allevamento intensivi, ad esempio, si tratta di esseri viventi intrappolati, massacrati, seviziati, sfruttati e oltraggiati. La differenza è una differenza di specie: un tempo si trattava di esseri umani, ora di animali; e nell’immaginario comune uccidere un bambino in una camera a gas non è come uccidere un cucciolo. Eppure se viene ripreso il discorso della Costello: « L’orrore specifico dei campi, l’orrore che ci porta a ritenere che lì sia stato perpetuato un crimine contro l’umanità, non è dovutola fatto che, sebbene gli assassini condividessero con le proprie vittime l’umanità, le hanno trattate alla stregua di pidocchi. È un ragionamento troppo astratto. L’orrore scaturisce dal rifiuto da parte degli assassini, e di tutti gli altri, di immaginarsi al posto delle vittime.» Una posizione che di fatto fa scaturire l’orrore provato di fronte all’esperienza dell’olocausto dall’incapacità dei carnefici di identificarsi nelle vittime; incapacità che sarebbe da questo punto di vista perfettamente applicabile al sistema dell’allevamento intensivo nella società moderna: siamo in grado di immaginare la morte e l’estrema sofferenza di un essere umano, ma non di un essere che non appartenga alla nostra specie.
Facciamo un passo indietro…
Seguendo il sentimento dei più, proviamo a riconoscere tutto ciò che allontana l’essere umano dall’essere animale, visualizziamo quel fossato che pone una distanza tra il nostro stare al mondo e il loro. Assumendo una simile prospettiva è quasi impossibile non riconoscere l’inferiorità razionale e, in relazione ad alcuni casi specifici, anche emotivo-cognitiva degli animali. Ed è proprio questo dislivello a giustificare ad esempio l’impiego di cavie animali nella sperimentazione medica al fine di salvare, in un futuro remoto, anche solo la vita di un bambino malato di cancro. Vite animali possono essere sacrificate per salvare vite umane. Sarebbe questa dunque la superiorità della specie umana su quella animale? È in nome di questa presunta superiorità che le evidenti sofferenze di una specie differente dalla nostra possono essere non solo tollerate ma giustificate? La logica della superiorità certamente getta luce su dei punti quanto meno spinosi.
Se poi si volesse rendere nulla la differenza di specie in ambito morale, riconoscendo all’essere animale non solo la capacità di provare dolore, ma anche quella di avere interessi e desideri (anche se ad un livello a-riflessivo e meno complesso del genere umano), che ne sarebbe di questa suddetta superiorità? Abbracciando questa prospettiva sarebbe possibile incappare in una delle argomentazioni che più fanno furore all’interno della comunità onnivora: “E’ la natura, la legge della sopravvivenza, il più forte mangia il più debole, noi mangiamo gli animali, alla fine se ci pensi il leone non si fa tanti problemi a sbranare la gazzella!” Anche qui apparentemente nulla da eccepire. Eppure sussiste una fondamentale e innegabile differenza morale tra l’azione del leone che caccia la gazzella assecondando un istinto ancestrale e quella dell’essere umano che imprigiona intenzionalmente esseri animali all’interno di costruzioni in cui vengono seviziati e forzati a vivere una esistenza che non può neanche essere definita come tale. In questo contesto può essere considerata fonte di una qualche superiorità quella razionalità che si degrada costantemente allo stesso stato che rifiuta? L’istinto umano è quello di sopravvivere (proprio come tutte le altre specie) e quella razionalità, che tanto lo contraddistingue, serve a trovare modi sempre più efficienti e crudeli per permanere nella sfera biologica di questo pianeta al modo non di una sua parte costituente, ma di un Dio creatore? Anche in questo caso come non riconoscere una certa problematicità?
Imparare l’umiltà
L’esperienza di Elizabeth Costello va oltre quella che potremmo definire una spinta empatica, ancor prima che razionale, verso il mondo animale. Quello che la Costello trasmette è anche un profondo senso di umiltà derivante dal riconoscimento di un certo tipo di inadeguatezza rispetto all’incapacità di riuscire nell’intento di non causare dolore e sofferenza ad alcun essere vivente. Un simile sentimento emerge chiaramente nel momento in cui le viene riconosciuta una certa nota di merito rispetto alla propria condotta morale: «Le scarpe che indosso sono di pelle […] Anche la mia borsa è di pelle. Se fossi in lei non esagererei con il rispetto». Ma cosa ne è di questa umiltà? Nel mondo vegano spesso, troppo spesso, quello stesso sentimento di superiorità che viene rimosso sul piano della differenza tra specie riemerge all’interno dell’umanità stessa, con ancora maggiore veemenza, nella forma di una superiorità morale indiscutibile.
La verità degli antichi
All’interno del dibattito contemporaneo credo sarebbe opportuno, prima di schierarsi, tornare ad ascoltare il monito di Orazio: «esiste una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». É il senso di questa misura che andrebbe recuperato. Ognuno di noi decide come rappresentare adeguatamente la realtà in cui vive e così facendo crea anche un certo insieme di valori cui aderire. A mio avviso, nella società contemporanea sono presenti pratiche – tra cui quelle che coinvolgono la sevizia di esseri viventi non umani – che sono aberranti per una comunità che si definisce “progredita”. Si tratta di pratiche che se non altro sollevano questioni che da un punto di vista morale hanno un peso non indifferente. L’intolleranza genera intolleranza, spesso l’opera migliore di persuasione risiede proprio nel suo contrario.
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.