illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo
C’è una sorta di slogan nella meditazione sui media. L’ha ideato Friedrich Kittler, uno che dietro la montatura degli occhiali e i lunghi capelli bianchi qualche centimetro sotto le orecchie, ha sempre mostrato una sorta di concessione alla giovinezza. Se non fosse per il suo sguardo gentile, gli zigomi pronunciati e il viso ovale lo avvicinerebbero a una sorta di Clint Eastwood del pensiero. Kittler ha insegnato Storia dei media alla Humboldt, a Yale e alla Columbia. E credeva questa cosa qui: i media stabiliscono la nostra posizione. La frase è diventata una sorta di mantra. In tedesco suona così: Medien bestimmen unsere Lage.
Ma altri non hanno sentito il pericolo di questo avvicinamento, tra l’uomo e la tecnica. Ernst Cassirer già nel 1921 scrive un saggio, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, sulle conseguenze epistemologiche nascenti dal confronto tra le acquisizioni della scoperta einsteiniana della relatività e l’opera di Immanuel Kant.
Poi ci sono gli schermi. Dentro questi schermi vediamo cose vicine e remote, reali e virtuali. Vediamo perfino noi stessi. Ah, la vista, il più cinico di tutti i sensi. Si concentra su qualcosa in particolare, quel giocatore con la maglia dieci in uno stadio, quel tipo particolare di auto che brucia il semaforo, quella donna in mezzo alla folla, e sfoca completamente ciò che non gli piace, ciò che ha attorno o accanto. L’occhio è un specie di organo settore. Sta lì che continua a tagliuzzare la realtà. In inglese lo chiameremmo un cut off rispetto al campo. Sta lì e scontorna, zuma, sfoca. Ma non fa soltanto questo. O meglio, queste abilità, in parte istintive in parte guidate dalla volontà, lo rendono vicinissimo alla penna di uno scrittore. Trasforma in immagine tutto quello che sperimenta. Per dirla in una frase, l’occhio mette la cornice al mondo.
Il suo specifico, il suo genere, ha incuriosito il pensiero sin dall’antichità, dai greci fino ai tedeschi. Hannah Arendt ne individuava la proprietà specifica nella sua tenuta a distanza. La vista marcherebbe immediatamente una differenza, tra chi guarda e la cosa guardata. Cioè tra soggetto e oggetto. Questa distanza permetterebbe l’elaborazione critica. Una concezione nobile e casta della vista. Il soggetto non è influenzato dall’oggetto. Ci sono gli uomini che guardano, e ci sono le cose del mondo che vengono guardate. Punto.
Dal quadro alla foto
Certo, permane la distanza di sicurezza che questo senso consente. La vista colloca gli oggetti in uno spazio di irraggiungibilità e di intangibilità, che facilmente si può convertire in uno spazio di indifferenza nei confronti della cosa da vedere. Si possono cioè vedere da lontano le cose più orribili senza esserne minimamente coinvolti. Notiziari o film hollywoodiani. A queste condizioni, ne consegue, anche la morte può essere uno spettacolo. In una immagine classica: il viandante che osserva da lontano il naufragio senza avere la possibilità di intervenire, ma nemmeno d’essere messo in pericolo dalle onde.
Il Visionario
Ma nella nostra epoca tra chi vede e l’oggetto della visione si è frapposto, in modo sempre più infiltrante, un elemento ulteriore: la mediazione tecnologica. Molte cose che stanno di fronte a noi per essere viste non si mostrano direttamente ma solo tramite avatar. Non vediamo più solo cose, ma le loro raffigurazioni elettroniche. In taluni casi le cose sono assenti, ma i loro avatar insistentemente presenti. Per usare un altro slogan allora, nella società contemporanea non vediamo, tecno-vediamo. La nostra esperienza è costituita da cose che non abbiamo mai visto, ma tecno-visto, dilatando incommensurabilmente il perimetro della nostra esperienza. Questo ha due conseguenze, soltanto apparentemente contraddittorie tra loro:
• Accentuazione della distanza di sicurezza
• Degradazione della densità della realtà.
La tecno-visione produce poi un terzo risultato, corollario della seconda conseguenza: quel che più importa, accanto al mondo reale, non è più l’immaginario ma il visionario. Il visionario ha bisogno di riempirsi sempre di nuovi oggetti. Oggetti particolari. Non lasciano traccia, non sporcano, non pesano, non ingombrano, in fondo non è neanche indispensabile che esistano.
E allora ha ragione il linguista Raffaele Simone a dire che nel mondo visionario il legame a due implicato nel vedere (tra chi vede e la cosa che vede) si è moltiplicato in un quadrilatero: sul primo lato sta il vedere, enormemente potenziato dalla tecnologia; sul secondo un incremento della spinta a far-vedere; sul terzo la propensione a farsi vedere e sul quarto il desiderio di vedersi.
L’insieme di questi fenomeni (dilatazione del vedere, esplosione della tecno-visione, produzione di eventi) porta a concludere con Debord che è caduta la differenza tra realtà e finzione. Il reale si de-realizza, diventa agli occhi di chi è abituato alla tecno visione, impalpabile al pari della sua raffigurazione.
Il Selfie e l’Anagrafe dell’Altro
Eppure le cose non sono così facili. Detta così sembrerebbe che il selfie raggiunga la massima aspirazione dell’essenza fotografia, dell’Hic et Nunc, quella cioè del cogliere l’attimo. Inoltre è risaputo che anche grandissimi fotografi, come il già citato Hill, costruissero le proprie fotografie ad hoc, con lunghe esposizioni durante le quali i soggetti rappresentati dovevano essere immobili come su un set. La macchina appoggiata al cavalletto. Ma qual è allora la vera foto? Quella di Hill o quella del selfie? Qual è la costruzione più vera? Mentre la prima, con Benjamin, è costruita per sprofondare nell’attimo (utilizzando le sue parole: “il procedimento stesso induceva i modelli non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo bensì a sprofondare nel suo interno”), la seconda è costruita per uscirne. Uscirne, ma per andare dove? Nell’anagrafe del Grande Altro, quella nozione lacaniana che altro non fa che tradurre il super-io freudiano ed estenderlo alla società. Di cosa parliamo?
Dove vanno a finire allora i selfie? Perché scelgo di scattare un selfie con il mio cellulare e non un autoscatto con la mia reflex oppure chiedendo a un passante uno scatto di cortesia? Di certo c’è una questione di praticità e immediatezza, ma non spiega l’enorme mole di selfie postati sul web. Non decido di scattare un selfie (solo) perché è più comodo. Decido di scattare un selfie per entrare nell’anagrafe del Grande Altro che si chiama Facebook. Cosa vuol dire allora il selfie? Una cosa molto precisa. Vuol dire “io esisto”. Il selfie è un modo di essere tecno-visti. Il selfie è un modo di esistere nel mondo.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passagi sul vuoto, un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia