illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Flavio De Bernardinis
“La nostra fu una generazione malinconica, abbastanza consapevole dei propri doveri e poco sensibile ai diritti; una generazione condizionata da complessi di colpa esistenziali dei quali non ci rendevamo ragione, che ci facevano sentire debitori di debiti immaginari e tuttavia pesanti da sopportare. Misogini: la donna, sempre vagheggiata e sempre fuggitiva, rappresentava una felicità alla quale non avevamo il diritto di aspirare. Perciò, continuando a vagheggiarla, fuggivamo.”
Questo è un passo tratto dall’editoriale di Eugenio Scalfari su “Repubblica” del 16 luglio scorso, editoriale dal titolo “La politica e il lascito perduto della modernità”.
Ne sono rimasto colpito, perché sembrava la millimetrica parafrasi di un film di Ettore Scola che ho da poco rivisto, La terrazza, 1980, per l’ultima lezione del trimestre al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Emerge, sia nel film che nell’editoriale, la questione della modernità “fino a quando reclinò la testa tra le braccia della follia”, per citare lo stesso Scalfari del suo libro Per l’alto mare aperto. Per Scalfari, i “contemporanei” sono i barbari (non a caso Repubblica ospitò, a puntate, il libro di Baricco I barbari, incentrato proprio su questo).
Forse è proprio questa dizione, i barbari, a risultare fuorviante. L’idea è che una certa “modernità”, ossia la civiltà, si conclude, e allora affiora la barbarie, fino a che una successiva modernità (la stessa, un’altra…) rivede la luce.
Prendiamo il film di Scola. Come si ricorderà, il film tratta di un gruppo di uomini e donne della medio-alta borghesia, in una cena senza fine (un po’ come quella de Il fascino discreto della borghesia di Buñuel), che discute dei massimi sistemi e al tempo stesso mette in scena le proprie miserie.
In questo film, con lucidità forse più spinta che altrove, Scola traccia il disegno di una generazione che è esattamente quella di Scalfari. E i vari Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Serge Reggiani e Jean-LouisTrintignant, coinvolti nel film, sono le figure, i caratteri di un tipo umano molto preciso, che è precisamente quello descritto da Scalfari.
Il tipo umano dello sconfitto.
La terrazza, così, oggi mi pare molto più urgente e necessario, anche più bello, di ieri, quando lo vedemmo per la prima volta.
Prosegue Scalfari: “Noi eravamo saturi di dannunzianesimo, di pose eroiche, di cuore da lanciare oltre l’ostacolo. La reazione inconscia a tutto questo fu la poesia di Montale. La malinconia, la memoria delle occasioni mancate, l’asciuttezza dello stile, una metrica e un linguaggio innovativi pur nell’ambito del canone poetico tradizionale, ma c’è un altro e ancor più rilevante motivo di identificazione tra il poeta e la generazione alla quale la sua poesia era indirizzata: ciò che si sarebbe dovuto e voluto fare ma non si fece, osare ma non si osò”.
A cavallo fra gli anni ’70 e anni ’80 del film, il dannunzianesimo forse era diventata un’attitudine un po’ sbiadita, ma il dato generazionale (ciò che si sarebbe dovuto fare ma non si fece, osare ma non si osò) restava molto presente.
I personaggi del film, un giornalista (Mastroianni), uno sceneggiatore (Trintignant), un produttore (Tognazzi), un dirigente Rai (Reggiani) e un funzionario dell’allora PCI (Gassman), lo dichiarò esplicitamente Scola, sono tutti personaggi attivi nell’ambito della comunicazione.
Ed è questa la loro specifica responsabilità.
Disse Scola: “Nel film, mi occupo di una piccola particolare fascia di questa generazione di cinquantenni che ha a che fare con il mondo della comunicazione. Sono personaggi, appunto, che operano attraverso la stampa, il cinema, il teatro, la televisione, e anche la politica – le commissioni culturali dei partiti – e quindi si pongono delle domande, un po’ a loro stessi, un po’ agli altri: questa informazione che hanno portato avanti, è stata anche un’informazione giusta? Quello che andava fatto per partecipare alla costruzione della coscienza collettiva è stato fatto? Non si poteva fare qualcosa di più?”.
Sono le stesse riflessioni di Scalfari: è stato fatto quello che doveva essere fatto? La modernità, allora, è un debito non saldato. Un desiderio, per usare la terminologia di Massimo Recalcati, non giunto a compiuta destinazione. La modernità, più che decaduta in follia, è dunque incompiuta. E deve restare incompiuta, per risultare davvero modernità.
L’erede del cinema di Scola, in questa direzione, è il cinema di Nanni Moretti.
Non bisogna infatti dimenticare che l’anno de La terrazza, è il 1980. Nel 1978, due anni prima, era uscito Ecce bombo, film radicalmente generazionale. I Gassman e i Tognazzi di Scola, nel 1980, apparivano, se ci si perdona la parola, ancora più terrazzati, se messi a confronto con i giovani di Moretti.
Si tratta di due generazioni: la generazione dei “vecchi”, che hanno vissuto la guerra, poi la Resistenza, e infine fatto l’Italia; e la generazione dei “giovani”, che non hanno conosciuto né guerra né Resistenza, e si sono trovati l’Italia già fatta.
I giovani di Moretti non frequentano terrazze: al massimo, si dispongono al celebre: “Mi si nota di più se vengo alla festa e sto in disparte, oppure se non vengo affatto?”. In realtà, quindi, nemmeno si riuniscono davvero. Manca loro il buffet sulla tavola dove, come mosche, tutti i “vecchi” in terrazza si radunano. E radunandosi, comunque, stanno insieme.
I “vecchi” di Scola sono soli ma stanno insieme. I “giovani” di Moretti stanno insieme ma sono soli.
La generazione narrata da Scola è una generazione di adulti/bambini, tanto che nel film, come scrive Scalfari nell’editoriale, vige un diffuso sentimento di misoginia, e la donna, sostanzialmente esclusa, è sempre e soltanto una moglie che fa da mamma.
La generazione di Moretti è invece, a specchio, una generazione di bambini/adulti, che giocano in piena malinconia alla gara dell’impegno e della responsabilità, senza conoscere davvero i presupposti né dell’uno né dell’altra. La misoginia, inoltre, si posiziona in incomunicabilità radicale tra i due sessi.
In breve, se la generazione di Scola è quella dei vecchi eternamente giovani, quella morettiana, a specchio, è quella dei giovani che risultano già vecchi.
Nei “vecchi” di Scola, resta infatti intatta la giovinezza dell’Italia repubblicana, l’Italia del “secondo Risorgimento”, dopo il fascismo e la guerra. L’Italia, quale scommessa vinta per il solo fatto di essere stata tentata.
Ecco il cuore pulsante della modernità. L’importante è scommettere, perché scommettere è già vincere. Scommettere è l’autonomia di giudizio e il coraggio della coscienza. Anche se non si fece tutto quello che andava fatto, e non si osò tutto ciò che andava osato.
Nei giovani di Moretti, invece, resta intatta l’inossidabile consapevolezza di un’Italia nata vecchia dalla Resistenza, di cui i “giovani” risultano dei figli senza gioventù, perché caricati, simultaneamente, sia del peso di un prologo senza fine (la democrazia mai compiuta), sia dell’incubo di un epilogo già accaduto e piombato (la fine dell’impegno politico, e il terrorismo come suo sigillo).
Accomuna certamente le due generazioni il tema della sconfitta: La sconfitta è anche il titolo di un Super8 di Moretti precedente a Io sono un autarchico, per non parlare del celeberrimo “Con questi dirigenti non vinceremo mai!”, gridato da Moretti stesso in piazza Navona, a Roma, nel 2002, di fronte a D’Alema e Fassino.
Sia detto per inciso, è quindi perfettamente comprensibile il successo permanente della figura di Silvio Berlusconi, che fa irruzione in questa “terra di sconfitta”, e dice, pressappoco, così: “Se qui escono tutti sconfitti, allora quello infine costretto a vincere sono io”.
Però c’è sconfitta e sconfitta. “Con questi dirigenti non vinceremo mai” è la sconfitta preventiva, stabilita ancora prima di combattere (come tutti i personaggi di Ecce bombo, tra l’altro).
Gli sconfitti in terrazza di Scola ammettono che non ce l’hanno fatta, e sono delusi e molto preoccupati.
I “giovani” ritengono di non avere futuro alcuno per colpa dei “vecchi”, mentre i “vecchi” pur restando attaccati alla sedia e alla poltrona, ammettono la questione del futuro come questione ancora sospesa.
A volte ci capita di chiedere, non senza un pizzico di provocazione, e di profonda malinconia: “Ma se avessimo capito e compreso meglio il cinema italiano dei Risi, Monicelli, Pietrangeli, Scola, (non solo quello degli autori “consacrati”), saremmo magari riusciti a evitare l’avvento di Berlusconi?”. Proprio quel cinema il quale, è lo stesso Scola a ricordarlo, “in Italia ha sempre accompagnato, scandito, rappresentato e qualche volta preceduto il costume nazionale”.
Elio Petri dette del cinema italiano una definizione che forse avrebbe potuto mettere tutti noi sull’avviso; Petri, infatti, nello stesso anno di uscita de La terrazza, disse: “Il cinema italiano, nei suoi casi migliori, è sempre stato un ostinato segnale di malessere“.
Ebbene, questo segnale di malessere, è stato opportunamente intercettato? E se lo fu, risultò forse incompreso? Gli intellettuali, i critici, i professori, gli uomini di cultura, hanno saputo estrarre dal cinema italiano quel pensiero, che, discusso e ampliato, avrebbe forse permesso di proiettare il dibattito in quei territori che invece, rimasti inabitati, hanno poi consegnato l’Italia al populismo post-anni’80?
Ascoltiamo ancora Ettore Scola: “Il neorealismo, come espressione artistica di un periodo storico, rappresenta un importante momento rivoluzionario, non solo del cinema ma del pensiero italiano. Questo nuovo modo di pensare e vedere la realtà che si è espresso cinematograficamente, ma poteva esprimersi in letteratura, in pittura, in musica, quel bisogno di analizzare se stessi, quella necessità di seguire l’uomo, sono tuttora le matrici del miglior cinema italiano”.
Lungo questa piccola ma molto precisa storia del cinema italiano attraverso le parole di Scola, arriva adesso il punto dolente, che è il passaggio dal neorealismo alla commedia: “La commedia italiana è stata la figlia un po’degenere del neorealismo, una sorta di reazione un po’reazionaria, in quanto è nata come pacificatoria testimone di un’Italia consolata, grassoccia e paesana, dai pochi riferimento con la realtà. Poi la commedia è cresciuta, è entrata in maggior contatto con la realtà, ha scavato di più, si è fatta più inquietante, da consolatoria che era è diventata spesso provocatoria”.
In sostanza, la “prima” commedia che aveva come modelli Pane, amore e fantasia (1954) e Poveri ma belli (1957), è stata effettivamente la reazione un po’ strapaesana e anche consolatoria al neorealismo, mentre la “seconda” commedia, che può partire da I soliti ignoti (1959), e proseguire con Tutti a casa (1960), Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962)… abbandona i toni arrendevoli, per un’analisi più attenta e partecipe delle contraddizioni della realtà e della società italiane.
I “vecchi” scommettono allora a tutto campo. Lo stesso Dino Risi diresse sia Poveri ma belli che Una vita difficile e Il sorpasso! Se si legge la letteratura critica che scorre in parallelo all’uscita di questi film, difficilmente si incontra un pensiero, critico, che sappia estrarre dalle storie narrate e i personaggi rappresentati una sintesi utile ad una maggiore comprensione, e quindi, se possibile, anche trasformazione, della società e anche della cultura italiane.
A questo punto, sopraggiunge il cinema di Ettore Scola, che così infatti ne rievoca lo spirito: “In questa direzione io credo di aver lavorato: verso una commedia italiana nella quale, dietro l’eredità del neorealismo e le magie della satira, traspariva l’apologo civile”.
Apologo, “favola allegorica a fine pedagogico”.
Neanche a farlo apposta, nell’ultimo capitolo di Per l’alto mare aperto, Scalfari discute con Calvino esattamente di questo: “Io ho scritto apologhi in forma di romanzo” dice Calvino ” Rispetto al romanzo, l’apologo è più scoperto. Infatti per renderlo digeribile ci vuole un supplemento di fantasia che compensi la razionalità dell’impianto. Più ragione. Più fantasia”.
Le riflessioni di Scola sono quindi le stesse di Calvino, citate da Scalfari: la commedia diventa apologo civile assumendo l’eredità del neorealismo, ossia il romanzo, e le magie della satira, ovvero la fantasia surrealista “alla Buñuel”, di cui dicevamo all’inizio (Scola aveva in progetto di realizzare un film documentario su Buñuel al lavoro).
Nella chiave dell’apologo civile, quindi, il tema della sconfitta assume anche un valore pedagogico.
Dice ancora Scola: “Qui il problema è la responsabilità, non l’aspettativa delusa. I protagonisti de La terrazza più che delusi sono preoccupati: si chiedono se hanno fatto quello che era loro dovere fare. Questa, nei vari settori culturali, è la domanda che dobbiamo porci. Cioè, gli intellettuali che hanno questa responsabilità – sia che scrivano un romanzo, che facciano un film, che programmino una trasmissione televisiva, che si occupino della politica culturale di un partito – di fronte al pubblico, di fronte alla cosiddetta massa, che tipo di responsabilità hanno avuto? Come sono riusciti a migliorare, a formare questa coscienza collettiva?”.
Era la diagnosi puntuale su una società che stava abbassando tutte le difese e avrebbe così lasciato campo libero a Berlusconi. Il cinema italiano, nei casi migliori, è stato davvero un ostinato segnale di malessere. Ma chi ha saputo intercettarlo?
Alla fine del film, mentre fuori, in terrazza, scoppia un temporale, tutti i protagonisti, i maschi, come api sul miele, corrono intorno a un pianoforte, e iniziano a intonare un revival di motivi e motivetti anni ’30 e ’40. La terrazza è battuta dalla pioggia, e loro, i borghesi, cantano e si divertono. Come dire, in fondo, che questi borghesi, progressisti fin che si vuole, i “vecchi”, alla fine dei conti, “se la cantano e se la suonano”.
Il tema della responsabilità investe così il motivo, un vero e proprio crocevia, della chiusura generazionale. Come nell’editoriale di Scalfari. Le canzonette anni ’30 e ’40 sono il segno di una generazione che voleva cambiare il mondo, e in realtà non è mai uscita da se stessa. Mai usciti dalla Nuova Italia quale scommessa vinta per il solo fatto di essere stata tentata.
I giovani di Moretti, invece, non scommettono più. La vanità, che nei “vecchi” è ancora nevrotica capacità di socializzare, è ormai diventata narcisismo solipsistico nei “giovani”. Una volta, Enzo Siciliano ci confidò: “Quando ero giovane e scrivevo un racconto, non sapevo resistere, chiamavo Moravia, anche di notte, e glielo leggevo al telefono! Oggi, i giovani scrittori non si confrontano mai con nessuno”.
Il tema della responsabilità, nel 1978, infine, se l’è ingoiato il terrorismo BR. La commedia, allora, davvero non esiste più. “Ve lo meritate Alberto Sordi!”, grida Michele Apicella/Nanni Moretti in Ecce bombo. L’apologo civile diventa così un grottesco, acido ed amaro. Non ci sono conflitti di classe e caratteri antropologici, come ancora nel grottesco di Petri, ma crisi esistenziali sigillate addosso e impossibili da scucire. E non c’è più nemmeno la donna felliniana, in Moretti, che del grottesco recuperava una palingenesi di forme forse smisurate, ma anche premurosamente indeformabili. C’è invece Bianca, bellissima, in Moretti, nel film omonimo, che però non impedisce al protagonista, dopo l’amore, di rifugiarsi in cucina tra le braccia narcisistiche della nutella.
Il grottesco di Moretti cercherà disperatamente di estendersi alle istituzioni, ovvero la responsabilità politica ne Il caimano, la responsabilità spirituale in Habemus papam. Ma l’imperium berlusconiano in chiave apocalittica del finale di quel film, e la rinuncia al soglio pontificio, altrettanto apocalittica, dell’altro film, escludono dal grottesco morettiano ogni sentore di modernità, nel segno della scommessa ancora sospesa, per indulgere piuttosto in un millenarismo senza passato né futuro, che solo le braccia dolcissime della madre morta, nel successivo Mia madre, possono, molto piano, iniziare a lenire.
Ho aperto con Scalfari, e con lui infine chiudo: “Forse i nostri contemporanei hanno rifiutato il lascito della modernità. Riusciranno a raccordare quel fuso orario fuori registro semmai vorranno tentar nell’impresa?”.
Se la modernità è dunque questo, ossia l’invenzione del possibile che tutto rende impossibile, e quindi ancora desiderabile, ebbene oggi si fatica a scorgere segnali in tale direzione.
Perché il capitalismo, nella sua astuzia, ha trasformato il possibile in dovuto, e così facendo, ha seccato tutte le radici della modernità stessa.
Non ci sono i barbari e la follia, ci sta una modernità, lucrosamente, che da incompiuta è stata resa disseccata.
Il cinema italiano, ostinato segnale di malessere, qualche allarme lo aveva lanciato. Anche dalla terrazza.
Flavio De Bernardinis è docente di Analisi del linguaggio cinematografico e Storia del cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ha curato il volume 1970-1976 della Storia del cinema italiano. Tra i suoi saggi Nanni Moretti, Robert Altman, L’immagine secondo Kubrick, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.