illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta
Sempre più connessi e sempre più social. Ma poco è lo spazio per il rapporto riflessivo con il proprio sé. Ma è davvero tutta colpa dei social? E se questi non fossero altro che la lente di ingrandimento per un controinuitivo e radicale individualismo?
Il Signor Nessuno si sveglia alle 7:30, come ogni mattina. Il braccio destro fuoriesce dalle coperte, come un ligio soldato trapassa il freddo rarefatto di ottobre e raggiunge il telefono: sarà una giornata piovosa. Nessuno si alza, si stiracchia, canticchia ad alta voce il testo di T.N.T. degli AC/DC mentre è sotto la doccia. Dopo pochi minuti è in macchina, ad ogni semaforo mette in pausa Virgin Radio e controlla le prime mail di lavoro, risponde ad alcuni Whatsapp. Al bar prende un caffè, saluta i colleghi abbozzando un sorriso a mezza bocca dietro la tazzina, poi chiacchiera con il barista del tempo e delle ultime notizie. Alle 8:30 è seduto alla sua postazione: inizia il via vai di persone, di chiamate, di firme. Nella pausa pranzo fa un giro su Facebook, commenta e condivide, riceve una chiamata della figlia che è a casa della mamma con la febbre. Il tempo di concludere la telefonata ed è già tornato in ufficio. Riesce a malapena a prendere un caffè verso le 16:00. Uno sguardo veloce al telefono: Marianna, la sua prima ragazza conosciuta quando andava alle elementari, è incinta; glielo sbatte in faccia Facebook con una foto di lei che si accarezza il pancione. Il post dice “E’ ufficiale! Arriverà Giovanni!”, tutti si prodigano in auguri e complimenti più o meno sentiti. Marco è invece arrabbiato come sempre con il sindaco, uno stato inequivocabile lo ribadisce. Improvvisamente, Nessuno realizza che il sole è tramontato da un pezzo, raccoglie le sue cose ed esce dall’ufficio. In macchina chiama la madre per accertarsi delle sue condizioni, subito dopo è il turno della figlia. Arrivato a casa si prepara da mangiare dando un’ultima controllata alle notizie in TV, nel frattempo parla su Messenger con alcuni amici per organizzare una serata al pub il prossimo weekend. Vorrebbe leggere un libro, ma si sente troppo stanco quindi opta per un film. Verso le 23:00 è nel letto, pronto per il meritato riposo. Passa almeno una mezzora tra Facebook, Twitter, Instagram e Youtube. È ora di dormire: attiva la sveglia e spegne la luce. Non riesce a prendere sonno, si sente inquieto, ma l’importantissimo meeting del giorno seguente non gli consente di rubare altro tempo prezioso al ristoro. Deve dormire. Una voce risalendo gli stati di coscienza si palesa come uno sgradevole reflusso: “ti sembra vita questa? Dovresti trovarti qualcuno, avresti dovuto prenderti la giornata per stare un po’ di tempo con tua figlia! Il meeting di domani ti tiene sveglio? Sarà un altro noiosissimo e inutile incontro tra gradassi ignoranti!” La voce non ha intenzione di fermarsi, quindici gocce di Lexotan: tutto è buio, in un silenzio di tomba.
Sdoppiamento riflessivo
Il rapporto a sé e gli altri
Molti sono i filosofi che hanno cercato di spiegare l’orrore che viene sperimentato dall’individuo nella solitudine, al cospetto di sé. L’essere da soli è l’essere con se stessi e senza gli altri, è l’esperienza individuale per eccellenza che si concretizza, e si teme, soprattutto al cospetto della morte. Nella morte viene a compimento l’univocità del singolo nella comunità, con le parole di Heidegger, io non posso mai esperire, vivere, sentire su di me la morte d’altri. La morte è la mia fine, è una fine che mi identifica e che al tempo stesso mi separa (perlomeno fisicamente) dall’esistenza di tutti gli altri. In quest’ottica la solitudine è temuta in quanto strettamente legata alla paura della propria fine e del nulla, dell’insensatezza della vita umana che emerge dalla considerazione riflessiva della morte come unica certezza. Con internet, attraverso i social media, anche nella solitudine fisica possiamo essere realmente con altri e non affrontare il senso di questa finitudine.
Dove guardare?
Per secoli, tralasciando alcune menti eccezionali, l’essere umano ha camminato cercando un senso fuori di sé, fissando il cielo e le stelle in direzione di un oltre indefinito. Nel momento in cui ogni senso, ogni significato assoluto, è venuto meno ha iniziato a fissare il terreno per ricostruire delle fondamenta solide e forti di una oggettività scientifica. Ora che il senso agognato sembra essere quasi impossibile da trovare, sfuggente come uno spettro rosso all’orizzonte, potrebbe essere più importante che mai affrontare l’Altro che è in noi e sedersi di tanto in tanto al tavolo con se stessi come di fronte a uno specchio immaginario, per modellare un senso personale da realizzare insieme agli altri. E se fosse impossibile? Se l’horror vacui dovesse rivelarsi un sentimento atavico e ineludibile? Se l’atto della saturazione continua – che riempiendo elimina lo spazio dello sdoppiamento riflessivo – fosse effettivamente un automatismo intrinseco alla natura umana, del tutto originario rispetto allo sviluppo tecnologico contemporaneo? Dovremmo sicuramente ripensare l’intera fisionomia del progresso scientifico e riconoscerci come carnefici, piuttosto che come vittime, come causa prima di un progressivo e inevitabile annientamento della nostra stessa umanità. In fondo cosa sono la caccia, la coltivazione, le conquiste, l’urbanizzazione, la sovrappopolazione, la burocrazia, le gerarchie, la tecnica, il consumismo, la tecnologia di internet, la connessione social, se non tentativi di colmare il vuoto in ogni sua possibile manifestazione?
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.