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Stranger Things e l’Effetto Nostalgia (Niente Spoiler)

illustrazione di Simona Bramucci
parole di Matteo Sarlo
Stranger Things non si limita a citare il passato. Stranger Things ridefinisce “l’atmosfera” di un mondo, generando così un preciso sentimento, che funziona come una droga: la nostalgia.

«Guardare Stranger Things è come guardare i più grandi successi di Stephen King. E lo dico in senso buono». La frase è paradigmatica per capire qualcosa del successo che ha portato i fratelli Duffer ad ascolti da record. Stando ai dati di Nielsen (come si legge sul New York Times) – dati che sono di molto a ribasso secondo Netflix stesso – sono stati quasi 16 milioni di utenti a seguire il primo episodio negli States. Per dire, Game of Thrones ha raggiunto i 16,1. A ribasso, certo. Perché utilizzando questo nuovo software di riconoscimento, Nielsen ha considerato soltanto chi ha usato un televisore ma non un pc o un tablet.
Quindi, quasi 16 milioni di spettatori. Allora, qual è il segreto del successo di Stranger Things?
Riprendiamo la frase:

Guardare Stranger Things è come guardare i più grandi successi di Stephen King. E lo dico in senso buono.

La frase è del 17 luglio 2016 e l’ha scritta sul suo canale Twitter proprio Stephen King, due giorni dopo la data di lancio della prima stagione. Ecco, questa frase qua va presa come una formula sintetizzante. La formula è divisibile in due parti: una rossa e una blu, per usare due dei colori basilari della sfera cromatica di ST. La parte rossa, quella più facile da interpretare, quella più trasparente, è inequivocabile.

È come guardare i più grandi successi di Stephen King

Significa: Stranger Thing è una grandissima citazione dei capolavori del passato. E su questo livello, è d’accordo tutta la critica. È chiaro, ci sarebbe potuto essere scritto anche «è come guardare i più grandi successi di Steven Spielberg» oppure «è come guardare i grandi successi di John Carpenter» oppure ancora «è come guardare i grandi successi di Ridley Scott». Non che Ross e Matt Duffer non ne siano consapevoli, tutt’altro.

L’inizio
Due normalissimi ragazzi cresciuti in una piccolissima cittadina della Carolina del Nord, non hanno mai nascosto il loro amore per i grandi maestri del cinema. Tanto da voler ambientare, inizialmente, la serie sull’isoletta dello Squalo, Amity. Poi le cose sono andate diversamente ma solo per impossibilità tecniche. Ma, per dire, per selezionare Mike, Dustin, Lucas e Will tra i 1000 bambini, hanno deciso di utilizzare delle scene tratte da Stand by me. Per la colonna sonora hanno scelto i Survive, una band molto influenzata dalle sonorità di Carpenter, Tangerine Dream, i Goblin.
Dal punto di vista cromatico, per ottenere quella morbidezza e calore tipica degli anni ottanta, Matt e Ross hanno scelto di usare delle lenti Leica.

Per la loro tesi di laurea alla Chapman University decidono di girare un adattamento di Eater, il racconto di Peter Crowther. Riescono a vendere la sceneggiatura alla Warner Bros ma il lancio viene ritardato di tre anni e alla fine esce soltanto in video on demand. Il talento dei due fratelli non passa però inosservato agli occhi di M. Night Shyamalan, che gli offre un lavoro come sceneggiatori e produttori esecutivi dei primi quattro episodi della prima serie di Wayward Pines.  Poi nel 2013 guardano Prisoners, di Denis Villeneuve e allora hanno chiaro cosa devono fare. Quello stesso film ma spalmato in otto ore, con un mostro che mangia bambini e ambientato negli anni ottanta. La 21 Laps Entertainment decide di produrre il progetto, lo gira a Netflix che, pare, non fa passare nemmeno 24 ore prima di comprarlo.

Non un album di figurine, ma la ridefinizione di un mondo
Quindi la cosa è chiara: l’incontro nel capanno, il mostro alla Alien, i walkie-talkie, i capelli a caschetto, le biciclette, il font dei titoli di King, non sono una forma di plagio ma di consapevole citazione cinematografica. Non sono copie ma omaggi. Non sono soltanto citazioni ma sono richiami. Perché la logica di ST non è quella del dizionario. Perché ST non è un enorme scatolone dove gettare alla rinfusa chilate di LP e pupazzetti di ET. Perché ST fa qualcosa di molto più preciso. Piaccia o meno. ST ridefinisce “l’atmosfera” di un mondo, generando così un preciso sentimento, che funziona più o meno come una droga: la nostalgia.

Nessuno sfugge alla Nostalgia
Ci sono tre parole per dire Nostalgia in tedesco:

  1. Heimweh
  2. Sehnsucht
  3. Nostalgie

La 1. ha un preciso riferimento locale, la nostalgia della casa (das Heim). La casa estesa anche alla patria, la terra madre. La 3. ha un preciso riferimento temporale, il passato: in questo senso si avrebbe sempre nostalgia per qualcosa che si ha perduto. La 2. è la nostalgia romantica, quella che la vulgata vuole più riferita ai sentimenti, al trasporto, al vento delle emozioni. Nella radice etimologica del termine c’è però die Sucht, cioè l’assuefazione. Un Suchtigher, cioè uno che è abitato dalla Sucht, è un vero e proprio drogato. Quindi eccoci qui, quasi 16 milioni di spettatori.
Ma quale tipo di nostalgia sono riusciti a creare i fratelli Duffer?
Qui siamo alla seconda parte della frase:

E lo dico in senso buono

Di certo King si rende conto che un tipo di affermazione del genere, quella della prima parte, rischia di sembrare male interpretata. In altri termini, secondo una lettura frettolosa, potrebbe significare che ST sia soltanto un calco di quanto di buono è avvenuto in passato. E allora spiega, aggiungendo la seconda parte, più enigmatica e oscura: «lo dico in senso buono». Qual è allora il “senso buono” della citazione? Il che equivale a chiedersi: quale tipo di Nostalgia costruiscono i fratelli Duffer?

Il senso buono è questo, ed è quello che ne determina il successo: I Duffer mettono in scena quella che il sociologo indiano Arjun Appadurai ha definito la nostalgia del mai vissuto. L’incredibile gioco di prestigio di ST è infatti che insegna a desiderare un’epoca che quella grande fetta di telespettatori under 30 non ha mai vissuto, percependola però come qualcosa, in una certa misura, sottratta.

Del resto scrive Appadurai, «il tentativo di inculcare la nostalgia è un elemento dominante della moderna commercializzazione negli Stati Uniti». È una nostalgia “immaginata” che inverte la logica temporale e induce in desideri più pervicaci di quelli che potrebbero risultare dalla semplice invidia o dalla cupidigia. Questo, secondo il filosofo che per primo ha sistematizzato la nozione di Post-modernismo, Friederic Jameson, spiegherebbe anche il fenomeno della continua citazione nei film di fantascienza di oggetti e ambienti legati agli anni cinquanta o sessanta (del quale non è immune anche l’ultimo Blade Runner). E con un salto concettuale chiama poi questa operazione presentificazione.

Perché proprio gli anni ottanta?
Per capirlo bisogna guardare lo spot della Apple di ridley Scott del 1984.
Ecco qui:

In un futuro distopico che è platealmente un richiamo al romanzo di Orwell, l’umanità è ridotta ad essere prigioniera del grande fratello televisivo. A montaggio alternato una folla di automi marcia verso l’enorme schermo e contemporaneamente una ragazza, unica colorata come il simbolo della Apple, corre con un martello in mano per poi lanciarlo e distruggere lo schermo.
Lo spot finisce con il seguente messaggio:

Il 24 gennaio Apple introdurrà Macintosh. E capirete perché il 1984 non sarà come “1984”.

Con tutta evidenza gli anni ottanta sono gli anni in cui la tecnologia non è ancora esplosa a livello di massa ma già ne conservava le promesse. C’era non l’onnipresenza della tecnologia ma il suo elemento emancipatore. Prima ancora che la tecnologia si rivelasse in tutti i suoi aspetti, invadenti e pervasivi e non liberatori, l’immaginario futuro degli anni ottanta è l’immaginario di un mondo ancora capace di immaginare.
Perché allora gli anni ottanta?
Perché i Duffer capiscono benissimo che occorre ricostruire quel mondo lì, per poter ancora desiderare. Che occorre un mondo privo della pervasività della tecnologia, che non permette l’estraneo, lo Stranger, ma lo assorbe. Che occorre un mondo dove ancora l’Altro è possibile.


Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).

Matteo:
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