illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
Schemi e strategie di gioco, tecnica e tattica individuali. Nel botta e risposta tra Massiliano Allegri e Daniele Adani è nascosto il senso dello sport più bello del mondo.
Minacce di morte all’arbitro Orsato, teorie complottiste sul labiale del quarto uomo Tagliavento, l’angoscia della moglie di Santon per l’incolumità della famiglia, il rosso con VAR a Vecino e la doppiamente mancata espulsione di Pjanic. Eterno teatro di contestazioni e polemiche, anche quest’anno il derby d’Italia è puntualmente tornato a destabilizzare il quieto – si fa per dire – vivere del Bel Paese, creando fratture più profonde di quelle interne al PD. E non era facile.
La posta in gioco
Certo, quest’anno la posta in gioco era altissima: da un lato la Beneamata si giocava la possibilità di continuare a lottare per un posto in Champions League, dall’altro la Vecchia Signora voleva a tutti i costi imbastire, iniziare a cucirsi in petto, l’ormai vinto settimo scudetto di fila, con buona pace di un fin qui eroico Napoli. E tralasciamo anche il secolare antagonismo tra quelle che sono le due squadre più tifate d’Italia. Come al solito comunque, ad avere ragione, alla fine dei conti, quando la posta in gioco si fa alta, è stata la Juventus. “E ‘l modo ancor m’offende”, direbbe un Dante a tinte nerazzurre. Lo ammetto, tifo Inter: non si può essere perfetti. Ma qui non si parlerà della partita in sé, tantomeno degli errori di Orsato o di Spalletti. E di certo, in generale, si eviteranno discorsi imbastarditi, in un senso o in un altro, da quel profondo e ineliminabile sentimento che è il tifo calcistico.
L’intervista
L’elemento più rilevante dell’infernale post-partita è stata senza dubbio l’intervista rilasciata dall’allenatore della Juve, Massimiliano Allegri, ai microfoni di Sky Sport. Una dichiarazione chiaramente condita di tensione, corrotta da fraintendimenti, rabbiosa e auto-contraddittoria, e che francamente non restituisce l’immagine più veritiera della Juve degli ultimi quattro anni, quella gestita dal mister livornese. Nonostante tutto essa ha però saputo portare alla ribalta quello che è il più annoso e fondamentale dei problemi riguardanti il calcio, e di fronte al quale il mondo pallonaro si divide in due: da un lato, chi sostiene la tattica, il bel gioco, gli schemi da calcio d’angolo, la costruzione il più possibile “predeterminata” del gol; dall’altro, chi sostiene la potenza e la tecnica individuali, l’importanza del campione che risolve la partita sfruttando l’errore avversario che prima o poi arriva. Allegri fa parte di quest’ultimo schieramento: se il calcio si esaurisse nello “schema”, CR7 non varrebbe 400 milioni, Messi 250, Higuain 100, ecc. L’allenatore livornese percepisce come una critica, anzi come un’accusa, la semplice e legittima domanda rivoltagli – “per imparare, non per giudicare” – dall’opinionista in studio, l’ex-calciatore Daniele Adani.
Il calcio è una cosa semplice – esclama Allegri –: organizzazione difensiva e gesto tecnico del campione…Voi continuate pure a fare teoria.
Per un’analisi dettagliata dell’intervista, si rimanda al bell’articolo di Ultimo Uomo a questo link.
Tattica, anzi strategia
Partiamo dalla posizione sostenuta dai cosiddetti “puristi della tattica”, quelli contro cui Allegri sembra schierarsi apertamente. Ma ecco la prima questione: che cos’è, in generale, la tattica? E perché Allegri avrebbe fatto meglio a parlare di strategia? Per l’antropologo e gesuita francese Michel de Certeau, strategia e tattica si distinguono per ragioni che potremmo definire, impropriamente, “logistiche”: la tattica non ha uno spazio autonomo, si serve di quello lasciato libero dall’altro; la strategia invece si crea il proprio spazio d’azione. Antonio Gramsci, su tutti, ne fa termini fondamentali del comunismo italiano. La tattica è fatta di azioni particolari, di azioni contro, di picconate sul muro nei punti più instabili di esso. La strategia è fatta di attivismo, lavorio tout court, senza se e senza ma, tutto diretto all’obiettivo finale. Il punto è che la strategia non può esistere, in realtà, senza la tattica – ci credono solo i sognatori, gli integralisti e gli utopisti –, ma nulla vieta che possa esistere tattica senza strategia.
Allegri parla di “schemi”, parola “cinica e fredda” dice Adani. Molto più significativo è il termine che usa verso la fine della sua dichiarazione, “teoria”, a cui fa da contraltare il forse più nobile “idee” utilizzato invece dall’opinionista in studio. La teoria è metodologia, ragione, è ciò che sostanzia, dà senso a cose altrimenti disordinate, disorganiche. Se pigiamo a caso i tasti di un pianoforte, suoni e linee melodiche ne usciranno a prescindere. Ma solo le regole dell’armonia, o ancor meglio la “strategia armonica” del compositore daranno senso a quelle note, legandole tra loro attraverso lacci in grado di rendere il necessario, il reciprocamente funzionale, anche e soprattutto bello. L’esaltazione della “teoria” che non va giù ad Allegri ha infatti avuto quest’anno un referente fondamentale: Maurizio Sarri, allenatore del Napoli, unica squadra questa in grado di dar filo da torcere ad una apparentemente imbattibile Juve. Il gioco del Napoli, non a caso, è stato definito da più parti, tralasciando il sensazionalismo mediatico, “il più bel calcio d’Europa”. Ora, che il calcio non sia una forma d’arte va da sé. Il suo fine non è il bello, ma segnare e/o non far segnare. Ma la bellezza, rintracciabile anche nella partita che finisce 0-0, non è, nel calcio, un ideale puramente estetico, ma qualcosa di estremamente pragmatico, e finanche etico.
Pragmatismo ed etica del bel gioco
Giocare bene non è manierismo calcistico, non è pratica fine a se stessa, non è feticismo degli schemi. Giocare bene ha una funzione molto pragmatica: serve a vincere, a far gol e/o a non subirli, soprattutto se non si ha – questo il caso del Napoli di Sarri, ma ci arriveremo – una rosa puntellata di campioni. Il crearsi autonomamente spazi, attraverso una rigida disciplina tattica, attraverso l’adeguarsi di ognuno al ruolo che occupa nell’economia del gioco, al compito assegnatogli da quell’idea che informa l’operare di ognuno e di tutti, significa sapere esattamente cosa bisogna fare, dedurre (e non intuire) azioni dalle situazioni, possedere un metodo. Non è astratta teoria, è “l’idea che – per citare Adani – dà animo al gioco”.
Per Aristotele l’anima è perfezione di un corpo che ha la vita in potenza, è cioè quel principio che ordina ad un unico fine e tiene insieme funzioni già iscritte nella materia di cui sono fatti i vari organi. Non è astratta teoria, ma è un’idea che sa farsi pratica, attraverso la mediazione della tattica e della tecnica individuali. Non lo si potrebbe sintetizzare meglio di come ha fatto lo stesso Adani: “essere padroni del proprio destino”. Ma si sa, la palla è tonda: si può davvero imbrigliare il caso? Del resto, tornando al derby d’Italia, la strategia di Spalletti, anche in dieci uomini, aveva funzionato alla perfezione. Sono bastate due disattenzioni minime e una palla che sfiora il piede di Skriniar per ribaltare l’esito dell’incontro. La domanda allora è: quanto un’idea e la sua applicazione metodica assicurano il risultato a cui si anela? Una volontà preordinata garantisce il raggiungimento del fine che si prefigge?
L’Inter ha perso, ma “meritava di vincere”. Così come, per citare un commento trovato casualmente su Facebook, “se esistesse un dio del calcio, lo scudetto sarebbe del Napoli”. Parlare di un “dio del calcio”, come di “merito”, vuol dire riferirsi ad un universale, o perlomeno condiviso dal senso comune, ideale di “giustizia”. Era “giusto” che l’Inter vincesse la partita o il Napoli lo scudetto. La prospettiva strategica si appoggia spesso ad una giustificazione etica, fondata sull’ancestrale connubio tra il bello e il giusto. Per Platone la giustizia era reciproca armonia, equilibrio e proporzione, accordo virtuoso in base al quale ogni parte adempie al suo essenziale compito. Si tratta di quella ratio che Nietzsche sintetizzerà col termine “apollineo”, contrapponendola all’unica “etica” autentica, vitale, quella del “dionisiaco”, fondata su trionfo, piacere, caos. Non è il caso di parlare in questa sede delle grandi problematiche della filosofia morale, ma è interessante richiamare in questo contesto la Genealogia della morale in cui Nietzsche smaschera l’etica del “giusto”, del “merito”, del “bello”, l’etica di matrice socratico-platonico-cristiana, mostrando come non sia altro che la morale del gregge, dei servi, degli sconfitti, arma retorica sfoderata da questi ultimi contro la morale caotica e utilitaristica dei signori. La rotondità del pollone è simbolo perfetto della mancanza di certezze metafisiche, di punti di riferimento eternamente stabili, e nell’epoca attuale di trasvalutazione valoriale, l’etica del giusto e del meritevole appare per ciò che, secondo Nietzsche, è: artificio, prodotto dell’umano ressentiment. Vincere è l’unica cosa che conta. Meritare di vincere è un sovrappiù, non una legittimante conditio sine qua non.
Tattica o tecnica
Ora, se però si esclude il piano strategico-teorico, l’anima/idea che coordina e che rende il tutto superiore alla somma delle parti, non resta solo caos indistinto. Tra la teoria e il dato bruto, tra l’idealità e la nuda vita, persiste un piano intermedio, quello che potremmo definire, seguendo de Certeau, il piano della “tattica”. E come abbiamo visto, se la strategia esprime un’idea universale con un’azione a lungo raggio necessaria per crearsi il proprio spazio, sempre comunque servendosi, nelle situazioni contingenti, della tattica, dall’altro lato quest’ultima dimostra immediatamente e di volta in volta la sua efficacia, e questa può prescindere da qualsiasi strategia che stia a monte. La strategia teorica ha a che fare con l’accuratezza metodologica, la lentezza della traduzione dei principi sul terreno dell’azione; la tattica invece è predisposizione materiale, non coordina le parti in un’armonia, ma esalta le stesse, favorendo l’intuizione rispetto alla deduzione. La tattica individuale, a cui fa appello Allegri contrapponendola agli “schemi”, non ha a che fare con la pura naturalezza del talento (la tecnica individuale) ma non è nemmeno la coordinazione di ogni movimento, tale da produrre un ben proporzionato “tutto spirituale” altrimenti inesistente. La tattica è la razionalità meccanica già da sempre inscritta nelle cose stesse, è pura immanenza, è calcolo. La tattica agisce cioè nella totale indifferenza, tanto pragmatica quanto “etica”, del tutto. Non vuole crearsi autonomamente un proprio spazio: le bastano gli spazi lasciati dagli altri. Non ha bisogno di pianificare minuziosamente l’occupazione/edificazione dello spazio, essa è alla ricerca costante di spazi vuoti.
La teoria applicata al calcio, il metodo applicato all’azione, anche tralasciando ogni deriva integralista, ha due difetti fondamentali: a) non dà alcuna garanzia circa l’efficacia ai fini del risultato; b) rende più difficoltosa un’evoluzione della partita in senso adattativo. Anche pensando darwinianamente in fondo, l’evoluzione si serve di tattiche individuali (sopravvive chi sa adattarsi in base alle circostanze) piuttosto che di un’unica strategia universale (come potrebbe essere la legge del più forte, la legge immutabile per cui sopravvivrebbe solo il più dotato fisicamente). In questo senso, la tattica ha sempre a che fare con l’altro: non perché la strategia possa ignorarlo, ma se questa si limita a considerarne in astratto l’alterità, come negatività da superare dialetticamente, come quella necessità, quel vincolo, che sostanzia la regola stessa, la tattica non prevede la regola ma lascia sussistere l’altro in quanto tale, adattandosi appunto di volta in volta. Solo in tal senso gli spazi che si creano sul terreno di gioco non vengono riempiti di significato, invasi dalla teoria, ma vengono lasciati aperti. L’obiettivo non è la conquista ma l’incursione, non la guerra ma la guerriglia.
Adani insomma contesta alla Juventus il fatto di fare barbarica guerriglia pur avendo i mezzi dell’esercito romano. Allegri si limita a ribadirne l’efficacia. Ma da dove deriva quest’ultima se non dai mezzi tecnici individuali? Se però la tattica può sussistere senza strategia, la tecnica non può sussistere senza tattica. Motivo per cui dire tattica sottintende sempre e comunque la tecnica, e viceversa: anche uno come Cristiano Ronaldo, tecnicamente mostruoso, ha bisogno dell’intelligenza tattica, calcolatrice, sua e dei suoi compagni del Real Madrid (squadra che di certo non è ad oggi espressione di un’idea precisa di calcio) per fare quel che fa e valere quanto vale. In realtà, però anche l’efficacia della tecnica individuale non basta da sola a vincere sette scudetti e quattro coppe Italia di fila. Il rifiuto del “merito” ad ogni costo leggibile nel motto “vincere è l’unica cosa che conta” ci conduce così all’ultimo elemento di questa disamina: l’episodio.
L’Evento
Il gesto tecnico è teatralità, e in quanto tale ha bisogno di un palcoscenico, quindi di un vuoto, di un’assenza, di una mancanza, di un solco differenziale. Ma il vuoto è, prima ancora che palcoscenico teatrale, apertura svuotata di ogni senso, di ogni punto di riferimento metafisico, fondamento sfondato – direbbe Heidegger – necessario all’accadere dell’Evento. Per il calcio, così come per la vita, per la politica, per la storia, tecnica e tattica sono pane quotidiano. A volte ci si serve di strategie e pianificazioni più o meno efficaci. Ma chi è che vince alla fine? Chi, per una insondabile combinazione di caso (fortuna) e persistenza (ricerca di spazi vuoti), ha modo di sfruttare l’episodio. Ma questo si presenta, si dà, in tutta la sua “semplicità”. Plinio il vecchio riporta un aneddoto: Apelle di Colofone, il più grande pittore dell’antichità, aveva dipinto un cavallo. Il ritratto era perfetto, in virtù della tecnica sopraffina del suo autore, ma gli mancava qualcosa: Apelle non riusciva, infatti, a riprodurre la schiuma alla bocca del cavallo. Come vi riuscì? Lanciando sul dipinto una spugna imbevuta di acqua e colori che andò, secondo il racconto, a riprodurre fedelmente la schiuma alla bocca. E così lì dove non arriva la tecnica arriva il piede di Skriniar a deviare impercettibilmente un innocuo tiro sul primo palo in rete.
Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.