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Roger Federer, tra Cronaca e Filosofia del Tennis
01/02/2018|L'ANALISI

Roger Federer, tra Cronaca e Filosofia del Tennis

Roger Federer, tra Cronaca e Filosofia del Tennis
illustrazione di Simona Bramucci
parole di Luciano De Fiore
Roger Federer ha conquistato il 20° Slam in carriera. Il James Joyce dai “gesti bianchi” con la sua Wilson Pro Staff. Roger Federer è uno che in campo è tutto (forza, grazia, eleganza) e che fuori è lo svizzero per eccellenza, la medietas assurta al trono della gloria

Filippo Tommaso Marinetti è in piedi dietro un tavolo, accanto alla cameriera in pizzi. Dietro i due, campeggia una tela di Umberto Boccioni, esposta oggi al MoMa: Dinamismo di un footballer, del 1913, il più famoso quadro d’autore sul calcio. Peccato che quest’immagine sia un fake, un fotomontaggio realizzato per “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943,” a cura di Germano Celant, alla Fondazione Prada di Milano, dal prossimo 18 febbraio.
Resta il fatto che il footballer ideale di Boccioni non ha volto. Eppure, riesce a esprimere la quintessenza di uno sport allora quasi agli esordi, e già iconico. Altri artisti hanno ritratto calciatori, per esempio Titina Maselli, cogliendone l’essenza nell’azione. Se un quadro simile fosse dedicato al tennis, difficile che i tratti del tennista ideale non tradirebbero quelli di Roger Federer, il James Joyce dei “gesti bianchi”, nella definizione di Leland de la Durantaye: egualmente geniale, poliglotta, versatile come nessuno, naturalmente dotato ed essenzialmente invincibile. Al punto che Mats Wilander, uno che comunque si è portato a casa sette Slam, sentendosi al confronto non più che un onesto pallettaro da terra rossa, ha detto: «Vorrei stare nelle sue scarpe per un giorno per sapere cosa si prova a giocare in quel modo».

La 500 giardinetta bianca di mia madre raccattava me e mio fratello Luca all’uscita di scuola e, traversando Roma dal quartiere Trieste fino all’EUR, ci scaricava una buona mezz’ora dopo al Tre Fontane, alla scuola tennis del CONI. Sotto, rigorosamente in bianco, ma in tuta blu indossata contorcendosi sul sedile di dietro. Prese le nostre racchette (Maxima torneo crema e rossa e Spalding bianca e nera), ci schieravamo tra le truppe dell’austera signora Sandonnino, già campionessa italiana e doppista a Wimbledon.
La mia breve carriera CONI iniziò, a undici anni, col grado di “cerbiatto”. Un giorno, su un campo attiguo, vidi un sedicenne alto e forte, opposto da solo a due “canguri”: era Adriano Panatta. La palla, già a quel livello, viaggiava ad un’altra velocità rispetto ai nostri scambi, aveva tutt’altro peso. In tv non ci si rende conto di quanto veloce fili una Dunlop o una Babolat, colpita da un professionista. Più tardi, ho trascorso ore a veder palleggiare al Parioli il “bulldozer di Brașov”, Ion Tiriac. Capii allora che a quei livelli non avrei giocato mai e che il tennis può essere bellissimo.
Me lo confermavano i campioni che ammiravo agli Internazionali e quelli che, all’inizio dell’era Pro, presero ad esibirsi anche a Roma. Tra tutti, il mio preferito, John Newcombe, e un altro australiano, il Rosso magico: Rod Laver, il formidabile mancino vincitore nel ’62 e nel ‘69 del Grande Slam. Una sera, lo vidi giocare al Palazzetto dello Sport di viale Tiziano, insieme a Drysdale, Okker e Roche. Ero sicuro che non avrei visto più nessuno giocare meglio di Laver, il migliore di un’età del tennis in cui “tappi” di uno e settantacinque o meno (come Solomon, Rosewall, e lo stesso Rod) ed eleganti signori che potevano ancora permettersi un filo di pancia (come Pietrangeli e Bertolucci) giocavano ancora con racchette di legno, come la leggendaria Dunlop Maxply Fort usata da Hoad e Laver, da Nastase e Panatta, dalla Wade come da Budge e Stolle. Una racchetta piccolissima rispetto a quelle di oggi, col piatto da 68 pollici e incordata in budello naturale tirato sui 20 kg.
Fino a Roger Federer. Fino a quando abbiamo capito in tanti, che il tennis poteva avere a che vedere col mistero e la metafisica, come ha dimostrato David Foster Wallace. Non si può non citarlo: «Impossibile descrivere concretamente la bellezza di un fuoriclasse. O evocarla. Il dritto di Federer è una possente scudisciata liquida, il rovescio è un colpo a una mano che lui sa tirare di piatto, caricare di topspin o tagliare – quello tagliato ha un tale nerbo che la palla cambia forma nell’aria e rasenta l’erba più o meno all’altezza della caviglia. Il servizio ha una velocità e un grado inarrivabile di varietà e precisione; i movimenti del servizio sono flessuosi e sobri, si distinguono (in tv) solo per il guizzo anguillaceo dell’intero corpo al momento dell’impatto. L’intuizione e il senso del campo sono portentosi, il gioco di gambe non ha uguali nel tennis: da piccolo era anche un prodigio del calcio. Tutto vero, eppure non spiega niente né evoca l’esperienza di guardare questo giocatore in azione. Di assistere, con i propri occhi, alla bellezza e al genio del suo tennis».

Ora è facile essere d’accordo: a Melbourne, ha vinto il suo ventesimo torneo Slam. Come lui, nessuno.
Ma Roger Federer è speciale non solo perché vince. Anche il suo “gemello diverso”, Rafa Nadal, ha vinto tutto. Ma vuoi mettere? Rafa è (o meglio, era) tutto forza ed esplosività. Prima di lui, Vilas – per restare tra i mancini. Ma nessuno di loro ci ha mai fatto saltare per aria dal divano, nessuno ci ha fatto vivere quei “Federer moment” che ancor oggi, alla veneranda età per un top player di 37 anni, ci regala lo svizzero. Di nuovo Foster Wallace: «Era impossibile. Era una roba alla Matrix. Non so che razza di suoni siano usciti dalla mia bocca, ma la mia consorte dice di essere accorsa nella stanza e di aver trovato il divano pieno di popcorn e il sottoscritto in ginocchio, con gli occhi che sembravano quelli finti a palla che si trovano nei negozi di cianfrusaglie. Questo è un esempio di Federer Moment, ed era solo in tivù, e la verità è che il tennis in tivù sta al tennis dal vivo più o meno come il video porno sta alla realtà percepita dell’amore umano».
Come fa? Guardate come si allena, intanto.

Su Nastase la bibliografia è consistente e l’aneddotica sterminata. Rod Laver ha scritto un’autobiografia, e se la merita. Open, di Andre Agassi, è tra i best seller del decennio. Anche su Federer le biografie si sprecano: giunto ormai al suo ottavo Wimbedon… Messo in bacheca ormai il suo diciottesimo Slam… Nessuno finora ha avuto la fortuna che ho avuto di pubblicare un libro su Philip Roth due mesi prima che smettesse di scrivere. Perché se le ginocchia di Nadal fanno giacomo-giacomo; se il gomito di Nole non ne vuol sapere di smettere di dolere; se l’anca di Murray è ormai sbilenca, lo svizzero invece ha ripreso a vincere anche dopo l’operazione al menisco: ha saputo riguardarsi, centellinandosi, evitando le superfici troppo dure, rinunciando perfino ad un possibile ennesimo Slam non giocando il Roland Garros 2017. Continuando però a tirare sempre molto, molto forte. Perché Roger Federer non è solo grazia ed eleganza: è anche forza e potenza dei colpi. Senza quindi mollare la racchetta degli ultimi anni, e già mitica: la Wilson Pro Staff RF 97 Autograph all black, in grafite ovviamente. Con il piatto da 95 o 97 pollici quadrati e tirata a 25 chilogrammi per le verticali e 23,5 per le orizzontali, reverse, cioè col budello sulle verticali (Anche se Roger non ama tenere la tensione fissa, sostituendo la racchetta ad ogni cambio palle, vale a dire ogni nove giochi, sempre in quelli di risposta). Federer sta alla Wilson Pro Staff come Jimmy Hendrix alla Fender Stratocaster.

Nessuno ha i suoi gesti e i suoi colpi. Tutti insieme, dico. Anche il povero Wawrinka, suo poderoso Sancho Panza svizzero, ha un rovescio sontuoso, forse un po’ troppo sbracciato. Pure Dimitrov tira bene il rovescio a una mano, come si conviene. Raonic ha un dritto pauroso, come Cilic. I Duemetristi (Zverev, Isner, Del Potro, Karlovic) possono esplodere venti aces a partita sopra i 200 orari, ma contro Roger Federer, di solito, perdono. Perché quasi impossibile avere tutti i colpi insieme, al massimo livello, dal fondo e a rete. Infatti, c’è chi sostiene che «nel tennis Federer occupa la posizione di Heidegger nella storia del pensiero. Un uomo estremamente poco complicato si è ritrovato nel ruolo del Profeta, colui che porta finalmente la Reincarnazione e la Luce in un mondo compromesso e sconsacrato».
La verità è che il secolo tradisce una qualche nostalgia per il mondo che apprezzava gli eroi. Non necessariamente e sempre eroi furiosi, alla Achille: se il nostro tempo ne ammette, di solito sono proprio divi degli stadi e delle imprese sportive. Il campione, un po’ come l’eroe omerico, dimostra che è possibile lo straordinario, che è possibile innalzarci oltre la medietà senza che ciò implichi la trascendenza.

Roland Barthes per primo ha avvicinato sport e teologia. Scrivendo di ciclismo. Pedalare su per una montagna è un po’ come studiare teologia, diceva: devi raggiungere il primo grado d’iniziazione per capire qualcosa. Il duello originario tra Ettore ed Achille sarebbe in qualche modo riprodotto dagli eroi della montagna. Uno di questi era Charly Gaul, il leggendario arrampicatore lussemburghese: «Beneficiario prestigioso della grazia, è esattamente lo specialista del jump; riceve la sua elettricità grazie ad un commercio intermittente con gli dèi; a volte gli dèi lo abitano, e allora lui meraviglia; a volte gli dèi lo abbandonano, il jump è essiccato. E a Charly non riesce più nulla di buono» (Roland Barthes, Le Tour de France comme épopée, in Mythologies, Le Seuil, Paris 1957, pp. 106-107).
Cosa dire allora di un torneo di tennis, meglio se di uno dello Slam? Qui il paragone con l’antichità risuona già nella parola “torneo”. Uno contro uno (purtroppo, il doppio sta perdendo appeal, di questi testi tempi). Partite epiche. Ognuno ricorda quelle che ha avuto la fortuna di vedere. A parte alcune che restano nella storia: la semifinale dei primi Open USA tra Arthur Ashe (nero e democratico) e Clark Graebner (bianco e repubblicanissimo), narrata nella sua interezza da John McPhee. O la semifinale dell’Australian Open 2000 tra Agassi e Sampras. Come un tempo, chi vince resta nell’agone e affronta il turno successivo. Nullo interveniente odio. Ciò nonostante, nel Medioevo gli incidenti fatali erano frequenti. Al punto che la violenza degli scontri indusse la Chiesa nel 1130 a proibire i tornei, scomunicando i torneanti e proibendo la sepoltura cristiana a chi ne moriva. La Chiesa di oggi, cioè la tv, si guarda bene dallo scomunicare alcuno. Per fortuna non muore più nessuno sul campo. E il duello continua a essere celebrato: nelle partite al meglio dei 5 set, in una partita né troppo corta né troppo lunga, un giocatore percorre da 4 a 7 km, scambiandosi con l’avversario centinaia e centinaia di colpi, spesso intorno al migliaio. Il jump, quel non-so-che di magico del vincente, impera. Roger Federer, su tutti.

Solo luci? Il faro della gloria sembra perennemente acceso su questo svizzero dai modi cortesi, padre irreprensibile di due coppie di gemelli, marito non chiacchierato della rassicurante Mirka Vavrinec (non esattamente un sex symbol), testimonial inappuntabile di marchi fortunati (Wilson, Credit Suisse, Mercedes, Rolex, Lindt, Jura, Moet & Chandon, Sunrise, NetJets, Nike e da poco anche Barilla) che lo rendono tra gli sportivi più pagati al mondo. Per entrare nel mito, aspettiamo soltanto che tutta questa perfezione venga incrinata. Perché non ha l’antipatia di Jimbo Connors che faceva colazione a base di Dr Pepper (l’equivalente del nostro crodino); non è matto come Ilie Nastase che chiamava Ashe “Negroni”; non tira pallate all’arbitro di sedia come John McEnroe; non è simpatico come Djokovic quando imita la Sharapova. Roger Federer è drammaticamente svizzero: fuori dal campo, è la medietas assurta al trono della gloria. Roger, per piacere: scappa con la Halep. Tradisci Mirka con una guardia svizzera. Insomma, dacci il pathos della trasgressione. Allora, sarai unico.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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