Èil 1973, negli Stati Uniti esce Westworld, film fantascientifico di Michael Crichton. L’anno successivo approda in Italia con il titolo Il mondo dei robot. Ben presto si afferma come cult grazie alla eccellente interpretazione del noto attore Yul Brynner e all’impiego rivoluzionario della grafica computerizzata per l’elaborazione degli effetti speciali. Per fare un piccolo excursus sulla trama: nell’allora lontano anno 2000 viene costruito un parco divertimenti, diviso in tre aree tematiche, la Roma Antica, il Medioevo e il lontano Far West, popolato da androidi programmati per interagire con gli esseri umani, senza poter ledere in alcun modo la vita umana. Si tratta di un gioco di ruolo dal vivo. Nel parco i visitatori agiscono senza regole alcune, ma l’intrattenimento è destinato a volgere verso un drammatico epilogo.
Nel 2016 Lisa Joy e Jonathan Nolan (sceneggiatore di film del calibro di Memento e Interstellar) riaprono il sipario su questo universo ultra-tecnologico, reinterpretandolo nella forma di una serie TV prodotta dalla HBO, con l’aiuto di un portento del grande schermo quale Anthony Hopkins. Chi ha scoperto Westworld per la prima volta (come chi vi ha fatto ritorno) è probabilmente in trepidante attesa, ansioso di scoprire i rivolgimenti previsti dalla seconda stagione programmata per la fine di quest’anno o per l’inizio del 2018. Nel frattempo tanti sono i quesiti lasciati aperti dalla prima stagione: che cosa sono la coscienza e l’autocoscienza? Quando e come nasce la coscienza di sé? Cosa intendiamo con il termine libertà? Come interpretare e giustificare le soglie che quotidianamente poniamo tra giusto e sbagliato o tra il “noi” e il “loro”? Sono altrettanto considerevoli le teorie portate in campo (riportate alla coscienza) come ipotetiche soluzioni ai quesiti sopra citati o come giustificazioni dell’intero sistema di Westworld. Ce n’è veramente per tutti i gusti, si parte dal mito della caverna di Platone, proseguendo fino alle teorie cartesiane sul corpo-macchina, continuando verso il concetto spinoziano di libertà, per giungere infine alla corrente psicoanalitica, al test di Turing e alle teorie dello psicologo Julian Jaynes circa la nascita della coscienza, la morte degli Dèi e il crollo della mente bicamerale.
Un diverso punto di vista
Eppure qualcosa, solo apparentemente ovvio, potrebbe essere sfuggito, potrebbe essere rimasto inesplorato agli occhi degli attenti telespettatori. Dal 1973 al 2016 sono trascorsi decenni: se da una parte l’anno 2000, pensato nel film come tempo della realizzazione di quel lontano futuro fantascientifico, è ormai passato, dall’altra quello che sembrava un visionario accadere assume adesso il volto di un futuro prossimo, di un presente in ogni momento possibile o piuttosto sempre più possibile. Le differenze, in parte prevedibili nonché fisiologiche, tra film e serie TV sembrano testimoniare proprio questo divario temporale e socio-culturale. Basti pensare, prima di ogni altro esempio, alla traduzione del titolo della pellicola del ’73, Il mondo dei robot. Ciò che cattura l’attenzione negli anni Settanta è la possibilità di realizzare macchine, robot, androidi tanto complessi da essere quasi perfettamente simili agli esseri umani. In effetti tale eventualità è immaginata, ma al tempo stesso in qualche sottilissimo modo negata: gli androidi (nel film) sono esteticamente del tutto simili agli umani eccezion fatta per le mani (non a caso il segreto della nostra individualità sembra risiedere proprio nell’unicità delle nostre impronte digitali). Nel 2016 il titolo della serie TV rimane invariato rispetto alla versione americana originale, ma come di consuetudine viene aggiunto un sottotitolo, il risultato finale è: Westworld, dove tutto è concesso. In un presente che non vede il futuro immaginato come qualcosa di lontano (e forse in fondo non realizzabile), ma come un qualcosa già presente, almeno nella forma della potenzialità, il punto focale si sposta. Non è più sorprendente fantasticare su androidi in tutto e per tutto simili agli esseri umani, quello che si osa immaginare è la realizzazione di androidi coscienti di se stessi, eventualità che porta ad aprire un interrogativo del tutto diverso, di natura morale. Come relazionarsi con simili macchine? Sarà veramente tutto lecito nei loro confronti? Dove verrà posto il limite tra l’essere umano e una ipotetica macchina auto-cosciente?
Le evidenze (possibile spoiler)
L’interpretazione proposta si fonda su alcune evidenze che esulano dalla semplice scelta dei titoli in lingua italiana: gli indizi sono tanti e seminati nelle 10 puntate della prima stagione della serie TV. Nelle prime puntate il personaggio di William (titubante ospite del parco divertimenti) è principalmente il portavoce dell’interrogarsi morale circa l’interazione tra umani e androidi. Più avanti Dolores (l’androide più anziano, più volte riprogrammato) è la sirena che incanta e muove il telespettatore a valutare bene i termini della questione. Nelle ultime puntate, Maeve (residente che per prima si rivela in grado di scoprire la sua natura di androide) giustifica l’insieme delle riflessioni di carattere morale. Senza scendere ulteriormente nel dettaglio, i robot che nel 1973 venivano per lo più presentati come devianti in quanto guasti, nel 2016 manifestano la devianza nella forma di una autocoscienza, spontanea o condizionata, che complica ulteriormente la visione d’insieme di Westworld. Le diverse connotazioni assunte dalla devianza in esame fanno sì che gli androidi, presentati come carnefici nel film, assumano piuttosto nella serie TV le sembianze di vittime dei loro creatori.
Una possibile riformulazione contemporanea della questione animale
L’esegesi fin qui condotta può essere spinta oltre. Cartesio ne Il Discorso sul Metodo e ne L’uomo cristallizza in un linguaggio moderno la distinzione radicale tra essere umano e animale-macchina. L’animale, in quanto macchina, è a-razionale, privo di coscienza e incapace di comportamenti che esulino dalla mera reazione a stimoli. Le teorie del filosofo francese saranno riprese, in vari modi e da diversi pensatori, nel diffuso tentativo (come sottolinea Derrida in L’animale che dunque sono) di definire l’essere umano a partire da tutto ciò che egli stesso rivendica come proprio in quanto negato all’animale non umano. Nel 1803 Bentham, filosofo utilitarista, sarà il primo ad interrogarsi circa il riconoscimento dei diritti degli animali, pensando ad una simile legittimazione come ad una restituzione di ciò che l’essere umano ha illecitamente sottratto alle altre specie animali. Una simile rivendicazione è stata resa possibile grazie alla riformulazione della domanda fondamentale circa la natura dell’essere animale, la domanda è per Bentham: «[gli animali] possono soffrire?» Nel 2017 è più che diffusa la visione che riconosce alla vita animale un valore tale da rendere legittimo e attuale un discorso intorno ai diritti animali. Potrebbe però aprirsi presto una nuova questione, anticipata in qualche modo proprio dalla serie TV in esame, circa la possibilità di parlare dei diritti di quelle macchine che, seppur create da l’essere umano, possano dimostrarsi tanto sviluppate da essere considerate effettivamente senzienti e, nel caso estremo, auto-coscienti. L’interesse mostrato dagli automi verso il proprio sé sarebbe sufficiente a giustificare l’interrogativo circa il riconoscimento di certi diritti? Cosa distinguerebbe in effetti una macchina senziente e cosciente di sé da un essere umano? Dove porremmo e come giustificheremmo questa stessa soglia? Rispetto alla questione del riconoscimento dei diritti degli animali non umani la situazione era indubbiamente meno complessa, si trattava infatti di un riconoscimento necessario a seguito di un originario e illecito atto di privazione. In questo caso si parlerebbe invece dell’elaborazione di una nuova classe di diritti, in risposta al riconoscimento di una nuova forma di vita – artificiale – diversa da quella animale e da quella umana.
In conclusione
Il problema del riconoscimento dei diritti alle così dette intelligenze artificiali, intese come senzienti e auto-coscienti, è forse per alcuni un problema ancora troppo lontano. Un’altra suggestione, collaterale, può essere però tirata in ballo: dove origina la necessità di creare robot che, non solo riproducano sempre più fedelmente le caratteristiche psico-cognitive umane (fino ad arrivare a quelle considerate come distintive dell’essere umani), ma che siano anche fisicamente indistinguibili dai loro artefici? Che si creda o meno in Dio, la similitudine con la creazione biblica per immagine e somiglianza della divinità si pone come evidente. Si potrebbe giungere ad ipotizzare (e teorizzare) un modus operandi analogico – di riconoscimento e rimando – tra artefice e artefatto, come connaturato alla stessa mente umana e perpetuato da essa?
Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.