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IL RINASCIMENTO DEL VINILE
13/07/2017|L'ANALISI

IL RINASCIMENTO DEL VINILE

IL RINASCIMENTO DEL VINILE
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Marta Gambetta

 

Terminata la sessione di esami universitari, in un torrido 20 luglio del 2014, mi sveglio di buon’ora e decido di fare una passeggiata per gustarmi il fresco della mattinata estiva. Esco di casa e mi incammino tra le vie ancora adombrate dalle sagome dei palazzi. Dopo aver percorso alcuni isolati mi imbatto in un imprevisto mercatino dell’usato. I tendoni sono appena stati montati, la polizia ha da poco iniziato a chiudere al traffico la strada e i mercanti sono diligentemente impegnati a sistemare la propria merce. Quasi inosservata passo tra le precarie strutture curiosando i primi oggetti messi in vendita. In un banchetto alla mia sinistra è stato sistemato il primo oggetto, forse il più ingombrante della collezione. Mi avvicino, attirata da una tromba d’ottone, rilucente nonostante l’ombra, e sul corpo di legno leggo: “His Master’s Voice”. Mi informo sullo stato del grammofono, è in buone condizioni e funzionante, chiedo dunque il prezzo. Pensavo peggio, affare fatto. Compro qualche disco da 78 e da 33 giri, dopo di che decido soddisfatta di porre fine alla mia passeggiata. Tornata a casa sgombero il tavolino e vi colloco trionfalmente il “nuovo” acquisto. Dentro al corpo del grammofono trovo qualche puntina apparentemente non usata, sistemo il tutto e rimango a guardare quell’oggetto come incantata mentre con un panno pulisco un disco. Lo poggio sul piatto, aziono il meccanismo e avvicino delicatamente il braccio. Tutto il mio corpo è concentrato in questa azione. Sento un fruscio, mi siedo sulla poltrona, non sto nella pelle. Le prime note di Dickie Valentine prendono il via. Chiudo gli occhi, oltre i muri della mia abitazione il mondo cambia volto. Solo Cadillac e Chevrolet, colori pastello e acconciature ordinate. Rimango in uno stato di trance per qualche minuto. Il disco finisce, alzo il braccio e predispongo il tutto per ascoltarne un altro. Ora si fa sul serio. Preparo il Long Play della Sinfonia n. 5 in Fa maggiore di Dvořák (nella prima versione del 1945 di George Weldon). Ripeto meticolosamente la procedura. Lato A. Giro il disco. Lato B. L’orchestra è davanti a me. Vado avanti nel tempo, ripeto instancabilmente il rito. La puntina sembra indemoniata mentre la tromba recita Good Times, Bad Times dei Led Zeppelin. Sono insaziabile.
Continuo fino a notte fonda.

A VOLTE TORNANO…

Quella che avevo considerato un’esperienza mistica, irripetibile e in qualche modo unica era in realtà un trend già affermato negli USA e in Inghilterra, in via d’espansione anche in Italia. E’ stato infatti sufficiente consultare gli annuali report pubblicati online da IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) per rendermi conto della consistenza di questo fenomeno. La vendita di LP e di vinili ha mostrato negli ultimi anni una vistosa crescita assumendo così il ruolo motore nelle vendite di musica “fisica” (così definita per essere distinta dalla musica digitale o dallo streaming). Un simile fenomeno è stato per lo più interpretato come una moda vintage o come un escamotage per distinguersi dal consumo di massa e dare nuovo vigore a generi musicali da sempre considerati “alternativi” come il Rock (non a caso la popolazione che acquista vinili, on line o nei negozi, sembra prediligere proprio questo genere).
Ma qual è il senso di questo ritorno alle origini della riproduzione tecnica della musica? Che significato ha per il singolo fruitore questo ricorso storico?

LA LUNGA STRADA DELLA RINASCITA

Ogni ritorno esige una distanza dal punto di partenza. Nel 2017 la lontananza dai primi dischi a 78 giri e dai primi vinili è notevole. I primi grammofoni fecero infatti la loro comparsa verso la fine dell’Ottocento. A partire dal 1945 si ebbe per i dischi – ancora monofonici – una standardizzazione della velocità fissata a 78 giri al minuto; si dovette attendere ancora tre anni prima che la Columbia Records introducesse gli originali dischi in vinile a 33 giri che di lì a poco avrebbero sostituito i loro predecessori consentendo una durata di riproduzione fino a 30 minuti a facciata. Con la diffusione su larga scala ebbe inizio l’industria musicale.

Tutto questo processo costituisce un fatto rivoluzionario, non solo da un punto di vista sociale ed economico, ma anche da un punto di vista estetico. La riconfigurazione introdotta dall’apparizione del disco e successivamente del grammofono portò con sé risvolti tanto negativi quanto positivi (come autori del calibro di Adorno e Benjamin sono disposti in parte a riconoscere) ma per lo più problematici, necessitanti di una attenta analisi.

Sul piano sociale, come ben descrive Theodor W. Adorno nell’articolo del 1927 (rivisto nel 1965) dal titolo Volteggi della puntina, il grammofono diventa sin dalla sua creazione qualcosa in più di uno strumento di riproduzione musicale: «in un salone funzionale il grammofono rappresenta un mezzo immancabile dell’arredamento e si presenta come un armadietto di mogano coi suoi piedini rococò. […] Davanti al grammofono, che col suo megafono girevole e la sua robusta custodia della molla sta come un segno di confine tra due periodi di pratica musicale, s’incontrano entrambi i tipi borghesi amanti della musica.» Ma il piano socio-economico e quello estetico risultano intimamente legati. Seguendo le riflessioni di Adorno ne La forma del disco del 1934, il disco, cui la tromba del grammofono dà voce, è «il modello bidimensionale di una realtà che si lascia moltiplicare a piacere, si lascia spostare nello spazio e nel tempo e scambiare sul mercato. […] In base a qualsiasi criterio di autonomia artistica, quindi, la forma del disco sarebbe assolutamente la sua non-forma; essa non serve a nient’altro che a riprodurre e a conservare la musica […] vale a dire una musica che esisteva già senza il disco e che da questo non viene trasformata in modo rilevante.» Ma il disco, che nella sua dimensione determina inevitabilmente la brevità della musica che riproduce, è anche uno degli strumenti attraverso i quali l’industria culturale programma quello spazio che è identificato come “tempo libero” e per questo motivo sussiste una «mera identità tra la forma del disco e quella del mondo nel quale esso risuona; le ore della vita casalinga che vengono scandite dal disco sono troppo spente affinché l’intero primo movimento dell’Eroica possa dispiegarsi in esse; meglio si addicono loro danze basate su ottuse ripetizioni. Le si può sempre interrompere nel bel mezzo. Il disco è un oggetto di quel “bisogno quotidiano” che costituisce senz’altro la controparte di quello umano e artistico, poiché quest’ultimo non sarebbe incline alla ripetizione e all’interruzione ma sarebbe legato al suo luogo e al suo momento.» Sono ancora lontani, seppur presenti in forma germinale – soprattutto al livello concettuale – i tempi dei Compact-Disc, della musica scaricabile in formato mp3 e dello streaming di Spotify.

Restando con Adorno, il disco viene dunque considerato dal filosofo come forma che non altera o non conferisce a sua volta una forma e il grammofono viene visto di conseguenza come il medium della forma che assume la ricezione sociale della musica, ma l’analisi si spinge oltre considerando ciò che viene sacrificato nel passaggio dall’esecuzione dal vivo alla registrazione e alla riproduzione tecnica della musica. Riprendendo le osservazioni dell’autore a proposito della forma del disco si nota come egli non esiti ad ammettere che «essa non serve a nient’altro che a riprodurre e a conservare la musica, sebbene depotenziata rispetto alla sua migliore dimensione». Una simile riflessione sembra quindi essere perfettamente in linea con quanto affermato, su un piano più generale, dall’amico Walter Benjamin, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a proposito di quel fenomeno che viene definito come perdita dell’aura: «Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento; l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova. […] L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. […] Ciò che viene meno, insomma, può essere riassunto nel concetto di aura e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura.» Questa perdita avverrebbe proprio nel momento in cui «la tecnica di riproduzione, moltiplicando la riproduzione, pone al posto di un evento unico una sua grande quantità. E consentendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto.»

IL SENSO DEL RITORNO

Al netto di queste considerazioni, valutando la questione a fronte delle moderne conquiste in materia di riproduzione sonora (tanto analogica, quanto digitale) si determina una vera e propria complicazione del rapporto tra fedeltà nei confronti dell’opera d’arte riprodotta e autenticità della stessa. Se la tecnica si è spinta sempre oltre nel tentativo di una riproduzione che, soprattutto dal punto di vista sonoro-qualitativo, fosse quanto più fedele all’evento riprodotto, al tempo stesso essa avrebbe smascherato il suo carattere illusorio nel fallimento della restituzione di un evento che inevitabilmente perde la sua intima autenticità. Indubbiamente, tanto si è guadagnato a partire da questa perdita: una certa immortalità, una rappresentazione sempre più fedele (alla stregua di una nitida fotografia) dell’opera musicale che attraverso la tecnica si fa collezionabile, immediatamente disponibile, e diventa capace di raggiungere i suoi fruitori in luoghi e tempi altrimenti preclusi.
Eppure l’esigenza manifestata dalla contro-tendenza della rinascita degli LP riporta a un’origine che è già di per sé distante dall’originario e questo perché, se è vero, come afferma Benjamin, che «in linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile» – perché «ciò che gli uomini avevano fatto ha sempre potuto essere rifatto dagli uomini» – è altrettanto vero che «rispetto a ciò, la riproduzione tecnica dell’opera d’arte è qualcosa di nuovo», ovvero è qualcosa che assume, come visto, un tutt’altro significato.

A questo punto il senso attribuibile alla “tendenza vintage” presa in esame non può essere quello del recupero di un mezzo riproduttivo ritenuto maggiormente autentico e fedele rispetto alle versioni digitali odierne di larga diffusione. L’amante del vinile che considera la qualità analogica superiore rispetto a quella digitale probabilmente non è pienamente consapevole dei limiti qualitativi di entrambe le riproduzioni (digitale e analogica) ed esprime piuttosto una preferenza di gusto. Il senso profondo del recupero del vinile e dell’uso del grammofono, anche nelle sue forme più moderne, è forse quello della riscoperta della dimensione temporale, rituale e fisica della musica. Nell’epoca dello streaming musicale il grammofono riporta, anche se in maniera inevitabilmente parziale, ad una qualche fisicità. L’ascoltatore non presenzia all’esecuzione del pezzo, ma ricerca il disco, lo tocca, e pazienta durante l’espletazione del rito della preparazione del grammofono. Egli non sente distrattamente una traccia scegliendola rapidamente da una playlist o selezionando l’opzione random, ma ascolta un brano, lo riconosce come parte di un intero disco, e prende tempo, indugia concentrandosi sulle diverse linee sonore dei brani. L’ascoltatore che in questo presente si riappropria del vinile riconquista lo spazio e il tempo che la società contemporanea costantemente gli sottrae. Tra i nuovi adulatori del vinile, siano essi appartenenti alla nuove generazioni o alla vecchia guardia, sarà possibile ovviamente trovare diversi livelli di coscienza del fenomeno di cui essi stessi fanno parte, come già affermava Adorno: «Mentre il conoscitore passa in rassegna i diversi tipi di puntine e sceglie la più sottile, il consumatore vi getta dentro la sua monetina e forse il grammofono risponde a entrambi con lo stesso suono.» La tromba del grammofono o le casse del moderno giradischi probabilmente risponderanno con un suono simile producendo tuttavia un significato assolutamente diverso.


Marta Gambetta è laureata in filosofia con una una tesi sul pensiero morale di Cora Diamond. Nel 2017 pubblica con la casa editrice L’Erudita una raccolta di poesie dal titolo L’alba al tramonto.

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