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Promemoria per la Sinistra che verrà
08/03/2018|L'ANALISI

Promemoria per la Sinistra che verrà

Promemoria per la Sinistra che verrà
illustrazione di Chabacolors
parole di Luciano De Fiore
Le elezioni del 4 marzo hanno offerto uno spaccato chiaro del Paese, tutto votato al giallo-blu. Il palazzo della sinistra è apparso fatiscente come non mai. Ecco come Lega e M5S hanno incarnato il  passaggio epocale della politica italiana: da rappresentanza a rappresentazione.

I risultati delle elezioni del 4 marzo come una porta sbattuta, al di là della quale restano – sdruciti e dimessi – i vecchi panni delle Sinistre. Abbandonati da quello che eppure fu un esercito, ora in rotta. Anime senza un corpo, ha scritto Michele Serra. E adesso? Lo spiegone no, per favore. Anche se di ascoltare ragioni per interpretare il presente se ne sente, eccome, il bisogno.
Finito, definitivamente chiuso, il Novecento? Lo diranno gli anni. Personalmente, credo di no. Penso che i sentimenti e le ragioni possano riproporsi anche molto tempo e molti fatti dopo, scoprire nuove espressioni e incarnarsi in forze diverse. Per quanto dimenticati per lunghi periodi, possono sempre trovare una vena che li riporti in superficie. Antico e nuovo si contaminano di continuo e solo l’ingenuità dell’inesperienza può far ritenere che l’angoscia e il disincanto di questo ormai lungo e sfiancante tramonto della politica rappresentativa e democratica non possano tramutarsi, un giorno, in qualcosa di nuovo.

Stavolta il vecchio edificio della Sinistra è apparso davvero, ai più, fatiscente: una città deserta, mille stanze svuotate in un insensato labirinto senza più linfa, idee, speranze e programmi in comune. In comune: questa, per iniziare, è l’aria che è mancata, il vento che avrebbe spalancato le finestre, disperso le ceneri e ravvivato il fuoco della proposta e della sfida. La frammentazione, malapianta inestirpabile, ci ha avvinto invece una volta di più: tutti a rinfacciarsi colpe, sempre però autoassolvendosi, sorvolando immancabilmente sui propri errori, sulle proprie prepotenze, sulle proprie purezze inscalfibili. Corpi senza più anima.
È l’anno zero di quella Sinistra che pure, per lunghi anni, è stata in grado di tenere insieme memoria e speranza, fusione di intellettuali e popolo, cittadini e quadri politici e dirigenziali, capacità e competenze d’amministrazione e governo e istanze di progresso. Cultura e desiderio di cambiamento.

Adesso, c’è chi gira tra le macerie raccattando qui e là qualcosa che aiuterebbe a sopravvivere, mentre altri si acquattano tra i muri sbreccati, ridotte improvvisate dove tentare improbabili resistenze: ricominciamo da qui, forti dei nostri ideali. Ma quali? Quelli che ci hanno guidato allo sfascio, ad una rotta di proporzioni quarantottesche?
C’è chi ironizza sul 28% del PD a Roma Nord/Montesacro contro il 17,6 a Torre Angela. Sinistra dei salotti: presente!  Ma non è così semplice. La mappa dettagliata del voto dice inequivocabilmente, intanto, che i 5Stelle hanno vinto ovunque in Italia i redditi sono più bassi ed i giovani meno garantiti. Tutto il Sud e le periferie, mentre valli e pianure del nord sono feudi leghisti: ma lì l’euro sembrerebbe ricominciare a girare. Di qui, il mantra ricorrente: la Sinistra non sa (più) dare voce ai poveri e ai disagiati. Vero. A patto però di qualificare ulteriormente le ragioni di quel disagio. Che spesso, purtroppo, non è dovuto solo alla miseria economica. La politica, anche di sinistra, non è stata in grado di accompagnare la propria azione con una narrazione adeguata, il che è tanto più grave oggi che il racconto dei fatti tende a prevalere sulla loro sostanza, la percezione sull’appercezione.
L’ignoranza è divenuta quasi ovunque una virtù, sbandierata e benedetta dai mass media. Tanto meno ne so di politica, tanto più posso dire la mia. Tanto meno mi sono acculturato, scolarizzato, problematizzato, tanto più mi sento autorizzato a proclamare la mia santa ignoranza, che mi assolve da ogni responsabilità per il passato e per il presente. Il lavoro politico diviene impervio dove l’ignoranza concorre al disagio tanto quanto il basso reddito e l’esclusione sociale (perché, ed è vero, non si hanno lavoro, pensione, servizi). Chi non si allinea sarebbe elitista. Ma perché? È “elitario” dire che i meccanici ne sanno più degli altri di motori? Senza snobismi, ma senza inutili pudori.

Lega e 5S hanno incarnato questo recente, drammatico passaggio epocale della politica: da rappresentanza a rappresentazione. Non più rappresentanza di interessi e di idee, ma diretta rappresentazione del disagio, delle urla, degli strepiti contro il ceto politico-amministrativo. Si è passati in un decennio dalle banche dell’ira – istituti di credito timotico che come La Lega Nord capitalizzavano il risentimento – a sportelli Compro oro, dove l’oro della “gente” è la rabbia e la paura. Offrendo in cambio, pronto cassa, bersagli facili: partiti, istituzioni, politici più o meno corrotti, l’Europa e i migranti, contro i quali sfogare un ampio ventaglio di passioni-nere. La crisi della rappresentanza ha coinvolto anche i sindacati, le istituzioni scolastiche, perfino i livelli elementari di convivenza civile come i condomini, mai litigiosi come oggi (nel 2017, record assoluto di cause condominiali nei Tribunali italiani).
Prendere a pallate, metaforicamente parlando, i simulacri della politica è redditizio, nel breve. È un attimo, però, ritrovarsi dietro il bancone tra le teste di legno insolentite e accusate: basta vincere le elezioni. A Torino e a Roma, infatti, in poco più di un anno i 5Stelle hanno perso una fetta consistente dei consensi. Perché quando il ribellismo e il risentimento impaurito devono esprimere soluzioni praticabili di governo, i nodi vengono al pettine. A meno di non stravolgere definitivamente i meccanismi elettivi: ancora queste elezioni bene o male sono riconducibili a politici in carne e ossa. Non è un caso che Grillo spinga per elezioni completamente telematiche, per un referendum online continuo tra cittadini. Allora, ha detto nell’ultimo comizio prima del 4 marzo, il Movimento potrà sciogliersi nel bacino indistinto della rappresentazione diretta.

Minniti – ebbene sì – ha trovato le parole per spiegarsi a caldo la crisi: con Renzi e con D’Alema, con Pietro Grasso ed Emma Bonino, esce di scena la cultura della sinistra italiana del Novecento, «quel modo che abbiamo di spiegare i sentimenti come la rabbia e la paura ma di non saperli rappresentare e governare, di essere pragmatici ma senza organizzare più le passioni, di cercare i risultati ma con una estraneità intellettuale che giustamente ci viene rimproverata» (“La Repubblica”, 6 marzo). Lo stesso rottamatore ne è uscito rottamato.
Se è così, ed è così, ci si spiega in parte anche quel 10% in più al PD nei quartieri centrali romani rispetto alla periferia. Quei punti percentuali non sono tanto il premio della borghesia agiata al renzismo e persino allo scissionismo, non sono frutto soltanto di garanzie, privilegi e ricchezza. Per molti, sono anche effetto di qualche lettura, di un passato non remoto rivendicato e non subìto. Per alcuni, di una storia personale antifascista e libertaria. Se non effetto di un filo in meno di quel mix osceno di narcisismo e cinismo che comunque infetta sempre di più la borghesia italiana: Pasolini lo constatava già quarant’anni fa.
Quando si perde la colpa è di tutti, ma è soprattutto di chi non ha capito che da tempo c’è bisogno di una nuova cultura politica. Cultura: ecco la parola di cui invece sembra ci si debba vergognare, la parolaccia per la maggioranza dei nuovi italiani. Minniti ha ragione: il nostro retaggio è diventato un peso, «anche questo è stato sconfitto, il passato, un modo di stare al mondo, la sinistra che ha alle spalle i libri di Majakovskij e di Gramsci, un’antropologia percepita come aristocratica».

Non sarebbe male invece rivendicare la bellezza del sapere, la sua potenziale democraticità per poter essere di tutti, la sua superiorità sull’approssimazione e l’ignoranza, la sensatezza del porsi nuove e antiche domande cercando insieme agli altri risposte plausibili e concrete.
Ricordiamoci che le forme di governo non sono eterne. Alcuni libri di critici sottili della democrazia sono di nuovo dei best seller. Inutile dileggiare le loro opinioni, se non si riesce a controbatterle. Jason Brennan, per esempio, sostiene da Georgetown che la democrazia dovrebbe essere giudicata dai suoi risultati, e i risultati non sono abbastanza buoni. Proprio come gli imputati hanno il diritto a un processo equo, i cittadini avrebbero diritto a un governo competente. Eletto da gente informata e consapevole. Se la democrazia diviene dominio dell’ignoranza e dell’irrazionale, troppo spesso non si dimostra all’altezza delle attese. Brennan ne conclude che un nuovo sistema di governo – l’epistocrazia, il dominio dei ben informati – può essere migliore della democrazia, e che è tempo di sperimentarlo. Non che sia una gran novità: già John S. Mill, nell’Ottocento, proponeva di attribuire voti extra ai cittadini laureati o impiegati in lavori intellettualmente impegnativi. Attenzione: secondo Brennan, l’idea che sottostà all’epistocrazia non è che i bene informati hanno il diritto di governare, bensì che l’inesperto abbia il diritto di non essere governato da un incompetente.  Viceversa, le conoscenze di base dei cittadini americani sono sconfortanti, se non spaventose. Il 50% degli intervistati non sa rispondere a domande elementari come “chi è il presidente degli Stati Uniti?”. Il problema, per Brennan, è che queste persone votano. Esempi analoghi li fa per la Brexit. I sostenitori del “leave” hanno seriamente sovrastimato la percentuale di immigrati nel Regno Unito provenienti dall’UE, così come hanno sovrastimato l’ammontare delle risorse che il Regno Unito versa all’UE, mentre hanno sottostimato la quota di investimenti esteri che proviene dai Paesi UE.
Le critiche alla democrazia non sono appannaggio solo degli americani. Anche in Europa il belga David Van Reybrouck ha stravenduto il suo Against Elections: The Case for Democracy. Sostenendo che proprio la futilità delle elezioni, teatro di promesse vuote o fuorvianti, che sta minando la fiducia generale nel processo democratico. A suo avviso, viviamo un periodo pericoloso in cui ad un crescente interesse per la politica si accompagna un calo di fiducia: di qui quella che chiama “Sindrome della Fatigue Democratica”, una vera e propria malattia che affliggerebbe molte società occidentali.Un numero ristretto di persone verrebbe estratto a caso dalla lotteria e abilitato a studiare un determinato problema, in rappresentanza della popolazione in generale. Ogni ambito legislativo e del dibattito pubblico potrebbe essere messo a fuoco da rappresentanti diversi scelti a caso. Anche Van Reybrouck non propone quindi una gran novità: l’elezione a sorte era il sistema scelto dall’antica Atene e dalle repubbliche rinascimentali di Venezia e Firenze. Eppure, se ne parla da almeno un paio d’anni.

Una primavera di mille anni fa, nel marzo del 1848 rivoluzionario, partirono da Pisa dei giovani volontari. Volevano aggregarsi alle truppe napoletano-piemontesi che stavano per affrontare gli austroungarici. Era il Battaglione Universitario Pisano, 389 fra studenti e professori Normalisti su un totale di 621 uomini. Un’avventura che si sarebbe tragicamente chiusa in maggio nella pianura mantovana, tra Curtatone e Montanara. Nelle tasche di molti degli studenti caduti si trovarono i Canti di Leopardi. Un ragazzo, Alberto Bechelli, recitò morente la “Canzone all’Italia” al nemico che avanzava. Le truppe soverchianti del Feldmaresciallo Radetzky quel giorno furono bloccate da sei cannoni contro centocinquanta. E il giorno dopo, a Goito, i Piemontesi poterono avere la meglio.
È solo un momento dell’epopea risorgimentale, l’unica del civismo italiano prima della resistenza antifascista. Ricordiamocene, attrezzandoci a contrastare l’avversario di sempre: l’incultura, malattia insidiosa quanto la povertà.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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