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POST-FOTOGRAFIE [PARTE 1]
08/05/2018|L'ANALISI

POST-FOTOGRAFIE [PARTE 1]

POST-FOTOGRAFIE [PARTE 1]
illustrazione di Simona Bramucci
parole di Luciano De Fiore
Jean-Paul Sartre sosteneva che l’immagine è azione e non cosa. Ma chi è, allora, il soggetto di questo verbo? Una riflessione sull’accumulo di immagini non viste e archiviate nell’epoca della conversione del desiderio dell’istante nell’urgenza dell’immagine.

Alla fine, ha avuto ragione Naruto. Una Corte d’appello americana ha posto fine ad una controversia legale durata tre anni, e di cui hanno già riferito i principali organi d’informazione.
La People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) aveva fatto causa al fotografo David Slater che sosteneva di essere il titolare dei diritti di alcune foto, scattate nel 2011, di un macaco crestato sull’isola di Sulawesi in Indonesia, chiamato Naruto. Foto molto particolari: Naruto, armeggiando con una fotocamera lasciata incustodita da Slater, si era scattato dei selfie, sbirciando in camera con un largo sorriso a tutti denti.
La PETA, presentandosi come la “migliore amica” di Naruto, aveva chiesto al fotografo di pubblicare in un libro la serie di selfie di Naruto, donando il 25% dei profitti ricavati dalle vendite a organizzazioni che proteggono l’habitat dei macachi crestati in Indonesia. Slater aveva aderito alla richiesta nell’ottobre 2017, ma adesso la Corte d’appello statunitense ha annullato la sentenza. Secondo la Corte, l’organizzazione animalista non ha interpretato affatto il ruolo di “amico” del macaco, abbandonandolo dopo aver raggiunto con Slater un accordo non direttamente utile a Naruto. Piuttosto, se ne è servita per raccogliere fondi. Secondo la corte americana, è sconcertante che un ente il cui messaggio consiste nel sostenere che «gli animali non sono nostri, e che quindi non vanno mangiati, indossati, usati per divertimento o per sperimentazioni o abusati in qualsiasi altro modo, abbia di fatto impiegato Naruto come una pedina inconsapevole per i propri obiettivi ideologici». Insomma, secondo il tribunale la PETA non è stata per nulla all’altezza del titolo di “amico” del macaco.
La PETA ha sottolineato che in ogni caso il tribunale ha ribadito che gli animali non umani hanno il diritto costituzionale di appellarsi all’attenzione della corte federale, se maltrattati. Anche se la Corte non ha riconosciuto che sia stato proprio Naruto il macaco a scattare le foto, negandogli così il diritto di citare in giudizio – sulla base del Copyright Act degli Stati Uniti – chi di quegli scatti si è impossessato. Naruto sarebbe stato discriminato in quanto animale non umano.
Morale? Anche se ormai è un convincimento diffuso, grazie all’etica animale “antispecista”, che gli animali vanno considerati esseri senzienti, capaci di provare sensazioni articolate, secondo una linea di continuità con noi umani, per il tribunale statunitense le scimmie non possono pretendere diritti d’autore o citare per danni qualcuno per violazione del copyright.
Peraltro, da anni ormai nei centri di ricerca specializzati – come il Primate Research Institute di Kyoto – si offrono a primati strumenti per dipingere. I risultati non comprovano che le scimmie abbiano senso estetico o intenzionalità a creare alcunché di “artistico”, ma sicuramente attestano il fatto che provano un qualche piacere nell’attività di “dipingere”. Peraltro alcune di queste opere sono messe all’asta nei convegni della International Primate Society per finanziare progetti di conservazione.

Se siete arrivati fin qui, vi chiederete come mai riprendiamo questa notizia, apparentemente non memorabile. Perché invece lo è. E non solo per motivi etici, pure assai rilevanti, ma perché il caso del selfie di Naruto aggiunge qualcosa nell’attuale dibattito sulla postfotografia, sulla quale dunque torniamo a distanza di un anno circa.
Naruto ha scattato quei selfie. Di cui però non è stato riconosciuto “autore”. E noi, noi che investiamo sempre più tempo e energie nel fare foto piuttosto che nel guardarle, siamo davvero noi gli autori di questa cascata iconografica che connota il presente? Scattiamo talmente tante foto, in un’accumulazione incessante, che i nostri hard disk sono sempre più pieni di immagini non viste: l’homo pictor non di rado surclassa l’homo spectator, le due scomposte metà dell’homo photographicus attuale. Pare appartenere già ad un’altra èra comunicativa l’iniziativa di Silvio Berlusconi nel 2001, quando a fini elettorali fece recapitare a tutte le famiglie italiane la propria storia per immagini affinché la guardassero, sfogliandola.
Oggi, più che guardare, scattiamo, producendo spesso immagini invisibili a noi stessi. Tra qualche tempo la cosiddetta obsolescenza programmata dei sensori digitali delle nostre fotocamere (valutata oggi in circa 250mila scatti) ci andrà stretta. Se infatti l’immagine fotografica si è smaterializzata, distruggendo il mercato un tempo possente di pellicole e macchine fotografiche come Agfa, Kodak, Polaroid, lo stesso non è accaduto per l’hardware dei nostri smartphone, destinati comunque a “morire” oltre un tot di scatti. Che le aziende programmino di mettere un tetto volontariamente al ciclo vitale di un prodotto o smettano di supportarlo anzitempo per massimizzare i profitti, il risultato è lo stesso. En passant, la pratica dell’obsolescenza programmata è stata resa illegale in Francia per legge, nel 2015.

Il patrimonio d’immagini che ci riguarda non è solo costituito dalle foto che realizziamo e che poi postiamo su Facebook, Instagram o Twitter. Miliardi di altre (nostre) immagini sono raccolte dalle videocamere di sorveglianza  (la più alta concentrazione per metro quadro è a Londra, dove ve ne sono un milione e mezzo), dagli autovelox e dalla costellazione infinita di scatti realizzata da Google, attraverso Google Maps, Google Earth e Google Street View.
L’universo in espansione della postfotografia riguarda quindi anche le immagini riprese da altri dispositivi, potenzialmente disponibili a chiunque on demand: o perché ne abbiamo diritto (da quasi vent’anni è in vigore una normativa europea per la quale possiamo accedere alle copie delle registrazioni da videocamere istallate nello spazio pubblico che contengono immagini che potenzialmente ci riguardino), oppure perché lo scegliamo, come nel caso di Google Maps che ci consente di visualizzare le foto di un punto geografico qualsiasi fornite dai suoi utenti.
Il leit-motiv del più noto teorico della postfotografia, Joan Fontcuberta, nel suo ultimo lavoro tradotto, La furia delle immagini, è che viviamo un’epoca di bulimìa iconologica. Le immagini sono la fibra essenziale di questo nostro mondo dell’ipervisibilità. Valanga iconica, metastatizzazione iconologica, epidemia. Allora? Meglio contenersi a vantaggio di un’ecologia dell’immagine, magari dando un premio a chi ne economizza e ce le risparmia?
Ebbene, nota Fontecuberta, non è possibile in alcun modo raggiungere il grado zero d’inquinamento iconologico. Di qui l’invito però a scattare di meno, magari utilizzando quel che già è stato fotografato. Riscattandolo all’oblio che comunque inghiottirà ogni immagine digitale che, in quanto tale, non appartiene certo al registro di ciò che ritorna, salvo eccezioni, custodite in alcuni (milioni di) album virtuali. L’artista catalano tende però forse a sottovalutare l’investimento pulsionale implicito nello scattare, un coinvolgimento affettivo potente, certamente in parte narcisistico, e non meccanicamente sublimabile nell’adozione di immagini di altri.
Ricordo un’amica che per un po’ fece a meno dello smartphone: misura più drastica ancora, perché si era privata così anche del telefonare e del consultare le email, oltre che dello scattare immagini. Il periodo di rehab durò qualche mese: poi, come per le altre dipendenze, lo stimolo e la necessità si riaccesero e lo smartphone tornò nella tasca dei suoi jeans.

Anni fa, Penelope Umbrico ha voglia di fotografare un tramonto romantico. Non di guardare romanticamente un tramonto, ma di scattarne un’immagine. Scopre però che su Flickr (al marzo 2015) al tag “Sunset” corrispondono più di dodici milioni di scatti. Ricorrendo a un’unica lingua di ricerca e ad un solo portale, il rubinetto iconologico eruttava milioni di tramonti. Penelope ne seleziona (?) diecimila e li ricicla, combinandoli in un gigantesco puzzle a parete. Non ne scatta uno in più. Usa quelli che sono in rete, colti ovunque, frutto della romanticheria di chiunque. Ma, a parte il fatto che mentre lei si asteneva, l’epidemia di tramonti continuava, il suo lavoro prese ad essere a sua volta superfotografato: la sua istallazione Sunset, ovunque fosse esposta, spingeva sempre i visitatori a farsi un selfie davanti al muro dei sunset.
Pare dunque difficile ci si prospetti un’èra di parchi raccoglitori d’immagini, invece che di aggressivi cacciatori, come sostiene Sema D’Acosta. S’imporrà nuovamente il richiamo del collezionismo come tentativo di dare forma al caos? I tempi attuali, instabili, sembrerebbero suggerirlo, se è vero che il collezionista in fondo aspira a spiegare sé stesso attraverso un sistema coeso che dia in qualche modo senso alla sua esistenza. Fontcuberta cita la poetica del catalogo di Umberto Eco, tipica dei tempi d’incertezza rispetto alla forma e alla natura del mondo, laddove la poetica della forma finita sarebbe tipica delle fasi di sicurezza rispetto alla nostra identità. Tornerebbe in auge la tesi benjaminiana dell’artista-rigattiere che raccoglie immagini come frattaglie disparate, e che più che far nuovi scatti dà forma e significati nuovi a quegli scartati, a quelle photo trouvées in cui s’imbatte che siano di qualcuno, di nessuno o che abbiano la licenza Creative Commons e che pazientemente ricerca e archivia.
Joachim Schmid, teorico della Lumpenphotographie, ha sistematizzato una selezione d’immagini reperita su Internet in un’opera colossale – Other People’s Photographs – costituita da novantasei volumi, nei quali ha classificato le foto secondo una metodologia borgesiana: se nella supposta enciclopedia cinese di Altre inquisizioni gli animali si dividevano – tra gli altri – in lattonzoli, che s’agitano come pazzi, sirene, disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, che da lontano sembrano mosche, eccetera, nell’opera di Schmid le immagini vengono catalogate (ne ricordo solo alcune) in Airline Meals, Airports, Bags, Bird’s Eyes, Black Bulls, Cheques, Currywurst, Faces in Holes, Fridge Doors (in effetti, soggetto notevole), Hotel Rooms, Lego, November 5th 2008, Objects in Mirror, Parking Lots e cento altri modi che esprimano un qualche grado, anche lasco, di parentela. Gradi di relazione che comunque ridiano una qualche nuova voce a foto ormai mute: paesaggi irriconoscibili, scatti di coppie ignote, gruppi di cui non riconosciamo i volti né la provenienza, lacrime e sorrisi che alludono a dolori e a gioie incomprensibili. Foto che hanno smarrito un legame comprensibile con la realtà affettiva originaria, e che ci si consegnano nella loro nuova natura di enigmi. Immagini che non solo costituiscono quindi interrogativi in quanto tali, ma che li generano. Foto private che tendono ad una qualche nudità e a smarrire il loro significato originale perché buttate, o perse, o semplicemente sfuggite fuori dagli album (di carta, un tempo) o virtuali – come sostiene Anke Heeleman nella sua Boutique per foto private dimenticate.
Ed è proprio l’anonimato di questo materiale a dischiudere un nuovo potenziale creativo, rendendolo disponibile per nuovi ordinamenti e diversi significati. Insomma, la cultura visiva postfotografica pare registrare, da un lato, un’aggressiva messa in questione della nozione di autorialità e, dall’altro, una neolegittimazione delle pratiche di adozione, appropriazioniste, di immagini ormai altrimenti orfane. I gesti artistici si moltiplicano, mentre gli artisti/autori spariscono. Già Sartre peraltro sosteneva che l’immagine è azione, e non cosa.

La Casa dei Tre Oci di Venezia ha ospitato nell’inverno scorso una grande antologica dedicata a Werner Bischof (1916-1954), uno dei più importanti fotografi del Novecento, tra i fondatori dell’agenzia Magnum. Bischof morì su una carretera andina, in Perù, il 16 maggio 1954. Pochi giorni dopo, in Indocina, morì anche Robert Capa, altro mito della Magnum. Due giganti della fotoreportistica, due mostri dell’illusione faustiana di cogliere la realtà fermandola sulla carta. Basti pensare al più famoso scatto di Capa, quello del miliziano colpito a morte nella guerra di Spagna. Oggi, la figura del fotoreporter come cacciatore di momenti privilegiati – pubblici, come nel caso dei due grandi della Magnum, o privati come Henri Cartier-Bresson e Robert Doisneau – sta svanendo. L’istantaneità del bacio rubato, o del dramma di Phan Thị Kim Phúc, la bimba nuda e terrorizzata dal napalm a Trang Bang in Vietnam, tende a essere soppiantata dall’urgenza dell’immagine, pulsione irreprimibile per un pubblico in continua espansione.
Le normali pagine di Flick, Instagram e Facebook ospitano miliardi di fotografie, più o meno autorali. Ormai, esistono immagini di più di quarantasei milioni di utenti fb ormai defunti, ma con un profilo ancora attivo. La policy di Facebook riguardo la chiusura di account quando si muore è precisa: si può scegliere di nominare un contatto erede che gestisca un account commemorativo della persona morta, oppure di far eliminare il proprio account in modo permanente. Se non si sceglie di far eliminare l’account, questo verrà reso commemorativo una volta che Facebook “scoprirà” il decesso. Un gigantesco cimitero virtuale, continuamente visitabile senza fare un passo.
L’universo delle immagini si dilata e come nel vuoto concepito dalla fisica quantistica, non ha una vettorialità: mentre milioni di nuovi giovani utenti asiatici raggiungono la community fotografica con i loro fiammanti smartphone, altre migliaia defungono, senza però che le loro immagini spariscano con loro.
Eppure, il marketing – in questo caso, dell’automotiv – un’idea ce l’aveva avuta, e la rammenta sempre Fontcuberta. Per lanciare la nuova Captur, Renault nel 2013 ideò una promozione insolita: agli acquirenti dell’auto, regalava la Capture Life Camera. La sua particolarità? Non faceva foto, era una macchina fotografica “placebo”: «uno se la mette al collo e, poiché è un mero ornamento inutile, si vede costretto a vivere davvero, invece di rimanere ossessionato dal catturare la vita che è ciò cui ci indurrebbe una vera macchina fotografica».


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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