illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Luciano De Fiore
Arcangelo, il bagnino di Anzio, mi insegnò a morderlo con gli incisivi tra gli occhi, appena preso. Così il polpo sarebbe morto subito, e avrei potuto continuare a pescare senza che i suoi tentacoli mi s’infilassero dappertutto. Faceva un po’ senso, ma il risultato era garantito: poco dopo si sdilinquiva e smetteva di contrarsi. Non sapevo, ragazzino, che il mio morso recideva il cervello, disposto lì tra i due occhi, così simili a quelli di un gatto. Non sapevo neppure, per quanto una strana inquietudine al loro cospetto me lo lasciasse presagire, che i polpi sono quanto di più simile possiamo incontrare, qui sulla “Terra”, ad un’intelligenza aliena. E che potremmo apprendere non poco da questo incontro. Eppure, in termini evolutivi, l’intelligenza dei polpi – secondo Peter Godfrey-Smith – è un’assoluta, sorprendente anomalia. Forse per questo il suo libro più recente sta suscitando così tanta attenzione.
Ce n’erano molti, allora, anche vicino riva, e non solo a Ponente, intanati tra le rovine del palazzo di Nerone, dimora di elezione anche dei saraghi e delle loro cugine più rare, le orate golose di cozze. Se ne trovavano anche a Levante, nonostante gli scogli, non molti, fossero appena sommersi, ricoperti da un verde vellutello sdruccioloso. Proprio la scarsa profondità permetteva però di osservarli con calma e da vicino. Intanto, a riconoscere le tane – rigorosamente monolocali: il polpo è un animale socievole, ma solitario – con l’entrata in discesa, come piccoli garage subacquei. Quasi sempre ingentilite da qualche conchiglia bianca, la tonalità cromatica che preferiscono. Nei suoi occhi non c’è quel tipo di fotorecettori che consente la vista a colori. Il che tanto più sorprende, perché il polpo è cintura nera di mimetismo. Non ha un colore fisso, e lo cambia in un istante, intonandosi all’ambiente: ocra, se la sabbia è ocra, marrone screziato, se gli scogli in cui cerca rifugio sono di quel colore, rosso mattone, se intorno ha i resti di un imperiale opus reticolatum. E ciò grazie ai cromatofori che ha sulla pelle, uno schermo stratificato di sacchette di colori simili a pixel che gli consentono di cambiare a piacimento, magari per sfuggire a un aggressore o per catturare una preda.
A meno che non sia sera o all’alba, quando esce a caccia, il polpo se ne sta il più del tempo davanti alla propria tana. Sotto al capo, gli inizi di due tentacoli, uno a destra e l’altro a sinistra, come due possenti baffoni, mentre dietro si scorge pulsare il sifone posto all’entrata del sacco che contiene la maggior parte dei suoi organi.
Dopo ore in ammollo, costretto dai brividi a uscire, continuavo a insidiare i polpi calando dalle murate dei moletti una polpara – un sughero piombato di pochi centimetri, al quale sono fissati nella parte inferiore quattro ami a croce. Sopra le legavo un pezzetto di stoffa bianca, confidando nella loro predilezione. Da lontano, sentivo Fred Bongusto dal jukebox cantare Una rotonda sul mare, o Gino Paoli Sapore di sale. Ma era un tipo di pesca noioso: ne prendevo pochi rispetto a quanti me ne garantiva il lanzatore, la fiocina che mi ero costruito con un manico di scopa e che ogni sera riponevo ritta nella cabina del Tirrenia.
Ho trovato polpi anche in barattoli lasciati per incuria sul fondo, o acquattati in rimasugli di vecchie anfore, specie in Grecia. Alle Kerkennah, poco al largo di Sfax in Tunisia, ho visto calare a mare lunghe catene di boccali di terracotta, per poi salparle uno o due giorni dopo, a quel punto quasi sempre abitate dal mollusco.
Anche quest’estate ho trascorso una mezz’ora con un polpetto di pochi etti. Avevo appena letto una rassegna super interessante sulla “London Review of Books”. Piena di informazioni nitide su questo mollusco della classe dei cefalopodi, parente stretto di calamari e seppie, per intenderci. Può cambiare forma, privo com’è di un eso- o di un endoscheletro, ma questo lo espone molto ai suoi predatori, murene cernie e gronghi. Per sfuggire ai quali ha elaborato strategie non banali. Sapevo da me, da sempre, che il polpo è un animale intelligente. Anni d’interazione con questo stranissimo animale marino, capace di strizzare la propria massa anche di diversi chili passando in buchi grandi quanto una moneta, me lo avevano reso secondo per simpatia solo al cane, il mio animale preferito.
Un giorno, ne vidi uno mentre pescavo in pochi metri d’acqua. Era un polpo piuttosto grosso. M’immersi e prontamente si ritrasse nella sua tana. Poco dopo rispuntò, spingendo davanti a sé il cadavere di un suo simile, ormai sbiancato, che teneva in dispensa. Come a dire: volevi un polpo? Beh, eccolo. Tornai su come un turacciolo. Per quella stagione, niente più polpi.
Oggi so che, come gli esseri umani, ha un sistema nervoso centralizzato. La particolarità è che nel polpo non esiste una chiara distinzione tra cervello e corpo. I suoi 500 milioni di neuroni (più o meno quanti un cane; nel cervello umano ve ne sono 100 miliardi, tuttavia nel polpo il rapporto tra numero di neuroni e peso corporeo è molto alto) sono dappertutto e due terzi sono nelle braccia: ognuna delle quali può agire intelligentemente da sola, afferrando, manipolando o cacciando. I polpi riescono ad uscire da un labirinto, mentre un pesce o un’aragosta non trovano più il buco della nassa da cui sono entrati. Sono dotati di memoria e risolvono puzzle semplici. Sono capaci di svitare tappi di bottiglie e coperchi anche dall’interno, e di usare strumenti, pur di ottenere cibo. Sono molto voraci, perché hanno un metabolismo spinto. Devono crescere molto in fretta, perché li aspetta l’accoppiamento. E la morte. Questa creatura così complessa e intelligente vive infatti molto poco. Uno o due anni al massimo. Quattro, negli esemplari giganti del Pacifico.
Com’è possibile che l’evoluzione investa tanto su un animale che ha vita così breve? L’invecchiamento, in generale, viene spiegato in termini evoluzionistici col cosiddetto effetto Medawar: la selezione naturale tende a eliminare le mutazioni i cui effetti nocivi appaiono precocemente nella vita di un animale, ma è meno incline ad eliminare le mutazioni che si manifestano col tempo. E torna una domanda classica per la filosofia: per un animale del genere si può parlare di una qualche forma di coscienza? Di certo, hanno una soggettività pronunciata, sostiene Sy Montgomery in un altro libro interessante. Secondo Oliver Sachs, «è questione aperta se si possa usare la “C” di coscienza per quanto riguarda i cefalopodi. Ma se si accredita che il cane abbia una significativa coscienza individuale, allora lo si può pensare anche per il polpo». Un’intensità di vita così flessibile, in una forma così inaccessibile alla nostra simpatia, diceva del polpo William James.
Mi era evidente, mentre carezzavo delicatamente il polpetto che man mano si rilassava tra le mie mani, assumendo una tonalità sempre più chiara e arricciando le piccole braccia. Attenzione: ha otto braccia, non tentacoli. I tentacoli hanno ventose solo alle estremità, mentre il polpo li ha per tutta la lunghezza. Il polpetto era molto carino. Pareva tranquillo. Eppure, ci sono voluti i Beatles (Ringo, in particolare), per omaggiare questo animale così simpatico e, purtroppo per lui, gustoso. Non dico meritasse l’epopea melvilliana della balena, o quella che Hemingway dedica al marlin. Ma qualche verso sì, come quelli che Nico Orengo ha dedicato all’acciuga, o Montale all’anguilla. Quando lessi Ferito a morte, prima dell’arrivo sontuoso della spigola, mi aspettavo pagina dopo pagina spuntasse un polpo, tra gli scogli di Marechiaro.
Infatti la poesia non si è dimenticata del polpo. Vittorio Bodini ha rammentato un’esperienza spiacevole, ma che ogni pescatore conosce, una volta che lo si è pescato. Mentre John Ashbery, morto novantenne qualche giorno fa, riteneva An Octopus di Marianne Moore una delle più grandi poesie del Novecento, il suo polpo di ghiaccio una risposta credibile alla Terra desolata, capace di celebrare la diversità del mondo naturale come alternativa vitale all’apocalisse mitica di Eliot.
Non solo la poesia. Anche gli shunga – l’arte erotica giapponese – hanno dato rilievo alla meraviglia marina dalle otto braccia. Trasformandolo in una macchina per il piacere. Amia Srinivasan, agli inizi della sua ricca rassegna, ricorda l’incisione di Hokusai nota come Il sogno della moglie del pescatore, in giapponese Tako to ama, cioè appunto Il polpo e la donna del mare, la pescatrice di ostriche. Nella quale, addirittura, i polpi sono due: uno grande – che pratica un cunnilingus alla ragazza – e uno piccolo, che intanto la penetra in bocca col suo becco. L’incisione ha per sfondo il dialogo tra i polpi e la donna. Che sussurra: «Oh, odioso polpetto! Il tuo succhiarmi alla bocca del ventre mi lascia senza respiro! Ah! Sì … è … lì! Con la ventosa, la ventosa! … Lì, lì! … Finora erano gli uomini a chiamarmi polpessa!… Ma come fai? … Oh, confini e barriere sono spariti! Mi sento svanire!».
Ezra Pound, hai ragione. «È un elemento, la donna | È un caos |Un octopus | Un processo biologico |e cerchiamo di compiere… | TAN OIDAN, il nostro desiderio, alla deriva» (Cantos, XXIX/144).
Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.