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Pier Paolo Pasolini: gerarchie cariocas
02/11/2017|L'ANALISI

Pier Paolo Pasolini: gerarchie cariocas

Pier Paolo Pasolini: gerarchie cariocas
illustrazione di Chabacolors
parole e immagini di Luciano De Fiore
Nel 1970 Pasolini ha girato Medea e con Maria Callas vola in Brasile per ritirare un premio al festival di Mar del Plata. Quello che incontra è un Brasile fatto di corpi. Convinto con Merleau-Ponty che il più profondo fosse la pelle, Pasolini li caccia secondo una precisa gerarchia: il discrimine è anagrafico, non sociale, né economico. Non ci sono ricchi e poveri, ma giovani e vecchi.

Sertão. Non ha finestre né porte. Un luogo non localizzabile, ricorda Gianfranco Contini con João Guimarães Rosa, il maggior scrittore brasiliano del Novecento. Un immenso spazio semidesertico tra il Minas Gerais e il Pernambuco, punteggiato da improvvise piccole oasi di palme, luogo magico di opposizioni manichee: la legge e i cangaçeiros, il dardeggiare del giorno e il freddo della notte, l’ordine naturale e l’altrettanto naturale disordine, la guerra e la pace, la siccità e i grandi fiumi. Chissà se Pasolini ebbe in mente lo scritto del suo Maestro Contini, atterrando a Recife, sulla costa di quell’estenuato inferno. Chissà se in quelle opposizioni geomorfologiche Pasolini riconobbe un calco delle proprie intime, irriducibili contraddizioni.

Siamo nel 1970. È molto impegnato col cinema. L’anno prima ha girato Medea, protagonista Maria Callas. La grandissima soprano è diventata sua grande amica e lo accompagna in un breve viaggio in Uruguay e Brasile. Oggi, il Brasile traduce, legge con avidità e interesse e si interroga sull’opera di Pasolini. Ma allora, si era nell’epoca più buia del paese che conta di più nel continente, l’America Latina, che conta meno. Nell’aprile del 1964: l’esercito aveva deposto il Presidente João Goulart, istituendo la dittatura. Dal ’69 a Brasilia comandava il generale Médici, dando inizio alla stagione più triste e stragista del regime. Sospettati arrestati, torturati, esiliati (tra cui artisti e cantanti, come Chico Buarque de Hollanda, Gilberto Gil e Caetano Veloso), studenti e operai uccisi negli scontri con la polizia.

Come purtroppo accadde anche otto anni dopo in Argentina, la giunta militare al potere usò una delle ricchezze assolute del paese per coprire con le urla delle folle le grida degli oppositori. Facile: la squadra del Brasile per i Mondiali del ’70 in Messico era infatti leggendaria. In porta, aveva un portiere vero, Félix, e non un citofono. Come laterale destro schierava un treno espresso, Carlos Alberto. A centrocampo, un ragionatore pacato, Clodoaldo; lo “stilista” del Cruzeiro Wilson Piazza (che ho poi conosciuto a Belo Horizonte, dove aveva aperto una pompa di benzina), affiancato da una mezz’ala mancina di classe, Gerson. In attacco, schierava a destra Jairzinho, formidabile scattista del Botafogo di Rio, al fianco al centravanti tattico Tostão ed al mitico Pelé, allora ancora al Santos, al suo ultimo mondiale. Carlos Alberto, Gerson, Jairzinho e Pelé segnarono tutti anche all’Italia nella bella finale del mondiale.
Tutti sanno quanto Pasolini fosse appassionato di football. Teneva per il Bologna ed era lui stesso calciatore, un veloce esterno alto a sinistra, si direbbe oggi; e mai definizione gli fu più propria. L’anno dopo su “Il Giorno” esalterà proprio il talento dei brasiliani, distinguendo fra calcio in prosa (quello europeo) e quello in poesia (latino americano): «Chi sono i migliori dribblatori del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal».

Proprio nel momento peggiore della dittatura militare, Pasolini dunque vola in America del Sud con la Callas. Vanno a ritirare un premio per Medea al Festival di Mar del Plata. E ne approfittano per una breve vacanza. Pier Paolo, per vivere e scrivere: Gerarchia – pubblicata quasi subito al rientro su “Nuovi Argomenti”, ottobre-dicembre 1970 – e altre due poesie, Comunicato all’Ansa, Recife e Il piagnisteo di cui parlava Marx. Saranno poi inserite in Trasumanar e organizzar, la sua ultima raccolta. Gerarchia non è un taccuino di viaggio, di impressioni a caldo. È una nuova, disincantata riflessione sul Terzo Mondo, la prima dopo aver avvicinato una realtà sudamericana, dopo quelle favorite dai viaggi in India (1961), Egitto, Sudan e Kenia (1962), Yemen, Ghana e Guinea (1963), Marocco (1966/7), Uganda e Tanzania (1968/9). La struttura libera della lirica replica quella di un viaggio.

Il dubbio è il primo sentimento nel suo bagaglio. Soprattutto sul modello economico di sviluppo capitalistico. Arriva però da esponente di quel mondo: rappresentante di una merce – il capitalismo – che ritiene da tempo svalutata, testimonial di una fede – quella nel progresso – in cui non crede. E sbarca nel paese che sulla bandiera verde-oro ha scritto invece proprio “Ordem e Progreso”, ordine e progresso. Quest’ultimo è un termine centrale della sua riflessione. Non riteneva affatto che sviluppo e progresso coincidessero. E che fosse possibile, anzi doveroso, sganciarli. La Sinistra si sarebbe dovuta far carico, conquistato il governo, di far progredire l’Italia senza forzarne lo sviluppo distruggendone il passato e le culture che lo rappresentavano. Ed è proprio qui, nella possibilità di questo sganciamento del progresso dallo sviluppo capitalistico, che risiede il motivo più radicale e riposto di speranza: una strana speranza, perché irrelata alla fede, ma pur sempre religiosa.

Nel 1970 si vola in Brasile col Boeing 707. Spesso si fa scalo a Dakar, in Senegal, o a Recife – come Pasolini – appena sulla sponda sudamericana. Scende dall’aereo di una compagnia inglese che neanche esiste più da turista, con la coda tra le gambe. Attitudine di chi si sente in colpa, per una colpa non propria, ma per appartenere al mondo affluente, dei ricchi. Il sorriso è ambiguo, incerto tra il piacere dell’approdo in un luogo nuovo e diverso, e il pegno da pagare ai fotografi, in cerca del personaggio noto da effigiare. La dogana, e di là da quella, l’ignoto. L’attesa e la promessa del diverso, che ancora non vede, ma spera.

Per il primo pomeriggio è già in strada. Stranamente, in centro, tra gli alti edifici anonimi delle banche. Non a Copacabana o a Ipanema, le grandi spiagge lungo le quali si schierano i principali alberghi della capitale fluminense. In centro invece, zona assai poco turistica, specie allora. Dove un’umanità europea, abbandonati gli stenti e le povertà dei paesi natii, ha ricreato un mondo simile a quello da cui proveniva, con l’ambizione di ricostruirsi una vita dimenticando l’esilio al quale ci si è votati. L’albergo in cui Pasolini si trova è in rua Resende. Lapa: era ed è la Pigalle di Rio. Escludo che la Callas possa esser scesa in un albergo del quartiere della prostituzione e della droga. Negli ultimi anni lo hanno pettinato e ammodernato: è pieno di locali (il più famoso oggi, il Rio Scenarium), ma resta pur sempre un posto tra i meno tranquilli di Rio, dominato dal vecchio acquedotto ad arcate della città coloniale.
E inizia così la compulsione della ricerca, come se anch’essa fosse una colpa. Pasolini si trova quindi nel luogo che più direttamente lo avvicina all’ascesi, come definisce il sesso in questi versi. À la Sade, che non certo a caso lo ispirerà per Salò, quattro anni dopo. È sceso in quell’alberghetto, da solo, per rimorchiare e scopare. Un’ascesi che non passa attraverso la mortificazione, bensì attraverso l’esaltazione del sesso, “del cazzo” – scrive qui, ancora una volta volendo sottrarre aura, piombare la pulsione, mostrandola nella sua più diretta e carnale espressione.

Mille cruzeiros la tariffa pattuita col ragazzo. Una prestazione che non porta requie. Non c’è Oceano che tenga – divinità, forza prodigiosa – a snaturare la pulsione, a strappare Pasolini dalla sua ricerca ossessa di gioventù e di corpi senza anima – poiché l’anima è per sempre in Susanna, sua madre. La caccia segue una precisa gerarchia, la gerarchia del titolo. Poveri vecchi, sono gli ultimi della fila: non hanno speranza, appartengono al passato, alla morte. E tuttavia Pasolini s’iscrive alla loro schiera, perché sente di iniziare ad appartenervi: d’altra parte, si sente “una forza del passato”. Detesta la vecchiaia perché sa di esser troppo vecchio per essere il figlio che è. Un vecchio figlio di 48 anni. Non è tanto quindi l’età anagrafica a pesargli, ma l’età sentimentale, filiale.
Resiste nelle posizioni di testa della gerarchia, anche in Brasile, qualche anziano intellettuale. Capace di issarsi – grazie alle sublimazioni – quasi alle vette dei ventenni popolari e marchettari che si prostituiscono sul lungomare di Copacabana. Intellettuali e giovani prostituti che, come Virgili, lo guidano nella conferma che la vita è uguale dappertutto e che, per viverla, paradossalmente, c’è bisogno di intelligenza e di amore. La sostanza della Gerarchia è questa. Il discrimine è anagrafico, non sociale, né economico. Non ci sono ricchi e poveri, ma giovani e vecchi. La lama della speranza e del riscatto salva i corpi dei primi e scarta i secondi. Pasolini era interessato al corpo. Degli altri, e al proprio. Con Merleau-Ponty, convinto che il più profondo fosse la pelle. Corpi esposti, firma della vita, fenomenologia dei sentimenti e insieme geografia delle sofferenze, delle gioie e degli abbrutimenti. Anche perciò è così interessato dai ragazzi africani e indiani, e da quei giovani che lo accolgono, interessati e ambigui, sulle spiagge di Rio. Sono loro i primi nella gerarchia pasoliniana. Grazie alla loro giovinezza che li preserva ancora, ma per poco, dall’aver detto sì alla volontà della vita.

Ahi, falsa coscienza, direbbe Sartre. Punta sulla resilienza delle periferie del mondo capitalistico, le sue residue speranze sono rimesse alla capacità dei poveri di opporsi all’omologazione socio-economica imperialistica occidentale, e poi ne sfrutta la miseria. Di nuovo prende forma il mito dell’altro, di una diversità alternativa. Di nuovo la tentazione dell’idealizzazione del sottoproletariato urbano che già segnò il suo arrivo a Roma nel ’50. L’innocenza del popolo. Innocenza che sa benissimo non esistere: lui per primo sa che non c’è origine. Ha avuto occhi per capire quanto crudele e sviato possa essere il povero; quanto criminale possa farsi l’alienato, il negletto, l’ultimo. Vivrà ancora, fino all’ultimo, in questa forbice contraddittoria: la denuncia di chi ha perverso, rendendo pervertiti gli umili, e l’idealizzazione di questi ultimi.

Infine, la poesia ci offre il ritratto di una favela, tra quelle arrampicate sulle colline di Rio. Ovunque. E non solo a Rio, ma in ogni città brasiliana. Incluse nel tessuto urbano: inestirpabili (ci vivono centinaia di migliaia di persone, a Rio milioni), e allora tanto vale farci i conti, cercando di non renderle feudi dei trafficanti e della delinquenza. A Rio incombe oggi sull’estremità nord di Copacabana la favela di Babilonia, nella quale fa affari uno dei ristoranti che va per la maggiore, Estrelas da Babilonia, stelle di Babilonia, e pare di esser già in Petrolio.
Pasolini non rinuncia ad un tocco di lirismo: la favela come Cafarnao sotto il sole. Dalla quale calano a frotte verso le spiagge i ragazzi, per lo più mulatti – oggi circa il 65% dei brasiliani non è bianco. Con i quali istaura un dialogo. Falso, purtroppo, per quanto Pasolini non lo dica, perché non c’è dialogo tra chi paga e chi è pagato. Anche se ci si può scoprire dalla stessa parte; anche se da comunisti s’incontra un sovversivo. E poi un bel poliziotto dalla nuca rasata. Dove il comun denominatore è costituito dall’innocenza presunta, sia delle vittime, sia dei giovani loro carnefici. Il giovane soldato, addestrato a colpire e torturare i sovversivi suoi coetanei, cade anche dalla parte dei poveri, dei cristi, degli sconfitti. Solo che non lo sa. La gente, secondo Pasolini, non sa nulla. Questo non sapere la salva e la protegge.

Il Brasile, nella sua disastrata condizione di paese povero e sotto il tacco di una Giunta militare, gli appare ancora come un’isola possibile di anticonformismo, di resistenza, in grado di placare la sua ansia di giustizia. La poesia non è il luogo per rammentarsi di quanto orrendi fossero quegli anni. Quante ingiustizie e crimini l’America Latina dovette sopportare, in Brasile come nel Paraguay del dittatore Strössner, e poi nell’Argentina dei Colonnelli e nel Cile di Pinochet. Colpa certa del capitale è aver diviso il popolo, a caso, mettendo fratello contro fratello. Così, chi viene selezionato per far parte degli squadroni della morte, si trova solo per caso sulla sponda opposta di chi invece ha gli occhi cavati. Colpa e caso si legano in un nodo inestricabile, come nell’Edipo Re che aveva trasposto al cinema, ed al vertice della Gerarchia c’è quindi anche ambiguità. L’appello finale è al Brasile, terra natale nella quale si ripropongono ancora battaglie già vinte nei Paesi dell’opulenza, e ora di nuovo perdute. Troppo facile. Così come l’evocazione di un angelo inconsapevole, che vuol vedere nascosto in ogni brasiliano.
Sono trascorse due settimane. È tempo di tornare. A chiudere questa stagione di ultime speranze, l’anno seguente girerà il Decameron, il primo film della “Trilogia della vita”, con I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). Poi l’abiura, Petrolio e Salò, o le 120 giornate di Sodoma. E quella notte tragica, all’Idroscalo.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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