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Il Significato ritrovato di Occidentali’s Karma

illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Lorenzo Di Maria
Francesco Gabbani è un filosofo oppure la sua è tutta una messa in scena? Di certo Occidentali’s Karma, la hit con la quale ha vinto Sanremo 2017, è divisiva. Occorre allora stare al testo, strofa per strofa.

Rendere Francesco Gabbani un filosofo è irrispettoso, tanto per i filosofi quanto per lui. È un artista, e in quanto tale non gli si chiede potenza argomentativa ma solo rappresentativa. Questo serve a rispondere, da un lato, a chi odia il vincitore dello scorso Sanremo perché si atteggerebbe a filosofo (falso!), dall’altro a chi, purista di una musica “alta”, tralascia la lezione hegeliana per cui l’arte deve sempre adeguare la forma al contenuto, e nel nostro caso il senso del testo scritto da Gabbani e Fabio Ilacqua si sposa alla perfezione con il genere musicale che sfrutta, orecchiabile e ironico per arrivare a tutti, moderno e pieno di synth per rappresentare al meglio il mondo che cambia. Già il testo, è proprio questo ad essere “divisivo”. Perché c’è chi lo considera un concentrato di filosofia, chi invece soltato un accumulo di citazioni giustapposte casualmente. Vediamo meglio.

Essere o dover essere

Il dubbio amletico

Contemporaneo come l’uomo del neolitico

Titolo – accapo – Oggetto: il dubbio amletico dell’essere o non-essere, un dover essere che significa apparire, fingere, “truccarsi”. A corollario di ciò però aggiunge che quel dubbio è “contemporaneo come l’uomo del neolitico”. Ci sono due modi di intendere questo parallelismo. Da un lato lo si può pensare nel senso ironico-paradossale del suo essere ormai obsoleto, contemporaneo come potrebbe essere contemporaneo un uomo primitivo. Ma ci si può trovare anche un altro spunto di riflessione: il dubbio tra l’essere e il dover essere è un dubbio di origine metafisica. Si tratta di scegliere se adeguarsi alla realtà fenomenica o vivere in funzione di una realtà ideale o fatta di ideali, comunque “altra”. Sì, questo oggi è un dubbio davvero preistorico: molti sono gli studiosi a ritenere che stiamo assistendo, con l’affermarsi definitivo del digitale, ad una svolta epocale, quella in cui l’era che alcuni definiscono “Postumano” verrebbe a sostituire il Neolitico. Quindi anche l’epoca contemporanea che va chiudendosi, e a cui ci aggrappiamo strenuamente con le unghie e con i denti della “nostalgia”, fa parte del Neolitico e come tale anche ad essa appartiene il dubbio propriamente “metafisico”, anche ad essa appartiene un dualismo che ha ormai le generazioni contate.

Nella tua gabbia 2×3 mettiti comodo.

Intellettuali nei caffè

Internettologi

Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi

Malgrado i chiari toni di polemica, non c’è alcun tipo di complottismo del tipo “il web ci controlla” nella canzone di Gabbani. Semplicemente si dice che i caffè intellettuali sono stati sostituiti da Internet come non-luogo di incontro. Ed è anche possibile che quella “gabbia 2×3” non sia solo la propria cameretta di 6 metri quadri con la scrivania, il pc e una connessione a internet, ma anche il proprio smartphone, grosso magari 2 pollici per 3 o giù di lì, non-luogo per eccellenza dell’isolamento rispetto all’esterno. In quei momenti di solitudine virtuale, impermeabili al mondo di carne ed ossa, ci incontriamo con altri individui virtuali, facciamo un’autentica, originaria, esperienza dell’Altro, e lo avvertiamo come una minaccia. Essendo privo di carne ed ossa, però, il mondo di Internet ha sospeso tutto ciò che di violento ma anche di emotivo appartiene alla sensibilità (la quale è sempre pudica), e in tal senso l’unica arma sfruttabile sono le parole, è la propria opinione: gli intellettuali nei caffè diventano “internettologi”. E il loro comportamento, così come il loro destino, si riassume perfettamente nel verso “soci onorari al gruppo dei selfisti [metterei qui un enjambement] anonimi”: il fatto di sentirsi soci onorari si connette e si completa alla perfezione con la definizione di selfisti.

Il web è veicolo ideale del narcisismo (estetico e intellettuale) che – si badi – non è un semplice aspetto del carattere individuale, ma da Freud a Lacan, un elemento essenziale e originario, più o meno conscio, della nostra personalità psichica. Come Narciso si specchiava nel lago, noi ci specchiamo nel black mirror del nostro smartphone, quello in cui il nostro selfie o la nostra opinione si fanno immagine di noi, permettendo l’incontro/scontro con l’altro virtuale. Il fatto che però una tale immagine sia destinata a permanere nell’anonimato rivela come si tratti di una guerra che fa solo vittime. La nostra immagine infatti non può mai diventare, come vorrebbe, un nome. E questo perché è come anima senza corpo, inidentificabile: siamo una stringa di codice sul web, l’immagine di noi c’è ma potrebbe anche non esserci, senza con ciò corrompere nulla di quel Tutto che è Internet. Certo, si tratta di una semplificazione generalizzante ma restituisce un’immagine efficace della società virtuale.

L’intelligenza è démodé

Risposte facili

Dilemmi inutili.

AAA cercasi (cerca sì)

Storie dal gran finale

Sperasi (spera sì)

Comunque vada panta rei

And singing in the rain

Cosa cerchiamo costantemente? Grandi narrazioni metafisiche che già negli anni Settanta appartenevano ormai, per Lyotard, ad un’altra epoca, quella appunto da cui facciamo così tanta fatica ad uscire. È ad essa che appartengono tutti quei dilemmi divenuti ormai inutili e che, in virtù della loro inattualità, non possono che essere percepiti come “serissimi” da coloro che potremmo definire “nostalgici del Neolitico”. E le loro risposte ad oggi non possono che essere facili, semplicistiche, proprio perché non si è mai pienamente a contatto con la loro reale, passata, profondità. Del resto, l’intelligenza, quella autentica, la ragione critica, non è più “di moda”. Si risponde così a grandi problemi ontologico-esistenziali con la ricerca di una sostanziale serenità, una leggerezza inconsciamente rassegnata, ben sintetizzata dall’accostamento post-modernista tra il “tutto scorre” eracliteo e il “cantando sotto la pioggia” di Gene Kelly.

Piovono gocce di Chanel

Su corpi asettici

Mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili.

AAA cercasi (cerca sì)

Umanità virtuale

Sex appeal (sex appeal)

Devo confessarlo: è la mia frase preferita. E anche qui si parla del web. I corpi asettici sono i non-corpi virtuali. Sono loro a non-poter-profumare/puzzare. L’unico odore lo ricevono da una pioggia di Chanel n.5, simbolo, da Marylin Monroe in poi, di un’immagine che seduce. Oramai ci si può mettere in salvo, si può fuggire dall’odore degli uomini. E si scappa (si deve scappare!) per rispetto del tempo in cui viviamo o verso cui procediamo. È l’artificiosità di un profumo, o appunto di un’immagine (virtuale) di noi, ad essere l’unica identità attraverso cui possiamo e dobbiamo (sicuramente vogliamo) incontrare l’altro, è in essa che possiamo ricercare il nostro sex appeal, assimilato in maniera emblematica all’essere “virtuale” della umanità.

Tutti tuttologi col web

Coca dei popoli

Oppio dei poveri

Il web annulla qualsiasi barriera conoscitiva, qualsiasi auctoritas sociale in grado di conferire diritto di parola solo a chi sa veramente. Se di sé l’unica immagine possibile è la propria opinione, si capisce bene come la post-verità, di cui oggi si parla tanto, non sia da ridurre solo all’arbitrarietà umana che ci ha caratterizzati da sempre, ma sia proprio una componente esistenziale, un fattore costitutivo determinante del nostro destino “social”. Definire questo contesto come coca dei popoli e oppio dei poveri ha sicuramente, ancora una volta, una componente polemica che, pur non appartenendomi personalmente, non posso negare al testo della canzone e far finta di non riconoscere. Ma è interessante vedere come a “popoli” sia associata la cocaina, la droga dello “sballo”, come a dire che il web è un piano “sollevato” rispetto alla realtà concreta e in quanto tale disinibito; mentre a “poveri” è associato l’oppio (come faceva Marx riferendosi alla religione), non in quanto droga appunto dello sballo, ma ancor prima in quanto droga dalle proprietà anestetiche e antidolorifiche: internet offre ai poveri la possibilità di lamentarsi per la propria condizione, è insomma una valvola di sfogo per la propria tensione, ma inconsistente e dunque innocua.

Lezioni di Nirvana

C’è il Buddha in fila indiana

Per tutti un’ora d’aria, di gloria.

La folla grida un mantra

L’evoluzione inciampa

La scimmia nuda balla

Occidentali’s Karma.

Quando la vita si distrae cadono gli uomini.

La scimmia si rialza

La connessione qui con le mode naïf che guardano a Oriente è perfetta. Il web è una via di fuga narcisistica (e necessaria) dalle nostre concrete debolezze, la soluzione (del tutto innovativa) fornita dall’epoca in cui viviamo o in cui ci prepariamo a vivere. Oltre questo però, qual è la via di fuga prediletta (dall’Ottocento in poi) dal grandioso problema costituito dall’umanità concreta (e non virtuale)? Gli aforismi orientali, “magie di moda […] che da noi nascondono solo vuoti di pensiero”, per dirla con Guccini.

Così la meditazione buddhista diventa una terapia di gruppo e il Nirvana, letteralmente l’estinzione di ogni desiderio vitale, viene addirittura insegnato a lezione, come fosse un contenuto veicolabile, una serie di precetti per vivere una vita migliore: utilizziamo come alternativa esistenziale la rinuncia programmatica all’esistenza stessa, e ci illudiamo in tal senso nonostante il buddhismo comandi il superamento di ogni illusione. Questo però non fa altro che generare l’enorme paradosso dello spossessamento culturale del Karma – termine che porta con sé una indivisibile componente rituale e dunque “di costume” – ad opera degli Occidentali. Non si tratta di una semplice rivendicazione di appartenenza culturale. Si tratta della denuncia della fuga dal proprio e più autentico sé. L’Oriente ha, con la sua millenaria storia, dato vita ad una serie di usanze, tradizioni, costumi, culture e idee che non possono essere le stesse di quelle determinate dall’altrettanto millenaria storia occidentale.

Si tratta di due paradigmi necessariamente diversi, tra i quali è possibile un incontro ma è impossibile una sincera immedesimazione/introiezione/appropriazione (a meno che non sia passata per una imposizione politico-culturale): pensiamo secondo categorie diverse, vediamo il mondo con occhi diversi. E anche la nostra “inclusività”, come abbiamo visto, riduce un contenuto di senso, un rito, ad una “cosa”, ovvero a semplice strumento per cercare di fuggire alla nostra routine, simbolo del freudiano disagio della civiltà, a “moda” in quanto vero e proprio “modo” di vivere narcisisticamente (come spesso ha ripetuto Gabbani nelle interviste, pratichiamo yoga ma “solo dopo aver scelto l’outfit giusto”!).

Se quindi la folla grida un mantra orientale, cercando in esso una distrazione rispetto alla vita concreta, l’evoluzione storica (dell’inevitabilmente nostro Occidente) ha un tentennamento, inciampa, gli “uomini” cadono e si rialzano “scimmie”. Alla fine di un’epoca, quella neolitica in cui si è svolta l’intera storia umana, le azioni perdono di senso, sono fondamentalmente “inutili”, tutto diventa lecito (o illecito) indipendentemente dall’ideale da cui è mosso. E questo perché l’ideale (occidentale) non ha più porzioni di realtà da conquistare, ha dato forma a tutto, anche al suo opposto: tutto è a sua disposizione come strumento, ed esso resta quindi espressione di un dualismo ormai obsoleto, “contemporaneo come l’uomo del Neolitico”. L’uomo, all’inizio di una nuova storia, torna ad essere – per usare con Gabbani l’espressione dello zoologo Desmond Morris – una “scimmia nuda”, un semplice animale. È azzerato, e in una tale situazione non può far altro che ballare.

Il ballo: azione inessenziale che tuttavia ben sintetizza la necessità narcisistica del tornare a mettersi in mostra (come succede del resto in quei riti di accoppiamento propri di certe specie animali, vere e proprie danze), la necessità di sostituire ogni azione e pensiero con un’immagine di sé. Nella ricerca della pace interiore o – che è lo stesso – della visibilità sui social, infatti, il proprio sé è, malgrado le apparenze, lontanissimo, e confondiamo un’ora d’aria concessaci dal carcere delle nostre esistenze problematiche e atterrite con la vera “gloria”. La scimmia nuda può (e deve) rapportarsi, senza alcun tipo di scrupolo, all’altro virtuale (il web) o all’altro culturale (l’Oriente), alla ricerca di una via di fuga rispetto al monstrum che le si pone storicamente innanzi, quello del passaggio da un’umanità all’altra, da una Storia neolitica ad una Storia postumana.

Questa visione però non è del tutto apocalittica: la scimmia che si rialza, che si sta rialzando, lascia aperto uno spiraglio di luce sul futuro. Ora l’uomo è a terra, ma chissà se il nuovo processo evolutivo, quello che comincerà con un nuovo homo erectus, non possa portare ad una Umanità per noi oggi inimmaginabile ma magari migliore della nostra. E chissà se i nostri bisnipoti non guarderanno con rispetto reverenziale la nostra caduta.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Lo Sguardo e Players.

Matteo:
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