illustrazione di Chabacolors
parole di Matteo Sarlo
Che cosa significa davvero donare qualcosa ad un altro? Il dono sottostà alla logica dello scambio? Oppure ne è la più efferata messa in crisi? Da Derrida ad Adorno, da Baudelaire agli evangelisti, per una fenomenologia del dono.
Una cosa che mi ha sempre mandato ai matti, è il fatto che mentre stai ancora scartando un regalo, ma dico, non hai nemmeno finito di togliere il fiocco, che quello ti dice: poi se non ti piace lo possiamo cambiare. Santo cielo, che cavolo me l’ha regalato a fare, se non perché è l’oggetto unico e insostituibile per me? Il fatto è che la frase smaschera il reale: il regalo non è affatto qualcosa pensato per te. Forse è per quella dose di tristezza percepita da Holden Caulfield ogni volta che ne riceveva uno. Lo confessa mentre se ne sta nella stanza a fare le valige e deve metterci dentro i pattini da Hockey regalati dalla madre. Allora se ne esce con: «quasi tutte le volte che qualcuno mi fa un regalo finisce che mi rende triste». Proprio una frase alla Holden. Però, diciamoci la verità, non tutti pensano come Holden. Anzi, sfortunatamente quasi nessuno. No, il punto è metodologico: se il regalo lo possiamo (s)cambiare, non è un regalo.
Dono ≠ Scambio
Il fatto è che persino nei servizi del telegiornale, tra le percentuali della spesa media per nucleo familiare e l’ammontare dei milioni di euro spesi dagli italiani, si parla di scambio di doni. Che poi è la trattativa compiuta da ciascuno di noi con chi si sa non si potrà vedere tra vigilia e 25: «Allora, dobbiamo trovare un giorno, così ci scambiamo i regali». L’atto linguistico è esattamente il precipitato del modo di pensare. Tanto che persino nella scelta del dono, prima ancora di uscire di casa, ci si orienta attestandoci su quel che si riceverà. Ci si attesterà sul livello del regalo che l’altro verosimilmente sceglierà per noi. E allora si innesca qualcosa che sta tra l’identikit da FBI e la preveggenza da cartomante. Intendiamoci, non che sia un male. Purché si sappia: quel che viene messo in funzione ogni anno non è un dono ma il meccanismo del potlàc di Marcel Mauss. L’etnologo nipote di Emile Durkheim la pensava infatti così: la questione del dono ha a che fare con l’origine del legame sociale. Il dono esige un ritorno – persino se non vi fosse ritorno reale, si sarebbe comunque appagati dallo stesso aver donato in virtù di un ritorno simbolico. Esigendo il ritorno, il dono di Mauss crea un legame di debito/credito, fondando la comunità politica. E se c’è una differenza tra scambio e dono, per Mauss sussiste soltanto per una questione temporale: mentre il primo accade simultaneamente tra due persone, il secondo si fonda sul credito e il termine.
Dono = Tempo
Il dono non è un dono, non dona che nella misura in cui dona il tempo. La differenza tra un dono e ogni altra operazione di scambio puro e semplice, è che il dono dona il tempo. Ciò che “ça donne” , “dona”, il dono, è il tempo, ma questo dono del tempo è anche una domanda di tempo.
Derrida, uno che ha guardato davvero al fondo di questa storia del dono, è convinto di una cosa: il dono non è un presente. Da sempre si affianca al presente come presenza di una singolarità che fa dono di qualcosa all’intero di uno scambio di doni. Ma per Derrida il dono non è un presente. Il rapporto del dono alla presenza del presente è problematico, perché il dono non è mai là dove lo si cerca. Baudelaire dirà cercare mezzodì alle 14. C’è dono quando non è riconoscibile come dono. Il dono c’è, quando resta cenere. Perché “il dono non è presente” vuol dire “il dono non mi è presente”. Non è presente alla mia coscienza: non posso calcolarlo, il dono. Non a caso Derrida utilizza una espressione senza soggetto (ça donne). Perché se c’è soggetto, non c’è dono.
Dono = Evento
C’è poi questa storia che racconta Baudelaire. Due amici escono da una tabaccheria. Uno fa per rimette a posto i soldi. Nella tasca sinistra del panciotto vanno le monete d’oro. Nella tasca destra le monete d’argento. Nella tasca sinistra dei pantaloni le banconote. Poi si guarda per bene una moneta d’argento da due franchi, e se la infila nella tasca sinistra. Camminando, vengono fermati da un mendicante che, tremando, tende loro il berretto. Uno dei due dice:
L’elemosina del mio amico fu assai più considerevole della mia, ed io gli dissi: «Avete ragione; dopo il piacere di rimaner sorpresi, non ve n’è alcuno maggiore di quello di produrre una sorpresa». «Era la moneta falsa», egli mi rispose tranquillamente, come per giustificarsi della sua prodigalità. […] «Sì, avete ragione; non c’è piacere più dolce di quello di cagionare sorpresa a un uomo donandogli più di quanto non speri.»
Perché donare ad un mendicante una moneta falsa, cioè una moneta che non è valuta, che non entra in quello che Marx avrebbe chiamato libero scambio della merci? Esattamente per questo, perché non ci entra. La moneta falsa apre ad un evento di tempo. Squarcia il tessuto dell’economia. Rompe la logica dello scambio. È un dono incalcolabile rispetto alla normale elemosina: il mendicante non si aspetta questa moneta.
Tutto ciò è ovviamente un paradosso ma alle volte servono anche i paradossi: per il mendicante la moneta falsa potrebbe essere il luogo di un grande vantaggio, ancora più grande che se la moneta fosse stata d’oro e se avesse avuto un valore specifico. Allora solo grazie al donare niente, al donare come non presente, a quel dono che inerisce a qualcosa di non presente, di differito, quella moneta darà adito in avvenire a un vantaggio ancora più grande. A qualcosa che, per dirla con Shakespeare, si ponga out of joint: fuori di senno, fuori dall’etica, fuori dalla temporalità dell’economia, fuori dal circolo dialettico dello scambio e, persino, fuori dalla comprensibilità. Certo, per l’amico l’atto rimane incomprensibile e, soprattutto, imperdonabile.
Dono e Perdono
Perché il perdono è un dono ancora più eccessivo. Un dono assoluto. Cosa fa il narratore rispetto all’amico? Cerca la ragione di questo gesto. Ne
In Perdonare, Derrida scrive:
Dovremmo riportare i problemi e le aporie del dono per trasferirli su alcuni problemi e su quei non-problemi che sono le aporie del Perdono. Oltre la loro incondizionalità di principio, dono e perdono hanno un rapporto essenziale con il tempo. E tuttavia, legato ad un passato che non passa, il perdono resta irriducibile al dono. Esperienza del dono e del perdono. Il perdono e il dono hanno in comune di non presentarsi mai come tali, a quella che correntemente viene chiamata esperienza o coscienza.
E poi
Non c’è perdono, se ce n’è, se non nell’imperdonabile. Non esiste se non eccettuandosi dalla legge del possibile.
Dono e perdono potremmo dire, allora, con una formula deleuiziana, non hanno bordi. Perdono e dono, come l’evento, devono restare imprevedibili. In altri termini, si tratta di una fenomenologia dell’impossibile.
Le liste
Oggi sono innumerevoli i siti che redigono liste dei migliori dieci regali per lui, e poi dei migliori dieci regali per lei. L’idea è questa: tu prima hai a disposizione i regali, e poi scegli a chi possono adattarsi. Funziona così più o meno con le liste nozze. É chiaro, in questo caso il motivo è evitare che i novelli sposini si ritrovino con una lista di doppioni. Ma il punto è proprio questo, il motivo. Devi sperare che non accada. Devi saper sottostare alla logica del dono. Devi saperti sganciare dall’utile, dal meccanismo della funzione. Ti arriva il doppione, pazienza.
Un’esperienza religiosa
Il fatto è che donare è un’esperienza religiosa. Mettetevi l’anima in pace. Non c’è lista che tenga né scontrino cortesia che possa avere senso. Donare non sottostà alla logica causa/effetto. Donare è la consegna di un’eccedenza. Avvenuta o non avvenuta realmente il 25 poco importa, la nascita di Cristo è il dono a cui i Magi portano il dono. Scrive Matteo
Allora Erode chiamò segretamente i Magi e chiese loro informazioni sul tempo esatto dell’apparizione della stella; quindi li inviò a Betlemme, dicendo: «Andate e fate accurate ricerche del bambino; qualora lo troviate, fatemelo sapere, in modo che anch’io possa andare ad adorarlo». Essi, udite le raccomandazione del re, si misero in cammino. Ed ecco: la stella che avevano visto in oriente li precedeva, finché non andò a fermarsi sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella furono ripieni di straordinaria allegrezza; ed entrati nella casa videro il bambino con Maria sua madre e si prostrano davanti a lui in adorazione. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono ora, incenso e mirra. Quindi, avvertiti in sonno di non passare da Erode, per un’altra via fecero ritorno al proprio paese.
Cosa scoprono i magi, per quelle «vie fangose» cantate da Eliot? Ci sono due cose da tenere ferme:
1) Erode chiede immediatamente ton kronon tuo fainomenou asteros, letteralmente chiede di sapere «il tempo della apparente stella»
2) i Magi consegnano dei dora, dei doni.
Il meccanismo è chiaro: Erode è l’esempio dell’uomo capitalista, che vive il tempo dell’economia, del ritorno, dell’accumulo del profitto, e la prima cosa che vuol sapere è il tempo di questa apparizione. Ma il fatto è che ad Erode è andata parecchio male, perché quella è proprio l’apparizione che fa saltare in aria le regole del suo mondo. Quella è l’apparizione che lega insieme Evento-Tempo-Dono. Perché seppure i Magi portano dei dora, il vero dono, il dono assoluto, è quello che ricevono. Non a caso Giovanni scriverà che Deus Caritas est. E qui carità sta per gratuità, non ci si può sbagliare. Perché, per dirla con il fenomenologo praghese Jan Patočka, il nucleo portante del cristianesimo è questa bontà dimentica di se stessa. Cosa dona allora Dio? Dona il suo essere. Diremmo con Heidegger, sia nella forma del puro essere sia nella forma del suo esserci. Cioè essere sempre qui.
Donare è un gesto assurdo. Non arriverai mai a spiegarne i motivi profondi. Donare è qualcosa che non ha senso perché tradisce la più basilare legge biologica, quella del più immediato benessere. Donare è un gesto che impone l’esclusione di se stessi. Donare è fare epochè della propria soggettività. Donare, è donare il tempo dell’apertura dell’evento. Donare, sì donare è fare i conti con la propria umanità.
Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È in pubblicazione Pro und Contra. Anders e Kafka (Asterios).