Seguici

Millennials: calm down, it’s all funny
28/03/2017|L'ANALISI

Millennials: calm down, it’s all funny

Millennials: calm down, it’s all funny
illustrazione di Matteo Sarlo
parole di Tiziano Cancelli

 

Filosofi, sociologi, ricercatori di ogni tipo ne parlano. Ma chi sono i Millenial? Individui per i quali uno smartphone è più familiare di una chiave inglese. Ragazzi nati tra la fine degli anni 80 e i primi anni 2000. Stando alla definizione: una generazione caratterizzata da un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. Fin qui, facile. Molto banalmente, i Millenial sono quella fetta di popolazione che erediterà la terra nei prossimi cinquant’anni. Ma allora cosa merita l’attenzione di ricercatori di ogni tipo?

Intanto, i Millenial sono un tipo particolare di comunità. Una che lentamente si sta scoprendo tale, in grado di rispecchiare e riflettere, come in un labirinto di specchi, le contraddizioni e le aspirazioni di un intero sistema sociale ed economico. Parlare di comunità può forse sembrare azzardato, ma basta farsi un giro sul web per toccare con mano la forte dimensione comunitaria di questo fenomeno. La “community” è il primo motore immobile dell’internet; ormai qualsiasi operazione passante per il web avviene all’interno di percorsi di engagement e di following, che sono possibili solamente in un contesto comunitario di riferimento. Questo vale per piattaforme “anarchiche” come 4chan, 8chan, Reddit, nonché per piattaforme commerciali, come Amazon, Ebay, Eatsy etc.
Parliamo dunque di quei ragazzi nati e cresciuti nel regno delle possibilità (apparentemente) infinite, decantate e spinte al massimo livello dall’accelerazione del sistema capitalistico occidentale. Il cumularsi di dati, conoscenze, informazioni e il loro divenire principale forza produttiva all’interno di una società sempre più indirizzata verso la capitalizzazione della social knowledge, avrebbe dovuto garantire a questi individui, in una sorta di perversa previsione ottimistica, una piena formazione intellettuale, nonché realizzazione personale e collettiva all’interno di una comunità di pari, in un mondo di libere opportunità. Inutile dire come nell’era della post-verità anche le proiezioni più semplici di un risultato strettamente causale, si dimostrino imprevedibili, dando vita a risvolti inaspettati: la crisi del 2007 cade come un macigno a seppellire le speranze e le ambizioni di questa intera compagine sociale.

Ciò che viene dopo possiamo descriverlo come un quadro di Bosh: un paesaggio grottesco abitato da mostri in fase adolescenziale, senza meta, senza scopo, senza forma, inconsapevoli il più delle volte della propria mostruosità. Viene in mente un monologo dal suono profetico, fatto pronunciare al personaggio del Dott. Manhattan in Watchmen di Alan Moore. Manhattan si trova a vivere alla fine degli anni 70 del 900, in piena guerra fredda. I Russi sembrano sul punto di attaccare da un momento all’altro, l’orologio atomico non è mai stato così vicino alla mezzanotte: è la fine del sogno americano, un sogno che si è rivelato più che altro un’illusione frutto di un’isteria di massa. La società promessa al popolo americano si rivela piena di contraddizioni insanabili, il Vietnam, il Watergate, il boom dell’eroina; tutte cicatrici che contribuiscono a svelare il vero volto, sfregiato, dell’America del tempo. Dicono di aver lavorato tanto per costruire il paradiso, per poi scoprire che è popolato di orrori, dice Manhattan; il futuro orgiastico che immaginavamo non è svanito, spostato più in là, in attesa di essere raggiunto domani, come lo immaginava Jay Gatzby, ma è proprio qui, è quello che stiamo vivendo, è quello per cui abbiamo lavorato tanto, per scoprirlo nonostante ciò, popolato da orrori.

“Comunità”: questo è il termine da comprendere. Questa community è l’argine al declino, o forse più verosimilmente un modo di “surfare” il Kali Yuga. Per i Millenial che vivono esattamente come Manhattan la trasformazione della terra promessa in una sorta di sadico Hunger Games, la community si situa a metà fra una comunità di recupero e I ragazzi dello zoo di Berlino. Da una parte troviamo fortemente presente quel cameratismo che permette la creazione di un senso comune, dall’altra quello stesso cameratismo sembra più assomigliare ad un’amicizia fra tossicodipendenti che condividono la stessa dimensione del problema. Dopo l’elezione di Donald Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, questo termine assume nell’ambito del discorso una connotazione tutta nuova. Il mondo ora si accorge dei Millenial, si domanda intorno a questa nuova figura sociologica, si affretta a discuterne pro e contro. C’è una nuova comunità di persone sullo scacchiere, non solo sociale, ma politico. La comunità che si sperimenta in questa occasione, forse per la prima volta su scala così vasta, ha però caratteristiche anomale: non è più comunità di intenti, di aspirazioni o di desideri; al contrario è comunità caotica, coesa solamente in nome del fallimento, dell’ansia, della depressione e di un mal celato desiderio nichilistico di rivalsa. Un disagio prismatico, esperito sia a livello individuale che di massa, alla quale le elezioni presidenziali americane di novembre hanno fornito il perfetto palcoscenico. Le presidenziali americane trasformate in un ballo delle debuttanti; il ballo trasformato in un’estetica della depressione e dell’ansia, indicatori di un’intera generazione. Guardando un po’ più da vicino l’evolversi di questo fenomeno, sembra di leggere il copione di un classico teen drama di matrice squisitamente yankee: ragazzi di oggi che ingaggiano una dura battaglia con le scelte e le difficoltà della vita adulta, subendo qualche ferita, ma alla fine facendo gruppo e venendone a capo; sostituiamo però Pacey Witter e Dawson Leary protagonisti di Dawson’s Creek con Dylan Klebold e Eric Harris, autori della strage alla Columbine, ed ecco che ci avviciniamo alla radice “comunitaria” del problema. Perché, a ben pensarci, il punto non è tanto che dei ventenni influenzino le elezioni del paese detentore del più grande arsenale atomico del mondo, il che non sarebbe di certo un male di per sé; ma il fatto, ben più impressionante, che lo facciano unicamente, nella maggioranza dei casi, come gesto puramente simbolico, estetizzante, di rabbia iconoclasta contro il loro stesso contesto sociale d’appartenenza.

Father, i want to kill you. Mother i want to fuck you, dicevano i The Doors nel brano The End. Il tempo dei Millennial è forse il tempo dell’eschaton, della fine: il tempo ultimo e degli ultimi, cosi come descritto da Paolo di Tarso; l’inversione del senso, il ribaltamento dello stesso che appare terribile a chi non lo comprende e vi si oppone. Dio verrà come un ladro nella notte, fino ad allora la Legge granitica delle cose, quella che regolava il tempo di prima, è sospesa. In questo oceano freddo e inospitale, che ricorda il pianeta sommerso dall’acqua visitato dai protagonisti di Interstellar, è fondamentale non affogare, bisogna restare a galla e saper nuotare, poiché come ci ricorda sempre Paolo, Dio verrà il giorno dopo in cui è atteso, quindi troppo tardi per tirarci il salvagente. Dunque Donald Trump, perché se è vero che la legge è sospesa e che il paradiso non è più all’orizzonte, Trump acquista un senso e un valore da non sottovalutare. Non è a seguito di una campagna partecipata emotivamente e fisicamente, condivisa politicamente e socialmente, ma alla fine, per l’appunto, di un rabbioso percorso di progressivo abbrutimento, che Trump viene eletto. La community ha trovato in lui un Papa dei Folli, un personaggio in grado di incarnare la promessa tradita, quella della speranza. In questo episodio kairologico, tanto per abusare di termini biblici, la decisione della community si manifesta in tutta la sua potenza simbolica ed effettuale. La comunità Millenial si vendica di una promessa mancata in una maniera che per l’appunto appare folle all’osservatore superficiale. I voti americani dicono: Trump è presidente. Sperare è sbagliato. Se non si può aggiustare ciò che è rotto si diventa pazzi, direbbe “Mad” Max Rockatansky.

Nessun “valore positivo”, anche se antagonista, da condividere. Trump o Clinton, non fa differenza. La comunità Millennial è il sistema, nonché la sua massima espressione. Non è l 1% del movimento blockupay, ma il 90% dell’elettorato medio: bianco, scolarizzato e di estrazione e reddito pienamente borghese. Nonostante ciò parliamo di una comunità di figli della mezzanotte del mondo; Kali yuga, direbbero i Veda. Nessuna grande narrazione, nessuna grande guerra, bisogna attendere la fine del ciclo karmico, e se sì ha avuto la sfortuna di nascere nella fase sbagliata, non resta che attendere e rassegnarsi. È questa disperazione lucida, sembra, questa comprensione analitica del presente, a caratterizzare maggiormente questa comunità terribile. Una comunità che nell’era di Facebook, Twitter e Google, nell’era dei big data, dell’archiviazione frenetica, della forzosa riduzione della complessità umana ad algoritmo numerico da elaborare, è consapevole ora per la prima volta, della situazione in cui si trova a vivere. Gli dei hanno abbandonato il mondo, e hanno lasciato Google in loro vece. Ed è così che mentre i giganti dei big data continuano a perfezionare le tecniche di mapping emotivo, rivolte principalmente a questa parte della popolazione più giovane, in una nuova corsa all’analitica delle emozioni, è proprio in questo momento che il corto circuito emotivo prende il sopravvento. L’ideos kosmos, la particolare visione del mondo posseduta da ognuno, va in cortocircuito con quello che i Greci chiamavano koinos kosmos, la realtà astratta che dobbiamo condividere con gli altri. A mancare è un terreno comune, un campo linguistico comune. Alla comunità Millenial sembra mancare un fattore fondamentale: la comunicabilità. Il pensiero di un koinos kosmos, la capacità di elaborare una narrazione che possa unificare lo sforzo comunicativo, quanto meno per renderlo comprensibile a sé stesso. Ma questo fattore si radica nel dramma dei Millennial: nati nell’era della comunicazione di massa, rappresentano l’acomunicatività al massimo grado; il punto Omega all’interno del quale la complessità massima preclude la comunicabilità della stessa. Il salotto di uno Starbucks londinese, dove ognuno è impegnato a riflettere sui drammi della propria vita, impegnandosi diligentemente a non incrociare mai lo sguardo degli altri avventori. Ed è così che la funzione comunicativa, fondamentale alla creazione di un orizzonte di riferimento, di scambio verbale ed emozionale, viene sostituita prontamente dal World Wide Web, da Google, Wikipedia, da Twitter e dai supporti telematici che vi danno accesso, i quali a loro volta finiscono per diventare dei giganteschi contenitori, immensi, segreti, chiusi al pubblico, accessibili soltanto agli addetti ai lavori, contenenti la memoria collettiva, il linguaggio di un’intera generazione e dunque la capacità della stessa di comprendersi e comunicarsi. I giganti dell’I-tech come emissari di Ultron sulla Terra, venuti a preparare il terreno per la vittoria finale delle macchine sugli uomini, ma a salvarla questa volta potrebbero non arrivare gli Avangers, perché banalmente potrebbe non esserci più nessuno in grado di chiamarli.

Posta la situazione, un’ultima domanda sorge spontanea, qual è l’orizzonte sociale in grado ad oggi di ri-comprendere e familiarizzare con il fenomeno Millenial? È la domanda da un milione di dollari. Nonostante il crescente interesse intorno a questo argomento, la società globale non sembra essere ancora in grado di fornire una risposta coerente. Le teorie proposte sono le più difformi: da una parte c’è un’analisi prettamente psicologica che inserisce il fenomeno Millennial all’interno di una considerazione tipicamente novecentesca, rilegando la significatività dello stesso a puro disturbo psichico. Depressione, ansia, mancanza di empatia vengono considerate in quest’ipotesi come cause ma mai come sintomi del problema. Dall’altra c’è una considerazione di tipo più sociologico: la caduta delle grandi narrazioni, in primis politiche, viene vista come causa principale di questo fenomeno, il secolo buio inaugurato dall’affermarsi della globalizzazione avrebbe condotto alla nascita di un esercito di lobotomizzati, dimentichi delle proprie radici, in primis territoriali. Dunque la risposta andrebbe ricercata in un ritorno alle origini, a volte anche mitiche, che diviene sempre di più appannaggio delle destre e dei populismi. In questa selva oscura di ipotesi più o meno credibili c’è un dato su cui vale la pena riflettere: nonostante la crescente attenzione dell’opinione pubblica, non sono gli Stati a prendersi carico del problema di questa larga fetta della popolazione, ma bensì le enormi corporate. Ad analizzare più a fondo questa dimensione problematica e i suoi sviluppi, immediati e futuri, sono le varie holding commerciali come Facebook, Twitter, Google, Amazon. L’unica “familiarizzazione” che infatti troviamo presente all’interno di questo spazio comunitario è quella condotta attraverso l’uso intensivo dei social media e delle rispettive, tentacolari, diramazioni. Non è un caso se la nuova corsa all’oro portata avanti da Zuckenberg e colleghi consista nel garantirsi una mappatura sempre più precisa e dettagliata degli stati emotivi degli utenti. In quest’ottica comprendere le ragioni e lo spettro emotivo dei Millennial coincide con il comprendere, e nei fatti poter orientare, i gusti, le emozioni, le tendenze sociali e personali di un numero enorme di giovani individui. Pensiamo al recente boom delle emoji e alla recente introduzione delle “reazioni” ai post Facebook. In conclusione appare evidente come ciò che sta avvenendo a livello globale sia un lasciare che l’orientamento civile, sociale e comunitario della porzione più giovane del pianeta diventi appannaggio degli interessi privati di grandi aziende transnazionali, che dopo aver stabilito il monopolio sul mercato, sembrano puntare ora ad un monopolio del thymos. Oggi che Shub Niggurat, il Capro dai Mille Cuccioli, entità lovcraftiana caratterizzata da prole enorme e diffusa, sembra abitare a Palo Alto, il problema a questo punto si produrrebbe in questi termini: se la Silicon Valley rappresenta allo stesso tempo il messaggio e il mezzo di veicolazione dello stesso, Significato e Significante, che spazio può esserci per una socialità slegata dalle logiche del capitalismo telematico e del profitto? Chi può proporre una analisi che tenga conto della doppia radice problematica di questo complesso fenomeno, che riesca a individuarne in primis cause e punti di fuga? Chi può sedere in cima a questo enorme Panopticon senza assumere automaticamente il ruolo di direttore del carcere? In altri termini: who watches the watchman?


Tiziano Cancelli si è laureato in Filosofia con una tesi sul concetto di verità in Platone nella lettura di Heidegger. Ascolta black metal, gioca su steam, adora antichi Dei. Vive a Roma e tifa per il Kali Yuga

Nessun commento
Condividi