L’IPOCONDRIA POPULISTA


L’ipocon
dria è la nevrosi del nostro tempo. Vissuta come incapacità di un soggetto di leggere le sofferenze del proprio corpo, scinde il soggetto in due. La separazione tra il corpo come Altro e me stesso è la metafora perfetta del pensiero populista che vive nel cliché di considerare la casta politica come il corpo che gode a dispetto delle mie sofferenze.

parole di Sergio Benvenuto
illustrazione di Michel Chabaneau

Ci si chiede spesso se la psicoanalisi possa servire a capire qualcosa della politica e dei processi sociali. Certamente ci aiuta quel che la psicoanalisi può dire sull’ipocondria.
Secondo la tradizione, l’ipocondriaco è una persona convinta di essere malata, di una malattia fisica ovviamente. Una convinzione che spesso trova una certa complicità dei medici, i quali finiscono col sostenere, per ragioni non solo di sfruttamento economico, quel cullarsi ipocondriaco del soggetto. Questa complicità medica fa dell’ipocondria sempre un gioco a tre, ‘soggetto malato-malattia-medico’, e impedisce comunque di riconoscervi una angolatura delirante (che pure talvolta c’è), nella misura in cui il delirio è assecondato dal medico. Ma qui vorrei dare a ipocondria un senso più vasto: è l’incapacità di un soggetto di leggere le sofferenze del proprio corpo, certamente vissute come tali, come sofferenze soggettive. In questo senso possiamo dire che l’ipocondria è tra le nevrosi più diffuse, forse è la nevrosi caratteristica del nostro tempo, al pari dei disturbi alimentari e delle tossicodipendenze. È essa che, probabilmente, fa aumentare a dismisura la spesa sanitaria dei paesi occidentali, e che porterà probabilmente, prima o poi, all’implosione del sistema sanitario dei nostri paesi e quindi alla crisi del welfare. Un’implosione che vede la collaborazione di medici e pazienti, appunto.

Continuamente sono confrontato – non solo nella pratica clinica, ma anche nei miei rapporti con amici e parenti – con questa convinzione: un soggetto soffre di sintomi corporei, i quali non vengono mai riconosciuti come versante fisico di un malessere più generale, soggettivo, se non etico. È incredibile, ma ho conosciuto anche psicoanalisti ipocondriaci. Ora, quel che colpisce è la rabbia che coglie questi soggetti non appena si profili, anche se da lontano, una diagnosi di tipo psichiatrico piuttosto che di ordine organico e fisiologico. Ad esempio, una psicoanalista lamentava da anni la sindrome da fatica cronica, chronic fatigue, di cui però, malgrado la massa di analisi e test, non si riusciva a trovare la causa originaria. La mia impressione è che fosse un modo di declinare quel che si chiama una sindrome depressiva; in effetti, molte fasi depressive si annunciano come disturbi squisitamente fisici. Un ciclotimico, ad esempio, capiva che la depressione si inaugurava in lui sempre con grandi diarree e disturbi intestinali, ancor prima che vivesse un dolore mentale, il quale sarebbe sopraggiunto solo dopo. In ogni caso, la psicoanalista di cui sopra era convinta, spalleggiata da qualche medico, che l’origine fosse virale. Ma quale era il virus? Non si sapeva. L’importante per lei è che fosse un virus, anche se anonimo. Se si suggeriva la sola possibilità di una diagnosi depressiva, questa suscitava in lei furibondi attacchi di ira: questa diagnosi appariva al soggetto quasi un’offesa personale, una provocazione nei suoi confronti. Un atteggiamento simile, del resto, a quello di molti tossicodipendenti, soprattutto a dipendenti nei confronti di sostanze legali, ad esempio a chi è tabagista o alcoolista. Se qualcuno, medico o no, gli ricorda che fumare o bere alcool fa male, questo scatena un’aggressività puntuta che può portare anche alla fine dell’amicizia con quel grillo parlante. In questo caso, il soggetto sente l’opposizione alle sostanze tossiche di cui abusa come un attacco sadico al proprio godimento. Egli si crea perciò una serie di teorie mediche strampalate secondo cui il tabacco o l’alcool non fanno affatto male, e che chi ne sconsiglia l’uso o l’abuso è, lui sì, un malato mentale pernicioso.

Il bisogno, direi quasi fisico, di diagnosi medica non psichiatrica è più complesso. In sé, distinguere malattie psichiatriche da malattie puramente organiche può sembrare una questione alquanto accademica. Se pensiamo che alla base di ogni malattia mentale ci siano processi organici, in particolare del cervello, la distinzione tra patologia organica e mentale dovrebbe, se non cadere, comunque risultare non così essenziale. Dopo tutto, che cosa importa il cartellino “malattia di origine virale” oppure “malattia di tipo mentale o cerebrale”? Sembrano disquisizioni filosofiche. Che differenza può mai fare, per un soggetto – ci si dice – il prendere delle pillole anti-virali o anti-infiammatorie piuttosto che delle pillole anti-depressive o ansiolitiche? Ma qui non si tratta appunto di questioni filosofiche. Si tratta di una certa imago inconscia del proprio corpo, attraverso cui il proprio corpo è vissuto come persecutore. “Ammalandosi, il mio corpo mi perseguita”. Il corpo incarna, insomma, la figura dell’Altro. L’importante è che il corpo sia radicalmente Altro da me, un non-soggetto che usurpa la mia soggettività.

Questa separazione netta tra il corpo come Altro e “me stesso” è probabilmente acuita nella nostra cultura, che tende a scindere i vissuti soggettivi (si pensi alla passione popolare per “le emozioni”, tutti vogliono leggere di emozioni) dai meccanismi del corpo. È come se ci si lamentasse di sudare freddo e ci si facesse curare per un disturbo di sudorazione, senza rendersi conto che si ha paura: non si ha paura, si suda freddo. Non si ha vergogna, si arrossisce e si pensa che sia un problema di vasi sanguigni facciali. Una donna non ha un’eccitazione sessuale, ha una secrezione vaginale inspiegabile. E così via. Si ha bisogno di una malattia del tutto de-soggettivata a cui il medico deve dare una risposta organica, la pillola giusta.

Un’analisi più approfondita, caso per caso, ci svela però, quasi sempre, che questa sofferenza dovuta al corpo rinvia a un godimento del corpo inteso come godimento dell’Altro: il corpo, facendomi soffrire, gode a mie spese. Ad esempio, un soggetto per mesi ha cercato le cause della misteriosa malattia da cui era affetto: dopo aver mangiato, soffriva di vari dolori, e in particolare, diceva, si gonfiava (un gonfiore che, in verità, percepiva solo lui). Solo quando si rese conto che quei dolori e quel gonfiore non avevano alcuna causa fisica specifica, si rassegnò, per dir così, a una cura psichiatrica. Emerse così il fatto che i disturbi post-prandiali avevano il senso di una punizione après coup: non aveva diritto di godere soggettivamente del cibo. Il corpo si gonfiava, insomma godeva, ma lui come soggetto non godeva affatto… In generale, in casi del genere quel che il soggetto vive come sofferenza fisica è ricostruibile come godimento del corpo Altro a spese del soggetto.

Intravvedo qui un’analogia profonda tra ipocondria e quel che chiamerei rancore sociale. Quel che oggi si chiama populismo – una volta si chiamava in Italia qualunquismo – si basa sull’idea che la casta politica (un tempo la si chiamava “la classe politica”) sia all’origine di tutti i mali sociali. Che insomma Loro godono a discapito di noi popolo, e di me singolo. Cito qui il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, Loro. Loro sono i potenti, quelli che contano… È interessante che Loro non sono i ricchi, gli imprenditori, i finanzieri, bensì i politici, persone insomma che il popolo stesso ha eletto. L’Es di Freud, proiettato sullo schermo sociale, diventa Loro da cui sono separato, loro che godono. Essi sono supposti vivere in un eterno bunga bunga. In effetti, possiamo considerare i politici l’equivalente del corpo per il campo sociale; sono il nostro corpo nella misura in cui li abbiamo messi noi stessi in una posizione di potere, ma sono un corpo che sfugge completamente al nostro controllo, come nell’ipocondria. La politica mi esprime, mi rappresenta, come il mio corpo mi esprime e mi rappresenta, ma a molti essa appare scissa da me, altra da me.

Il cliché universale, oggi, è dire che i politici, specialmente quelli che governano, rubano. Per gran parte della gente comune i politici sono tutti dei magna-magna. Mangiare, la passione orale, diventa cioè la metafora onnicomprensiva ed elementare del godimento di Loro, dell’Altro. La metafora assillante del magna-magna indica il fatto che il godimento dell’altro contro di me ha una qualità orale elementare: l’Altro è un bambino vorace che succhia il mio latte, e mi dissecca. Loro mangiano, ci derubano… e noi non godiamo, soffriamo. Se si dice alla donna e all’uomo comuni che sono stati loro stessi a eleggere questi politici indegni, che insomma loro stessi hanno una qualche complicità con lo stato delle cose presente, si otterrà da lei o da lui un rigetto iroso che ricorda molto quello dell’ipocondriaco a cui non si può dire “se questo corpo ti fa soffrire tanto, è perché c’è una sofferenza tua che così si esprime”. La chiamerei l’ira dell’anima bella (mi riferisco alla famosa analisi di Hegel dell’anima bella). La donna e l’uomo anti-politici, così come l’ipocondriaco, aborriscono l’idea di essere co-responsabili della sofferenza che denunciano. Bisogna denunciare che il politico magna-magna gode a mie spese, così come il corpo che mi assilla gode a mie spese.

Da dove deriva questa evoluzione o involuzione ipocondriaca della politica? Il punto è che la democrazia delude, prima o poi, perché essa si basa su una promessa che non può essere mantenuta. L’utopia democratica afferma che la volontà popolare è quasi onnisciente: basta far esprimere il popolo, e si troverà la soluzione giusta. Ma sappiamo che non è così. Il popolo ha scelto liberamente, col voto democratico, Hitler, Putin, Erdogan… La gente si rende conto che la Grande Promessa – se il popolo sceglie, sceglie per il meglio – non si realizza. E persistono rabbia e disagio. La democrazia non garantisce il mio successo, il mio benessere, la mia felicità. Di chi è la colpa allora? Ma dei politici, ovviamente! L’errore non è nella scelta che fa il popolo, ma il malessere è dovuto al tradimento di quelli che il popolo ha scelto, che pensano a godere per se stessi, che mi succhiano il sangue.

Sono stato impressionato dal fatto che, subito dopo il terremoto che ha distrutto zone del Centro Italia nell’agosto del 2016, molte persone inveissero in televisione contro lo stato, anche se, a dire di tutti, i primi aiuti dopo il sisma erano stati solleciti ed efficienti. Lo stato, ovvero i politici, venivano incolpati del terremoto, variante del vecchio adagio “piove, governo ladro”. Non ce la si prende con la Natura o con Dio, ma con le persone che le stesse vittime del terremoto hanno eletto. Evidentemente la Natura e Dio non possono essere cacciati, i politici si.

La democrazia è come una madre che ci promette il Paese della Cuccagna, o quello di Bengodi, un mondo dove il popolo sovranamente decide e gode delle proprie ricchezze. Ma la vita sociale e politica non è solo godimento, è anche competizione, lotta, sconfitte, gerarchie… Allora, la madre-democrazia che ci ha promesso ogni bene viene indicata come matrigna che ci tradisce. I politici incarnano questa madre cattiva che non ci dà quel che essa ci ha promesso. La delusione diventa denuncia persecutoria. Così l’elettore o l’elettrice nelle società democratiche è tentato/a da un equivalente dell’anoressia (non andare a votare, disinteressarsi del tutto della politica) oppure da una soluzione ben più drastica: trovare un capo, duce, Führer, caudillo… una sorta di super-uomo che decida per tutti, del cui godimento sconfinato io potrò partecipare ad libitum. La democrazia muore così, per ipocondria, nel fascismo.

Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista italiano. Già Primo Ricercatore presso il CNR a Roma, dirige lo ”European Journal of Psychoanalysis”.  Tra i suoi volumi più recenti, La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud (Napoli: Orthotes, 2015); What Are Perversions? (London: Karnac, 2016); Leggere Freud (Napoli: Orthotes, 2018) e Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi (Milano: Mimesis, 2018).